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il rock'n'roll
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#273: Ron Rash; Brian Panowich; James
Lee Burke; Don
Carpenter |
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Raccogliamo in questa puntata speciale di fine
estate quattro recenti romanzi e altrettanti autori (tre in
attività, uno recuperato da un ingiusto oblio) che da
diversi angoli d'America offrono un racconto di un paese spesso
ostile e scuro, con i suoi incubi più feroci, che siano
essi cutoditi fra le montagne e i crinali degli Appalachi, come
accade per due scrittori così diversi come Rash e Panowich,
o negli acquitrini della Louisiana, teatro da sempre delle storie
di un maestro della crime story come Burke, fino a raggiungere
i bassifondi e le prigioni descritti da Carpenter, uno splendido
autore dimenticato il cui esordio Hard Rain Falling (dei primi
anni Sessanta) viene finalmente proposto in una traduzione italiana. |
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Ron
Rash
Il Custode
[La
Nuova Frontiera., pp.256]
Non occorrono particolari trucchi alla letteratura di
Ron Rash per entrare nell’animo del lettore,
il suo “plain spoken”, come direbbero gli americani,
ha la forza che deriva dalla semplicità dei personaggi
e delle storie che popolano i suoi romanzi, da sempre
racchiusi nel piccolo mondo di quell’angolo degli Stati
Uniti che si snoda fra la catena dei monti Appalachi
(Rash è nativo della South Carolina). Un paesaggio umano,
generalmente povero e isolato, vive in simbiosi con
un paesaggio naturale, influenzandosi a vicenda attraverso
esistenze che sembrano seguire il ritmo ciclico della
coltivazione dei campi, del duro e umile lavoro, che
nel caso de Il custode può essere anche
quello di guardiano del cimitero.
È il ruolo assegnato a Blackburn Gant, ragazzone dal
fisico forte ma dal volto segnato irreparabilmente dalla
poliomelite, al quale i genitori hanno trovato un posto
di custode lontano dagli sguardi indiscreti della gente.
Lì ha sviluppato la sua dimensione quotidiana, prendendosi
cura di chi non gli farebbe mai del male: “I morti non
potevano fargli niente di peggio di quanto gli avevano
già fatto i vivi”. Il mondo intorno al cimitero invece
è attraversato dall’inganno e dalla violenza, quella
che vive Jacob, l’amico di infanzia di Blackburn, partito
per la guerra di Corea (Il custode è ambientato
nei primi anni Cinquanta) lasciando la comunità rurale
di Blowing Rock, Carolina del Nord, ma soprattutto il
suo grande amore, Naomi Clarke. Le pagine del romanzo
si aprono proprio con la descrizione potente e feroce
di Jacob che lotta con un soldato nemico per sopravvivere
tra il freddo e il ghiaccio della Corea, pensando soltanto
a salvarsi la pelle perché “Non poteva morire. Dio
o il destino, qualcosa aveva stabilito che lui e Naomi
passassero la vita insieme”.
A casa lo aspetta una nuova fattoria e l’amore di Naomi,
che egli stesso ha affidato alla protezione dell’amico
Blackburn, affinché non le manchi nulla durante l’attesa
del loro bambino, consapevole Jacob che dalla sua famiglia,
i benestanti Hampton, non riceverà nulla. Lo hanno infatti
rinnegato e diseredato per quella scelta, fidanzarsi
con una ragazza povera che era comparsa come un’estranea,
cresciuta in una famiglia di rozzi contadini del Tennessee,
i Clarke, che nulla potevano avere in comune con dei
ricchi commercianti come loro. Da qui si dipana l’intrico
di menzogne e sotterfugi, fino ai più meschini e impensabili,
che gli Hampton costruiranno meticolosamente per impedire
il matrimonio tra il figlio Jacob e Naomi: "Erano
tantissime le bugie da tenere in piedi e altre ne sarebbero
seguite. Somigliavano a una lunga fila di vagoni su
un ripido pendio, bastava lo sganciamento di uno soltanto
per causare un disastro".
