Bob Dylan Un
bluesman in terra etrusca (e il mistero dei megaschermi
spenti)
- a cura di Roberto Giuli -
Bob Dylan & Band, Arena Santa Giuliana (Umbria
Jazz), Perugia, 7 luglio2023
Del legame, remoto e a suo modo profondo, tra Bob
Dylan e Perugia si è parlato spesso, sempre a proposito
di Suze Rotolo, la musa di “Freewheelin’”, la quale nel
1962 frequentava l’Università degli Stranieri. Quello
che la venne a cercare era il primo dei tanti Bob, il
futuro artista planetario, che poi sarebbe tornato tra
gli etruschi circa quarant’anni dopo, nel 2001, per un
concerto che resta nella memoria cittadina.
Umbria Jazz 2023. Il concerto di Robert Allen Zimmerman
apre una kermesse che festeggia il suo primo mezzo secolo,
all’insegna di un ottimo cartellone che vede in scena
tra gli altri Ben Harper, Joe Bonamassa, Stewart Copeland
o Brad Mehldau, alle prese con il suo tributo ai Beatles;
tanto per citare il versante più rock del festival. Il
ferreo regolamento è il consueto, via i cellulari, non
una macchina fotografica, non un maxi schermo (peccato),
non una concessione, un bis, una battuta; e si che Bobby
deve aver faticato sette camicie per pronunciare quel
“grazie, grazie tante” o per soffiare dentro l’armonica
in Every Grain Of Sand, magnifica e conclusiva.
Nemmeno le canzoni si riconoscono, si sa, altrimenti perché
non prendere il pugno di classici tra i più classici e
ripetere all’infinito lo stesso concerto della serie “io
c’ero”?. Invece no, niente, nessuna gioia. Eppure non
si resiste, a vedere Bob Dylan si va, si fa sold out.
Dylan lo si legge, si ammirano i suoi dipinti, la passione
per il personaggio e per la sua musica è come i suoi tour,
infinita.
Bob Dylan c’è, anche se non si vede, esiste, così come
esistono ancora tanti artisti appartenenti a un Novecento
che sembra non voler finire mai e che rifiutano la naftalina.
Pur rispettando il fascino della loro produzione Sessanta,
Settanta o Ottanta che sia e riconoscendo un’attualità
musicale in cento e uno generi nuovi, questi baby boomers
(o anche di più) completamente attempati producono
ancora opere credibilissime. Ascoltare nella fattispecie
l’ultima produzione dell’artista di Duluth, Rough
And Rowdy Ways o Shadow Kingdom del
2023, in cui rivisita fino all’essenza alcuni dei suoi
brani storici (in realtà le incisioni risalgono al 2021
e sono funzionali per l’omonimo film concerto), è un viaggio
oltremodo avvincente. L’ostinarsi nel considerare questi
personaggi solo come fautori della musica “dei nostri
tempi”, contribuisce a confinare la stessa (musica) in
una sorta di stagnante reliquiario; ciò, ripetiamo, senza
negare il fascino di Like a Rolling Stone o Blowin’
In The Wind che siano, né la, in qualche modo, oggettiva
irripetibilità dei giovanili anni che furono. Esiste ancora
una produzione blues, pop o rock, indipendente o dipendente
che sia, di tutto rispetto e odierna, come c’è ancora
una fetta di pubblico, non necessariamente vetusta, che
attende l’ultimo album o l’ultimo download di questo o
quell’artista, lo stesso che magari con i suoi evergreen
ha, senza saperlo, definito tanti momenti privati, personali
e collettivi.
Indi Dylan è Dylan quando si presenta sul palco di Umbria
Jazz e dà vita al suo oscuro blues, Watching
The River Flow, denso come un torrido tramonto, irriconoscibile
manco a dirlo. Un blues che è l’essenza stessa della band
(Tony Garnier al basso, Donnie Herron al violino, Jerry
Pentecost alla batteria e Bob Britt e Doug Lancio alle
chitarre) e di un concerto dai toni arancio, polveroso
come le strade del sud e che passa per pezzi come Most
Likely You Go Your Way, la toccante, intima To
Be Alone With You, I’ll Be Your Baby Tonight,
Gotta Serve Somebody, dai vari Blonde On Blonde,
Nashville Skyline, John Wesley Harding,
Slow Train Coming e via dicendo; oppure Black
Rider, My Own Version Of You, Crossing The
Rubicon, Key West, la splendida Goodbye
Jimmy Reed, I’ve Made Up My Mind To Give Myself
To You (dal recente e menzionato Rough And Rowdy
Ways), sostenute dal piano e da una voce ora sussurrata,
comunque acidula, arcigna.
Tutte canzoni appartenenti ai decenni che furono ma passate
attraverso il tritacarne di una riedizione radicale, ardita,
meravigliosa. I classici ci sono, tanti e sotto mentite
spoglie, il legame con il passato è forte ma si rifiuta
di trasformarsi in uno sterile elogio dei bei tempi andati,
non esiste un “messaggio” (quale dei tanti poi) che si
debba percepire come tradito; protagoniste assolute sono
le note, non servono flash né naftalina. Ma un’originale
“Subterranean” ci potrebbe stare? Certo che sì.
E gli schermi spenti? Questo è, un mistero, come gli etruschi,
per i quali Bob Dylan espresse la propria ammirazione
già ai tempi del concerto al Folkstudio, quando vedeva
Perugia per la prima volta. Era il 1963, sessant’anni
fa esatti, il futuro era alle porte. C’è ancora.