Scuoiare un coccodrillo, scrutare le
ascelle di una supplente, fare attenzione a chi va in giro
con un martello in tasca, schivare i mariti della madre, sopravvivere
nella mappa di Chicago, scoprire Elvis: Il mondo di
Roy è la celebrazione di una prospettiva unica, che
poi è quella dell’infanzia e dell’adolescenza, una corda tesa
all’infinito tra opposti ed estremi destinati a collidere.
Le storie si susseguono velocissime, come dei flash sparati
a raffica, e sono incastrate una nell’altra con un ritmo forsennato,
senza una particolare coerenza cronologica, se non l’età di
Roy. È un continuum inarrestabile e, a tratti, incontrollabile:
la trama è costituita soltanto dalla loro successione e dalla
personalità di Roy, che è un osservatore acuto, a cui non
sfugge nessun dettaglio, ma è anche un soggetto capace di
svolte repentine, motivo per cui Barry Gifford alterna
con disinvoltura la prima e terza persona. Attorno a lui ruota
un’intera galassia di personaggi: figure singolari e picaresche
come quella del Sultano alias James Word, amici e nemici nelle
strade, volti del cinema (Hedy Lamarr, Ava Gardner, Orson
Welles), del jazz (Art Blakey, John Coltrane, Thelonious Monk,
Ben Webster, Dizzy Gillespie) e del rock’n’roll (Buddy Holly
ed Elvis, che “fa tutto meglio di chiunque altro”), ma soprattutto
una moltitudine di ritratti da cogliere al volo, e in fretta,
prima che svaniscano nel nulla.
Sparire è uno dei refrain più insistenti che distinguono Il
mondo di Roy: è scomparso suo padre, e poi c’è gente rapita
dagli alieni, ammazzata per un niente, il più delle volte
per un’arma di troppo in circolazione, partita per destinazioni
sconosciute o diventata invisibile nei bassifondi o soltanto
sbattuta fuori di casa, senza un destino a cui aggrapparsi,
se non fuggire. Una panoramica che è un’ossessione americana,
e non è così ovvio perché Barry Gifford intinge i dialoghi
nelle forme del baseball, delle stazioni di servizio, dei
bar, delle automobili, di interi paesaggi a Chicago come a
Cuba, freddo e caldo, dentro e fuori, i contrasti che alimentano
un vivaio di protagonisti (e un’infinita teoria di nomi snocciolati
uno dopo l’altro) che durano meno della fiamma di un fiammifero.
Eppure è da quell’effimera e diffusa condizione che Il
mondo di Roy (a cui bisogna aggiungere Wyoming)
genera un moto propulsivo capace di contenere tuareg e gangaceiro,
la scoperta del sesso e la segregazione e le mille avventure
assemblate da Barry Gifford in una folle e ipnotica catena
di montaggio. Il mondo di Roy è l’America, un’America
popolare colta sul fatto nelle sue difficoltà, negli eccessi
e nei limiti e che, in gran parte, è svanita insieme ai suoi
eroi. Come del resto ha suggerito lo stesso Barry Gifford,
Il mondo di Roy è “un tentativo di evocare il ritratto
di un tempo e di un luogo che non esistono più, un ritratto
su cui ho lavorato per quasi mezzo secolo”. È proprio
questa la natura “ellittica” delle storie che si inanellano
dentro Il mondo di Roy, con l’atmosfera di tante Polaroid
ritrovate e accostate secondo uno schema del tutto casuale,
in cerca di un ordito che appartiene alla natura dei sogni
e della memoria e che soltanto la scrittura può, infine, svelare.
L'invenzione del rock'n'roll Un
racconto tratto da Il mondo di Roy (per
gentile concessione di Jimenez
Edizioni e di Barry Gifford)
Il primo disco in assoluto comprato da
Roy fu un 45 giri, un singolo di Little Richard che cantava
Good Golly, Miss Molly, quando aveva nove anni. Poi,
in quello stesso anno, il 1956, comprò il suo primo lp, la
colonna sonora del film L’uomo dal braccio d’oro, in
cui suonavano Shorty Rogers, Shelly Manne, Conte e Pete Candoli
e altri musicisti jazz. Nessuno di questi due dischi poteva
considerarsi un esempio del tipo di musica che sua madre e
sua nonna suonavano al piano e cantavano spesso; quei brani
erano standard e canzoni popolari come La vie en rose,
Satan Takes a Holiday e It Had to Be You. A
Roy queste canzoni piacevano ma non appena ebbe sentito Little
Richard sparare fuori dal piano i primissimi accordi di Lucille
e urlarne le parole, passando poi a Good Golly, Miss Molly,
Tutti Frutti e Slippin’ and Slidin’, capì che
c’era un altro mondo oltre a Autumn Leaves o If
I Didn’t Care e alla scoperta andò fuori di testa.