Un groviglio che finirà inevitabilmente per mettere
alla prova anche lo stretto legame di amicizia e rispetto
fra Blackburn e Jacob, chiamati entrambi a fare luce
sulle loro ombre interiori, sui sospetti e le incomprensioni
reciproche, cercando di rimettere insieme i pezzi di
una comunità, quella della piccola Blowing Rock, che
ancora una volta deve fare i conti con un apparente
“paradiso”, corrotto invece dall’egoismo che può abitare
ogni famiglia. Rash, più volte accostato ai grandi
narratori della tradizione sudista americana, sembra
piuttosto richiamare, come peraltro nei precedenti
lavori pubblicati da La Nuova Frontiera (Un piede
in paradiso, La terra d’ombra, sempre nella
traduzione di Tommaso pincio) le qualità del linguaggio
limpido e minimale di un Kent Haruf, con lo stesso amore
per i personaggi e il loro muoversi dentro l’ambiente
rurale di un’America spesso ostile e dura nei confronti
delle loro esistenze. Il custode non fa che ribadire
le intenzioni di un autore al quale interessano i temi
universali (qui famiglia, amore, amicizia) e al tempo
stesso i caratteri particolari.
(Fabio
Cerbone)
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Brian
Panowich
Nient'altro che ossa
[NN
Editore , pp.384]
Alle radici di Bull Mountain, c’è un ragazzo
cresciuto in fretta, che ha imparato a combattere per
un padrone molto potente, nella fattispecie Gareth Burroughs.
L’iniziatore della stirpe l’ha accolto nella sua congrega
e Nails alias Nelson McKenna è diventato più di un amico
per il figlio Clayton. Nails è menomato, ha qualche
problema nei movimenti non meno che nel linguaggio,
ma i suoi limiti sono la sua forza: è obbediente e preciso
e, come è noto, per i Burroughs non serve altro. È un
bravo soldato, solo che compie un errore, che non è
un errore. Salva una ragazza, Dallas, da un tentativo
di violenza, ma non è solo un salvataggio (un uomo resta
a terra e non si rialza più), e Dallas non è proprio
un nome del tutto vero.
Avviene per una scelta, senza dubbio, ma l’impeto non
calcola né i danni immediati (si tratta anche di un
omicidio) né i risvolti collaterali. Nails ha agito
d’istinto e pur essendo nel giusto, Gareth Burroughs
non può permettersi troppe attenzioni o gesti di generosità
fuori dal suo controllo e gli organizza una via d’uscita
o una condanna (un po’ tutte e due). Clayton, che sta
costruendo la sua casa con l’aiuto del padre, e lo conosce
fin troppo bene, sente che su Nails è calata una sentenza
e si muove a sua volta per aiutarlo. Cambia lo scenario.
Sulle montagne riposa solo un mucchio di ossa e verso
Jacksonville convergono interessi, condizioni e legami
nuovi e antichi. Jacksonville non è la McFalls County:
lì l’influenza dei Burroughs arriva (comunque), ma è
filtrata dalla distanza e dal tempo e, più di tutto,
da una motivazione improbabile. Clayton Burroughs agisce
per amicizia, un termine che non è contemplato nel limitatissimo
vocabolario di Bull Mountain, dove tutto è in termini
di do ut des, e costringe il padre a intervenire in
nome della famiglia. La famiglia non te la scegli e
trattandosi dei Burroughs rimane una spada di Damocle.
