Sons of the Laurel Canyon
Percorsi
musicali in parallelo: Jonathan Wilson e Israel Nash
- a cura di Donata Ricci -
Quanto sono intriganti le affinità artistiche? E quanto
è gratificante andare alla scoperta di quel quid
misterioso, perlopiù inspiegabile secondo i parametri
della razionalità, che lega individui, artisti, creatività
di diversa provenienza? La risposta è prevedibile: molto.
E allora ecco che due recenti uscite discografiche possono
fornire il pretesto per un confronto tra due musicisti
accomunati da significative analogie. Immaginiamoli allo
start di uno slalom parallelo, assolutamente non
competitivo, ciò non di meno utile a garantire agli interessati
parità di trattamento.
Loro si chiamano Israel Nash e Jonathan Wilson
e, se avete presente le loro figure, capirete perché la
prima somiglianza risieda nell’aspetto esteriore: entrambi
sono detentori di lunghe chiome e adottano un abbigliamento
che sembra uscito da un muffoso magazzino di Frisco, rimasto
chiuso dai giorni del Flower Power. Poi, che entrambi
abbiano un nuovo disco in circolazione da pochi mesi l’ho
già detto: due lavori di studio, costituiti interamente
da inediti. Considerevole poi è il fattore età, visto
che i due musicisti sono sostanzialmente coetanei e i
sette anni che li distanziano non sono sufficienti a mettere
in discussione l’appartenenza alla medesima generazione.
Sono poi entrambi nati e residenti sul suolo americano
e, pur provenendo da stati diversi (Missouri per Nash,
North Carolina per Wilson) tutti e due, in età molto giovane,
decidono di trasferirsi altrove: Nash nell’isolamento
del ranch texano di Dripping Springs; Wilson nientemeno
che a Laurel Canyon, luogo fortemente evocativo di una
delle più leggendarie comunità artistiche che siano esistite
e incuneato nelle Hollywood Hills che cingono Los Angeles.
E’ esattamente il genius loci di Laurel, con
la sua visione libertaria e la musica ineffabile che qui
molti artisti amatissimi seppero creare a partire dalla
metà degli anni ’60, è proprio questo spirito, dicevo,
ad avvicinare Jonathan Wilson e Israel Nash. Perché anche
se il secondo preferisce, almeno per il momento, il romitaggio
di un sobborgo di Austin, la sua musica porta il marchio
inconfondibile di Laurel Canyon. Basti ascoltare per esempio
Through the Door, brano contenuto in un album pubblicato
una decina di anni fa e intitolato Israel
Nash’s Rain Plans, giudicato da molti un prodotto
di retrovia nella sua discografia ma che, per quel che
conta, è il mio preferito. Through the Door è già
un assaggio del carattere compositivo di questo quarantaduenne
musicista: si apre con pochi accordi armonicamente ben
assestati, con l’onnipresente pedal steel a stendere un
velo onirico su tutto ciò che trova sul proprio percorso,
poi nel bel mezzo dell’esecuzione ecco che il brano s’invola
in una fuga cosmica.
Quello delle digressioni visionarie è il vero marchio
di fabbrica di questa corrente musicale, che muove dall’heartland
rock per approdare ad un’autonomia espressiva obbediente
soltanto al fluire delle emozioni del compositore, interessato
più a suggerire atmosfere che a vergare spartiti rigidi.
Meglio di me può spiegarlo sicuramente Jonathan Wilson.
Prendiamo la traccia New Home, dove nella parte
finale, solitamente puramente strumentale, si aggrega
un corposo coro dal sapore agreste: anche in questo caso
lo scopo resta quello di creare un’atmosfera, più che
di comunicare un messaggio facilmente intelligibile. New
Home proviene da Dixie
Blur, album del 2020 - dunque penultimo nella discografia
wilsoniana – che per chi scrive rappresenta il suo apice
creativo, dove pesa la presenza di Pat Sansone, inestimabile
polistrumentista dei Wilco che qui suona e co-produce
il disco insieme al titolare. Quanto alla scrittura dei
brani invece Wilson fa, come sempre, tutto da sé. Un’ulteriore
analogia con Israel Nash.