C’era un tipo di nome “Gin Bottle”
Sam che appariva ogni tanto su Blackhawk Avenue seduto su
una cassa di metallo per le bottiglie del latte suonando la
sua armonica per qualche spicciolo che i passanti riconoscenti
gli tiravano in un cappello capovolto a tesa stretta che teneva
ai suoi piedi sul marciapiede di fronte a sé. Roy si era fermato
ad ascoltare Sam già un paio divolte e quando lo rivide gli
domandò che genere di musica fosse quella che stava suonando.
“Più che altro blues” disse. “Metti
un po’ di pepe in un motivetto che tutti conoscono, qualcosa
di familiare, e quelli ti danno qualche penny in più”.
Era un pomeriggio di metà novembre
quando Roy chiese a Gin Bottle Sam della sua musica. Il cielo
era grigio-marrone punteggiato da macchie scure, e Roy intuì
che stava per nevicare. Sam si scaldò con una sorsata da una
bottiglia da mezzo litro che teneva in una tasca laterale
del lungo cappotto blu. Viper, l’amico di Roy, che era di
due anni più grande, gli aveva detto di come veniva soprannominato
Sam, “Bottiglia di gin”, ma Roy notò che il liquido nella
bottiglia da cui stava bevendo Sam quel giorno era marrone
scuro, non limpido come il gin.
“Tipo, quella che ho appena suonato
è Sportin’ Life, scritta da Brownie McGhee. Al prossimo
giro, Long Distance di Muddy Waters, all’anagrafe:
McKinley Morganfield. Come me, è venuto su a Chicago dal Mississippi
per farsi le ossa. Quell’uomo lì, l’ha inventato lui il rock’n’roll,
fidati”.
Sam rimise a posto la bottiglia nella
tasca del suo cappotto e cominciò a cantare. “You say you love me, darlin’,
please call me on the phone sometime. You say you love me,
darlin’, please call me on the phone sometime. Give me a call,
ease my worried mind”.
Roy ascoltava attento, mentre Sam
soffiava nella sua armonica. Una coppia di passanti lanciò
una moneta da dieci o quindici centesimi nel cappello.
Quando Sam finì la canzone, Roy gli
chiese: “Si chiama blues perché soffiavi [blew] nell’armonica?”.
“Be’, no. Sta tutto nel sentimento,
anche se devi soffiare per tirarlo fuori. Non è che devi per
forza soffiare in uno strumento vero e proprio, però. Possono
essere mani che battono su un tronco, o cani che ululano con
le catene strette al collo. O uomini. Fidati”.
Roy aveva solo un nichelino ma lo
mise nel cappello di Sam. Sam strombazzò un paio di volte
con l’armonica, poi sogghignò e raccolse gli spicci che aveva
guadagnato. Portava dei guanti di cotone rossi e verdi senza
le dita. Sam fece tintinnare le monete nella mano sinistra
e sorrise a Roy. Gli mancavano parecchi denti e aveva delle
macchie di sangue nel bianco degli occhi.
“Devi ascoltare, ragazzino” disse.
“Devi stare attento a quello che senti e forse un giorno comincerai
a capire”.
Sam si alzò e fece cadere le monete
nella tasca sinistra del cappotto. Mise l’armonica nell’altra
tasca, poi strinse la mano destra di Roy con la sua.
“Grazie per avere parlato con me”
disse Roy.
“Ero orfano” disse Sam. “Sai cos’è
un orfano?”.
Roy annuì.
“Non c’era niente di buono, per me,
dove mi avevano messo, così quando ero più o meno come te
me la sono filata per il mio bene. E adesso qui ci sei tu
a farmi le domande. Non è una gran cosa”.
Il mattino seguente Roy raccontò a
Viper della sua conversazione con Gin Bottle Sam. Stavano
camminando lungo il canale che attraversava il quartiere e
il cielo era più scuro del pomeriggio precedente. Non c’erano
ancora state precipitazioni ma per la sera era prevista una
forte nevicata.
“Secondo te che voleva dire Sam quando
parlava di battere sui tronchi o dei cani che ululano con
le catene strette al collo?” domandò Roy.
“Gli schiavi del Sud cantavano mentre
raccoglievano il cotone e spaccavano la legna” disse Viper.
“Fare musica mentre lavoravano li faceva sentire meglio”.
“Tu sai chi è Muddy Waters?”
“Sicuro, lavorava in una piantagione,
è stato scoperto lì, poi è venuto a Chicago a incidere dei
dischi”.
“Sam dice che è quello che ha inventato
il rock’n’roll”.
Viper scoppiò a ridere
“Che c’è di così divertente?”.
“Ogni volta che metto un disco di
Little Richard o di Elvis Presley” disse Viper, “mia madre
si mette a urlare: ‘Cos’è tutto quel battere e ululare’”.