Saltano un po’ tutte le regole ed è come passare dal
bianco e nero e vedere a colori: sul canovaccio classico
di un road movie, che va da Bonnie & Clyde a Thelma
& Louise, Brian Panovich crea un intricato susseguirsi
di connessioni rendendo comprensibili (se non proprio
accettabili) persino gli inamovibili codici di Gareth
Burroughs, che resta in cima all’albero genealogico
e alla catena alimentare. Quella che per Nails e Dallas
doveva essere una rotta verso nuove identità e una vita
diversa, si trasforma in un percorso a ostacoli tra
stanze di motel, stazioni di servizio, parcheggi e tutto
un catalogo di fotogrammi sfuggenti che Brian Panowich
sa filtrare con un ritmo altalenante, a tratti frenetico
e compulsivo, come l’abbiamo già conosciuto, altrimenti
più complesso e riflessivo.
L’alternarsi delle canzoni di R.E.M. (Fall On Me),
Mazzy Star (Fade to You), Nirvana (All Apologies),
Soul Asylum (Runaway Train), Goo Goo Dolls, (Slide),
Garth Brooks (Friends In Low Places), Tom Petty
(You Wreck Me e Running Down A Dream),
The Sundays (Wild Horses) è il contrappunto specifico
che risalta più che in altre occasioni. È una colonna
sonora particolare che inquadra il tempo non meno della
geografia: qui siamo proprio all’inizio di tutta la
saga, una sorta di prequel che spiega molte cose (a
partire dal rapporto tra padre e figlio nei Burroughs)
e, oltre a introdurre il personaggio di Nails, sposta
la prospettiva dai limitati confini di Bull Mountain.
Le fughe e gli inseguimenti attraverso “un paese
fatto di luci al neon, cemento e scelte sbagliate”
fanno risaltare una gamma di possibilità compresa l’ipotesi,
dichiarata dallo stesso Brian Panowich, che possa esistere
una speranza “anche negli angoli più bui del profondo
sud degli Stati Uniti”. Tra i tanti spiragli lasciati
aperti da Nient’altro che ossa è il più
appariscente, ma non è nulla rispetto ai dubbi e agli
enigmi che insinua su quello che è stato e su quello
che verrà.
(Marco
Denti, tratto dal blog di BooksHighway)
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James
Lee Burke
Una cattedrale privata
[Jimenez
edizioni, pp.400]
Romanzo dopo romanzo, Dave Robicheaux,
oltre a diventare il miglior anfitrione della Louisiana
e di un’America oscura, si è trasformato in una sorta
di sentinella morale, che segue una contorta, ma efficace
filosofia alimentata dai suoi drammi personali non meno
che dai conflitti della terra in cui vive. Questa è
ormai la definizione delle sue storie, dove la trama
resta funzionale a fornire un background alla sua evoluzione.
Succede anche in Una cattedrale privata,
che comincia attorno a Johnny Shondell e Isolde Balangie,
una coppia di giovani musicisti che aspirano a trovare
un ruolo nell’industria discografica e si ritrovano
a scontrarsi con il solito sottobosco di produttori,
manager, speculatori e truffatori assortiti.
La loro avventura (e la loro storia) è messa in pericolo
dalle rispettive famiglie che si combattono da secoli.
La faida si perde nel tempo e nelle idee dei capostipiti
rimasti dovrebbe trovare una tregua, se non proprio
una convivenza. Il prezzo da pagare è la stessa Isolde,
data in pegno a suggellare la provvisoria cessazione
delle ostilità. Il traffico di esseri umani, a sfondo
sessuale, è un reato particolarmente odioso e quando
Dave Robicheaux lo scopre, accende una scintilla che
è destinata a far esplodere questa versione di Romeo
e Giulietta in salsa cajun, molto speziata, e avvolta
in una nebbia torbida e psichedelica.
La terre comune di Una cattedrale privata resta
collocata sulla mappa nell’andirivieni tra New Iberia
e New Orleans, con gli interventi spropositati di Clete
Purcel, i bassifondi brulicanti di un’umanità dolente
e di rari alfieri dell’innocenza e della bellezza. Le
baruffe, le risse, i colpi di scena (a raffica) sono
soltanto gli aspetti superficiali e spettacolari che
punteggiano un territorio stratificato, sia nello spazio
che nel tempo, dove, nell’atmosfera umida e lattiginosa
del bayou, sospeso tra le maree e le paludi, si mescolano
fantasmi evanescenti e mostri molto reali. L’apparizione
di un antico galeone, oltre a riaccendere tragici ricordi
del commercio degli schiavi, spalanca le porte di universi
paralleli, che in Louisiana hanno ragioni simboliche
e metaforiche per esistere e continuare ad asfissiare
ogni vita quotidiana.