Ebbi modo di ascoltare Wilson dal vivo nel 2012 a Lucca:
apriva addirittura per Tom Petty & The Heartbreakers e
purtroppo il pubblico di Piazza Napoleone gli prestò poca
attenzione poiché l’attesa, direi spasmodica, era tutta
per l’attrazione principale in cartellone. Tuttavia Wilson
a Lucca tenne il suo onesto act, stralunato e fascinoso,
incurante di tutto ciò che non riguardasse la spontaneità
del suo esprimersi. D’altra parte, che lui sia di quelli
che fanno esattamente ciò che gli pare – senza l’ossessione
di piacere o di massimizzare il profitto commerciale,
di cui peraltro non sembra avere ‘sto gran bisogno, visto
che da sette anni è diventato stretto collaboratore di
Roger Waters – ecco, di questo suo sentirsi libero da
un certo tipo di condizionamenti abbiamo conferma nel
nuovo disco, quell’ Eat
the Worm che già dal titolo (“Mangia il verme”)
sembra far di tutto per mettere alla prova il potenziale
acquirente. Ma è soprattutto la dozzina di tracce che
contiene a far storcere il naso ad alcuni, persino tra
i suoi abituali estimatori. Effettivamente, pur trattandosi
di un lavoro per più motivi interessante, l’ascolto comporta
un certo impegno: potremmo definirlo un contenitore di
suoni di disparata provenienza (del resto lo sapevamo
che Jonathan è per natura onnivoro) e, insistendo sulla
metafora sciistica potremmo dire che l’autore fa slalom
in scioltezza tra i generi.
Nel loro dipanarsi i brani mutano ritmo e armonia continuamente
e zappianamente, si ammutoliscono all’improvviso per ripartire
con arrangiamenti completamente differenti e pertanto
spiazzanti. Allo stesso modo le liriche: libere come se
avessero assimilato i poeti beat, indefinite, ribelli
alla tirannia del senso compiuto; ciò nonostante capaci
di risultati poetici che arrivano a segno nel loro proporsi
come istantanei flussi di coscienza. Spesso si tratta
di semplici elencazioni di luoghi, date, nomi, come accade
in Marzipan, opening track di Eat the Worm,
il cui testo sembra un piccolo Murder most foul del
recente Dylan. Vi si menziona Hank Williams e la musica
folk che – afferma – “mi aveva in un certo senso cambiato”;
e poi Roy Acuff e Chet Atkins, il rock’n’roll e il jazz
(“quest’ultimo – dice – era lì da sempre” e questa mi
sembra un’ottima osservazione). Insomma un patchwork stuzzicante
reso ancor più straniante da incursioni strumentali aliene.
Wilson suona tutti gli strumenti (eccetto basso e pianoforte)
ai quali appioppa nomi buffi come “uova di pasqua”, “vox
humana”, “questo, quello, l’altro” e altre bischerate
da burlone qual è. Perché - fa sapere - voleva fare le
cose da solo, in modo da concentrarsi su ciò che desiderava
esprimere. Eppure in mezzo a tanto solipsismo spunta un’ispirazione
di quelle che non ti aspetti: Jim Pembroke, scomparso
un paio di anni fa, cantante della band finlandese Wigwam.
Jonathan ci s’imbatte per caso e resta folgorato dalla
sua musica “stramba” al punto da volerne seguire le orme.
Per il resto, autarchia creativa totale.
Ascolta
la puntata di Motel Life (ADMR Rock
Web Radio) dedicata a Jonathan Wilson e Israel Nash.
Episodio 3, 6 dicembre 2023. A cura di Donata Ricci
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Per reperire qualcosa di similmente libero nella discografia
di Israel Nash occorre riandare a Topaz,
album del 2021 che molti considerano il suo capolavoro
e che viene inaugurato da Dividing Lines, un pezzo
che già dal titolo sembra prendere le distanze dalla forma
tradizionale di canzone, per sostituirla con dilatati
trip lisergici. Per farlo si serve di un vero e proprio
wall of sound dalle tinte gospel, con un prorompente
coro femminile e una generosa dose di ottoni. Già, perché
c’è stato un tempo in cui il nostro songwriter si chiamava
per la precisione Israel Nash Gripka (in seguito perderà
per strada l’ultima parte del nome) e sembrava intenzionato
a seguire il solco di Ryan Adams e ancor più di Neil Young,
scrivendo canzoni da classic songwriting come la stupenda
Drown, estratta dal secondo ineccepibile album
Barn
Doors & Concrete Floors, anno 2011. Drown è
una ballata dark che racconta di colline aride, lavori
malpagati, tentazioni di rivendicazioni poco sindacali
a suon di Colt 45 e un fiume (che un fiume c’è sempre)
dove scendere per depositare il proprio fardello, non
si sa se per riposarsi o per annegare la vita stessa.
