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The Third Man
La biografia di George Harrison

- a cura di Roberto Giuli -

Graeme Thomson
George Harrison
Behind the Locked Door.
[Il Castello Ed., pp.472]

“Se dovessi scrivere un libro su George Harrison, mi limiterei a stampare tutti i suoi testi. Garantisco che ne uscirebbe un ritratto accurato”. La dichiarazione è del produttore Glyn Johns, convinto, forse a ragione, che il chitarrista fosse talmente limpido da risultare incapace di concepire liriche in qualche modo slegate dalla sua realtà. È anche una delle numerose testimonianze sulle quali il critico musicale Graeme Thomson (Mojo, Rolling Stone, tra le altre) stende quest’accuratissima biografia del beatle “tranquillo”, che a vedere lo era ben poco.

La domanda è sempre la stessa, ricorrente e pedante: “serviva davvero un nuovo scritto sui Beatles o su uno di essi?” (il che è lo stesso, i quattro di Liverpool sono un monolithus). Certo che sì, non fosse per la citata accuratezza; inoltre Behind The Locked Door non è opera nuova, bensì risalente al 2013; le traduzioni, si sa, sono sempre un che di spinoso. A riguardo e con un pizzico di cinismo, Derek Taylor, addetto stampa, ha sempre sostenuto che le cose migliori sul tema siano state ormai tutte espresse da almeno quarant’anni; in tal caso basterebbero “Shout” di Philip Norman (1981) come stesura definitiva e, per estensione, l’autobiografia “I Me Mine” dell’anno precedente, tanto per avere in mano un ritratto di Harrison. Per di più, differentemente da John e Paul, molto di quello che conosciamo del beatle timido (di nuovo: mica tanto) ce lo siamo ricavato “di riflesso” dalle biografie collettive, un po’ a conferma del fatto che la sua parabola artistica e umana si sia svolta all’ombra degli illustri colleghi.

“Gli altri due avevano chiaramente un grande talento, ma anche un ego gigantesco che lasciava poco spazio agli altri”. Siamo a pag.123. George è stato insostituibile? Certo, con un enorme senno del poi; ma per gli uni e gli altri a lui vicini egli fu sempre il “fratellino più piccolo”, ruolo che già gli andava stretto nel 1963, al momento di scrivere Don’t Bother Me (indicata sempre come modesta: bisognerebbe sentire il parere degli Smithereens) e che gli divenne insopportabile almeno dal ’68. A quel punto era chiaro non solo il suo livello compositivo, avendo già concepito cose come la superba Taxman o While My Guitar Gently Weeps, ma anche la maturità con la quale aveva attraversato l’intero decennio non curandosi troppo dei vari eroi chitarristici, preferendo piuttosto un non facile percorso interiore, sviluppando le proprie intuizioni e creando alla fine (è lo scorrere del tempo a parlare) qualcosa di originale, spesso unico.

Considerazioni come questa stanno alla base del lavoro di Thomson, il quale mantiene saldo l’equilibrio tra l’artista in pasto, suo malgrado, a un pubblico globale e la gestione dei suoi tratti più intimi. C’era bisogno di una “nuova” opera su Harrison. L’autore scava a fondo come forse mai in passato, partendo proprio dal ritratto di quel “ragazzino adorabile che voleva suonare come Carl Perkins”, dotato forse di minor talento, ma con una ferrea volontà di imparare e crescere, caratteristica forse penalizzante sul momento, ma che finirà poi per portarlo “oltre la musica”, al punto da indicare come frustrante il periodo alla corte di John e compagnia bella.

Lo scrittore traccia con dovizia l’immagine dell’uomo e del rapporto con le proprie origini metabolizzate con concretezza (“vengo da Liverpool, ma questo non significa che non possa desiderare una casa grande”), la sua vicenda personale e quella musicale, da Amburgo (“il periodo migliore”) in poi, attraverso il menzionato successo con i fab four, passando per una rottura dolorosa ma a suo modo liberatoria e per decenni, quelli da solista, caratterizzati da alti e bassi in classifica, dai Traveling Wilburis, dalla passione per le auto, l’attività benefica, la scomparsa di John, le paure e tutto il resto; comunque sempre all’insegna di una riservatezza pressoché assoluta. Thomson sa dunque appassionare il lettore con tutti i particolari del caso, fissando al tempo stesso l’obbiettivo su un George alla perenne ricerca di un qualcosa di diverso e di spirituale, forse di un sé stesso perso dietro una vita di grandi soddisfazioni ma anche, a tratti, di insopportabile fragore. “Appena nove mesi dopo l’assassinio di Kennedy, Harrison mise il veto sull’ipotesi di attraversare San Francisco in auto per salutare i fans”. E siamo nel 1964. Quattrocento e passa pagine, una lettura scorrevole dai tratti profondi. Ne vale la pena.

Ps. Bellissimo l’inserto fotografico.