Con Una cattedrale privata, James Lee Burke
conduce in una vasta zona grigia dove la realtà e le
tenebre dei sogni e degli incubi si mescolano come il
ghiaccio nel Jack Daniel. Più di Dave Robicheaux, che
pare ipnotizzato dagli spettri, se ne avvede Clete Purcel:
“Questa volta è diverso, tutto quello che abbiamo fatto.
Il modo in cui il mondo appare. Come se stessimo entrando
e uscendo dal tempo”. L’elemento soprannaturale,
non insolito nei romanzi di James Lee Burke in Una
cattedrale privata è ancora più ingombrante. L’intreccio
di passioni, scontri, legami (che risalgono al passato,
e fino all’Italia), con le apparizioni mefistofeliche
di Gideon Richetti, che si rivelerà un alleato insolito
e misterioso, conducono Streak alias Dave Robicheaux
e Clete Purcel in un vortice allucinante di deviazioni,
che non esclude nulla, dalla pedofilia alle torture
medievali. I tormenti di Dave Robicheaux diventano un
refrain ricorrente più che mai e le visioni che condivide
con il suo socio diventano via via una forza gigantesca
e oppressiva finché lo stesso James Lee Burke non spiega
che “ognuno di noi ha una cattedrale privata che
si guadagna, un posto speciale a cui ritorna quando
il mondo prima o poi diventa troppo, e smarrimento e
disperazione vengono con il sorgere del sole”.
Il processo di identificazione con Dave Robicheaux arriva
così ua n punto di non ritorno: la rigorosa percezione
di una netta distinzione tra bene e male vacilla, l’idea
stessa di giustizia collassa su se stessa sotto il peso
della burocrazia e dei politici e viene superata dalla
vendetta, intesa come resa dei conti tout court, senza
esclusioni di colpi, in questo o nell’altro mondo. In
questo la premiata ditta dei Bobbsey Twins non si lascia
sfuggire nulla e, per fortuna (nostra e loro) colpisce
durissimo. L’epigrafe di Muddy Waters diceva già tutto
fin dall’inizio, ma lì dentro c’è un’altra storia, ancora
più lunga e complicata.
(Marco
Denti, tratto dal blog di BooksHighway)
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Don
Carpenter
Hard Rain Falling
[Edizioni
Clichy, pp.456]
Ci sono almeno tre libri in Hard
Rain Falling. Il primo è un romanzo di formazione
che si svolge attorno al tavolo da biliardo. Il secondo
è un tuffo del girone dantesco dei tribunali e delle
carceri. L’ultimo ci accompagna a spiare la presunta
normalità di una famiglia e i suoi tentativi di restare
unita. Attorno al personaggio che attraversa tutte e
tre le fasi, Jack Levitt, si coagulano le storie di
Billy Lancing (soprattutto), Denny e Bobby. Sono poco
più che bambini, i loro destini si dividono e si intersecano,
ma restano degli irremovibili outsider. La forza di
Jack, che deriva dal terrore, dalla solitudine e dall’abbandono,
è un motore inarrestabile, ma anche sconsiderato e selvaggio.
Come ammette lo stesso Jack, in quelle condizioni il
più delle volte “ne sai abbastanza per capire che
ciò che provi è insensato, ma non ne sai abbastanza
per capire perché”.
È un bel dilemma e il gioco d’azzardo e il biliardo,
che ritorna come se per Don Carpenter fosse un
modo per fare ordine attraverso le linee, quasi un codice
a sé stante, sono gli elementi che attraggono e coinvolgono,
con “un senso di aspettativa quasi sensuale”,
e attorno ai quali ruota tutta la vita nei bassifondi.