Potrebbe essere un racconto di James Anderson condensato
in una canzone, talmente asciutta ed essenziale da rispecchiare
le radici montanare di Israel Nash. Che nasce infatti
in un piccolo paese delle Ozark Mountains, in Missouri
appunto.
Questo spiega perché, in un moto di riconoscenza verso
le proprie origini, abbia intitolato il suo nuovo disco
Ozarker,
abitante dei monti Ozark. Ed è un disco complessivamente
buono, anche se alcuni aspetti possono perplimere: una
produzione ipertrofica ad opera di Kevin Ratterman (che
pure aveva ottenuto buoni risultati con Ray LaMontagne
e My Morning Jacket) e insomma, quel suono troppo pieno
che odora pericolosamente di classic rock. Però non ha
perso l’abitudine di dilatare i brani in divagazioni sognanti.
Nella traccia di chiusura, Nash fa sapere di aver compiuto
un cerchio tornando alla terra natale, dal Texas alle
colline di Ozark: un percorso dal Sud al Midwest del continente
americano che sembrerebbe più immaginario che reale. Quello
che è certo è che lui si sente in pace in quella che chiama
“la terra delle ombre”, vale a dire Shadowland.
Perché sì, prima o poi, nel corso della vita le persone
(e dunque anche gli artisti) avvertono pungente il richiamo
delle proprie origini e l’impulso di tornare, almeno con
la fantasia, ai luoghi che li hanno cresciuti. Jonathan
Wilson, in un’intervista pubblicata sul Buscadero nel
marzo 2020, confessa: “Sono cresciuto in una merdosa
cittadina industriale del North Carolina, nota solo per
il commercio di mobili: non c’era nient’altro, nessun
museo e niente di realmente bello. E’ un luogo dove s’impara
presto ad usare l’immaginazione. Ho pensato di andarmene
e sebbene l’opzione più logica fosse quella di spostarmi
non troppo lontano, in un posto come Nashville, alla fine
ho deciso di andare in California, entrare in una band
e provare a cavarmela. Tutto considerato, penso sia stata
la scelta giusta”. Dichiarazione rilasciata in occasione
dell’uscita di Dixie Blur, disco che tuttavia
contiene una canzone (ineffabile, profondamente autobiografica
e zeppa di ricordi familiari) che esprime, al contrario,
un’intensa nostalgia di casa. S’intitola ’69 Corvette
perché quella era l’automobile che guidava suo padre e
che s’intravede nel relativo
video rintracciabile facilmente in rete: una testimonianza
iconografica che ha tutta l’aria di un romanzo di formazione
compresso in quattro minuti, dove vengono assemblati frammenti
di Super 8 in bianco e nero e Polaroid sbiadite, sereni
pranzi domenicali, i primi tiri a canestro e un acerbo
concertino alla high school. Il testo non fa niente per
mascherare lo struggimento: “A volte penso ancora alla
Carolina, mi manca la mia famiglia, mi manca quel sentimento,
mi manca casa… dove io e mamma bevevamo tequila scadente
e ci facevamo delle gran risate. Papà aveva il gomito
del tennista perché si esercitava al violino; ora lo vedo
rallentare e non è facile accettarlo quando si tratta
del tuo vecchio… Perciò ricordati di dire a mamma e papà
che li ami, ogni volta che puoi”. Un sentimento delicato
che Jonathan mise in valigia quando si trasferì sulla
West Coast.
Per raggiungere casa sua ora bisogna lasciare la Highway
1, la strada panoramica che disegna la costa del Pacifico
e addentrarsi nei canyon che si aprono alle spalle di
Los Angeles. Si raggiunge così il villaggio di Topanga,
dove Jonathan ha costruito la sua casa-studio e dove lavora
di notte per addormentarsi all’alba. Qui scrive le proprie
canzoni e produce dischi altrui (Father John Misty, Grace
Cummings, Roy Harper...) e sperimenta molto perché - dice
– “se il songwriting è una specie di dipendenza, sperimentare
in studio per me è come una droga. Non ha alcun senso
ripetersi.” E che faccia sul serio lo dimostra il
nuovo lavoro licenziato dalla BMG, quell’ Eat the Worm
cui accennavo prima, dove il suono del Laurel Canyon (ricordiamo
che, prima di stabilirsi nel Topanga Canyon, Wilson ha
vissuto a Laurel) che aveva ispirato un po’ tutta la sua
produzione, ecco, quel suono qui viene sporcato, contaminato,
da una sperimentazione spinta, che rende un po’ faticosa
l’assimilazione dei brani, come del resto è difficile
ingoiare il verme rappresentato in copertina e che, secondo
tradizione giace sul fondo delle bottiglie di mescal,
il distillato messicano per cui Jonathan va matto.