Sono un pozzo senza fondo con gente che rimane intrappolata
perché “la vita sembrava piena di promesse che poi
si riducevano a niente. Non poteva che andare così,
perché erano delle false promesse; non potevano che
essere false, perché erano troppo allettanti”. Una
constatazione amara che segue Jack (e Billy) da Portland
a San Francisco, da Las Vegas a Seattle: in tutta la
costa occidentale gli spazi sono infiniti e angusti
nello stesso tempo. Si sovrappongono, persino, finché
Jack non viene arrestato, giudicato e condannato.
La differenza tra giustizia ed equità emerge nelle privazioni,
nella corruzione e negli abusi del sistema carcerario,
un luogo dove il potere si esprime in tutte le sue deformazioni.
Una situazione di infinita precarietà, vissuta in modo
particolare da Jack che “stava ancora cercando di
assorbire le impressioni e i suoni della prigione; era
la sua nuova casa, e si aspettava che fosse, quasi desiderava
che fosse, la sua casa per il resto della vita. Perché
pensare in qualsiasi altra maniera significava sperare,
e lui sperava di aver perso la speranza”. Il quadro
psicologico di Jack e di Billy Lancing, che il primo
ritrova proprio in prigione, è delineato con estrema
chiarezza perché “lo scopo della prigione è di punire
e qualunque ravvedimento è puramente accidentale. Alla
società non frega un cazzo di quello che ti succede,
e tu lo sai. La società è un animale, proprio come tutti
quanti noi”. Non è un caso che Don Carpenter richiami
Caryl Chessman, che testimoniò a lungo la brutalità
del sistema carcerario, dove tutto è “una questione
di delicato equilibrio tra sfida e obbedienza”.
Lasciatosi Alcatraz e San Quentin alle spalle, e con
“la volontà di fare qualcosa della propria vita”,
Jack trova lavoro in una pasticceria e incontra in modo
rocambolesco Sally, che lo introduce a un livello più
agiato di imprenditori, faccendieri e affaristi, parti
integranti della nazione e del sistema. Jack e Sally
formano una traballante famiglia, con un figlio che
chiameranno Billy, ma l’eco della giungla è comunque
più forte: “All’inizio ti abitui a fare una certa
vita e fingi che non esista altro, finché di colpo ti
ricordi di tutte le cose che si possono fare, e il desiderio
diventa forsennato e tutto il resto sbiadisce”.
Lo stesso Jack, nonostante tutto, non riesce a liberarsi
dei suoi trascorsi e ammette che “per quanto cercasse,
nel suo passato non riusciva a scovare niente che giustificasse
la sua lotta. Non aveva combattuto il volto oscuro della
società; non era nemmeno sicuro di cosa fosse. Aveva
combattuto e basta”. Quello che gli rimane alla
fine è quello che rimane più o meno anche a noi: “A
poco a poco, grazie ai suoi libri, ai suoi dischi, alle
sue lunghe passeggiate solitarie, al semplice scorrere
del tempo, cominciò ad accettare la sua vita così com’era”.
Il linguaggio è crudo, mai accomodante o consolatorio
e Don Carpenter lascia affiorare riferimenti impliciti
ed espliciti a Joyce, Beckett, Cechov, Dostoevskij e
cita anche Hemingway (Per chi suona la campana)
e Faulkner (Il borgo), ma l’influenza più evidente
è quella di Nelson Algren dove Hard Rain Falling,
già nel 1960, racconta un’America viscerale, rapace
e ipocrita, arrivando molto vicino alla verità. Nel
prologo c’è abbastanza sofferenza da riempire un intero
romanzo, l’epilogo è una cartolina beffarda dalla Costa
Azzurra, e non è un finale felice.
(Marco
Denti, tratto dal blog di BooksHighway)
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