Esemplificativo è il brano intitolato Charlie Parker,
che supera i sei minuti e che riguarda effettivamente
Bird, l’immenso sassofonista dalla vita brevissima e devastata
da abusi di droga, alcol, tasche al verde e ricoveri psichiatrici,
come del resto altre esistenze del Be-Bop. Questa traccia,
tra le migliori del disco, dimostra l’elevato grado di
indipendenza compositiva raggiunto da Wilson. Ci infila
di tutto: dall’arrangiamento orchestrale a inserti “marziani”
di sax contralto, in omaggio evidentemente alla musica
di Parker. Un’operazione che ricorda quella compiuta dagli
Steely Dan in Parker’s band, nel cui finale compare
proprio il sax di Parker. In un’intervista a Rolling Stone
del settembre scorso Jonathan Wilson dichiara, a proposito
del suo nuovo lavoro: “Non m’interessa se un brano
dura tredici minuti e se per qualcuno sono troppi, non
m’interessa cosa pensano, non mi offenderebbe nemmeno
che una canzone possa durare novanta minuti”. E alla
domanda se consideri Eat the Worm un atto
creativo di pura liberazione, risponde: “Esatto. Per
concepirlo dovevo far morire il modo in cui percepivo
la mia carriera. Quando è scoppiata la pandemia e di conseguenza
il tour di Dixie blur è stato annullato, mi sono chiesto:
“Davvero ho bisogno di salire sul palco? E perché dovrei
scrivere un altro album? Perché ho qualcosa da dire. E
ciò non ha nulla a che vedere con le aspettative dei fan,
degli amici o del music business”. Può darsi che qualcuno
si senta infastidito da affermazioni di cotanta indipendenza,
che a me appaiono invece apprezzabili per chiarezza e
assenza di calcolo.
Ad ogni buon conto, se desideriamo assaporare il sound
di Laurel Canyon, quella ambrosia che apporta tutt’oggi
effetti benefici alle anime orfane del buon vibe californiano,
il brano perfetto lo troviamo nel secondo album di Wilson,
uscito nel 2011, il cui titolo Gentle
Spirit spiega già molto dello spirito, appunto, della
musica che contiene. In Desert Raven c’è questo
corvo che sorvola il deserto e che è più saggio dell’autore
stesso perché – sono parole sue - gli uccelli possiedono
pace e immobilità. E capacità poetica. E senso delle cose.
Musicalmente in Desert Raven non manca niente per
farne un compendio di pura american music: armonia sognante,
vocalità che più west coast non si può e, a cucire la
trama, una chitarra allmaniana versante Dickey Betts e
forse anche Duane. Ma qui sarebbe materia da esperti.
Ad ogni modo un suono superbo, che ricorda tra l’altro
alcune cose della Chris Robinson Brotherhood, l’esperienza
generata da una costola dei Black Crowes. Ma richiama
anche - e aggiungo “ovviamente” altrimenti cadrebbe il
postulato del parallelo - molte composizioni di Israel
Nash. In Who in Time – insistendo su Rain
Plans - c’è tanto, ma tanto Neil Young, al punto
che il ritornello sembra una Ohio ai fiori di tiglio.
Comunque una gran bella canzone.
Nel frattempo siamo giunti alla manche finale dello slalom
parallelo tra i due “cowboy psichedelici” - come sono
stati definiti - di nuova generazione, ma forse più esattamente
della generazione di mezzo, visto che hanno entrambi superato
i quaranta e dispongono di discografie già consistenti.
E allora cediamo gli ultimi metri a un paio di canzoni,
una a testa, particolarmente rappresentative di questi
due songwriter eterozigoti. Spazio dapprima a Israel Nash
che dall’album Topaz regala la ballata perfetta,
accogliendo il sentire del compare laddove canta a ripetizione
“My heart is a canyon”. Perché alla fine ci si rende conto,
tirate le somme, che è tutta una questione di canyon,
orografici ma anche interiori e il titolo della ballata
è, neanche a dirlo, Canyonheart. Mentre a Jonathan
Wilson assegniamo, da Dixie Blur, la traccia Pirate
che, nonostante il titolo vagamente minaccioso, in realtà
possiede una melodia di indicibile dolcezza. Non è di
questo che abbiamo un gran bisogno?
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