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Eric Andersen
Double Live report

- a cura di Donata Ricci e Remo Ricaldone -

Chiari (BS), Studio ADMR Rock Web Radio, 5 ottobre 2024

Eric Andersen (foto: © Donata Ricci) Steve Addabbo (foto: © Donata Ricci)

Siano benedetti gli showcase. Quelle situazioni intime da trenta persone o poco più dove ci si conosce tutti e sembra di stare ad una serata tra amici. Quei contesti dove il mito si fa carne, perché ce l’hai a tre metri lineari, puoi percepirne il respiro e magari passargli una Golia se te la chiede. Fa già buio quando parcheggio davanti allo studio di Radio ADMR in questa sera di primo autunno, eppure riconosco subito lo spilungone fermo sulla strada, che non sarà la highway che intitolava il suo primo disco, ma resta pur sempre il luogo ideale per chi è stato amico di Jack Kerouac. Eccolo qui l’affascinante Eric Andersen, vestito total black a partire dal Borsalino calato sulla testa; ecco il ragazzone di cui s’innamorarono legioni di fanciulle del Village e più tardi colleghe musiciste frequentate nei Chelsea days o nella lunga notte norvegese. Insomma eccolo qui, in tutta semplicità, uno dei più grandi cantautori americani del Novecento.

A doverne raccontare le gesta artistiche non si saprebbe da dove cominciare, tanto ci sarebbe da dire, ma fortunatamente stasera non serve: mi siedo e mi godo il suo storytelling, lasciandomi trasportare dove vuole lui con la sua chitarra acustica, per un’ora abbondante di performance. Ad accompagnarlo all’elettrica siede nientemeno che Steve Addabbo, stimatissimo produttore e ingegnere del suono che – solo per citare l’impresa più recente – ha posto la firma sul cofanetto da 27 cd di Bob Dylan and The Band. Da anni ormai accompagna Andersen nei suoi tour, dunque conosce il repertorio del songwriter di Pittsburgh come le sue tasche e pertanto anche questa sera si fa trovare preparato ad ogni brano, pur in assenza di una scaletta prestabilita. Eric sembra scegliere sul momento i pezzi da eseguire, come se andasse a braccio, sfogliando accuratamente il quadernone appoggiato al leggio. Scruta le pagine con i suoi occhi scuri mormorando qualcosa tra sé e rivolgendo rapidi sorrisi al pubblico, come a scusarsi dell’attesa.

Sono appena accennati i suoi sorrisi, denotano una specie di pudore quasi temesse l’invadenza di un’ilarità sfacciata. Comunque ci siamo, la scelta è caduta su Florentine ed è una pesca d’altura perché proviene dal capolavoro Blue River. Il ritratto delicato della ragazza è in definitiva una canzone d’amore (“Love’s the song I sing” - L’amore è la canzone che canto) argomento prediletto da questo compositore romantico che non a caso è nato nel giorno di San Valentino. Il timbro vocale è rimasto profondo e pastoso come lo abbiamo sempre conosciuto, soltanto leggermente arrochito dagli anni ma perfettamente intonato e senza sbavatura alcuna. Poi però, a rammentarci di non essere stato soltanto il cantore delle relazioni amorose, ecco irrompere il ritmo serrato di You can’t relive the past, magnifica composizione dalla genesi funambolica dove si sente la mano di Lou Reed, che infatti firmò la musica imprimendole la tipica perentorietà di pochi accordi ben assestati; è la perfetta cornice al testo di Eric giocato sulla dichiarazione reiterata che “non puoi rivivere il passato”, a metà tra rabbia e amara rassegnazione, dato che le persone care sono perse, il nostro corpo invecchia e in altre parole non si può riavvolgere il nastro. Efficacissima l’interpretazione di questa sera, che attinge ulteriore drammaticità dalla consapevolezza degli ottant’anni.

Eric Andersen & Steve Addabbo (foto: © Donata Ricci)

Ma subito Eric si addolcisce, osserva i poster alle pareti dello studio, complimentandosi per il livello degli artisti transitati da Chiari. Ha ottime parole anche per Steve Addabbo, al quale cede la scena per l’esecuzione di una canzone. A seguire, dopo una Violets of Dawn valida per qualsiasi stagione, ecco emergere il cantautore letterato, quello sedotto dalla Poesia, colui che ha vergato poemetti in musica, sostanzialmente degli spoken word che potrebbe averli scritti Ferlinghetti. Peccato che in questo contesto non siano proponibili né i dieci minuti di Ghosts Upon the Road né tantomeno i venti abbondanti di Beat Avenue. Ma siccome la passione per l’espressione poetica bussa sempre decisa, ecco che introduce Lord Byron, il poeta londinese vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800, al quale Andersen nel 2016 dedicò un intero disco, il secondo della trilogia letteraria comprendente anche Albert Camus ed Heinrich Boll. E, credetemi, fa una certa impressione leggere nei crediti “lyrics Lord Byron – music Eric Andersen”: due poeti separati da un paio di secoli ma vicinissimi nello spirito. Si sofferma diffusamente a parlarci della figura di Byron, rapito dalla sua grandezza, declamando i versi che poco dopo ci canterà. E non risparmia una frecciatina a Jim Morrison quando mormora che non potrebbe reggere il confronto con il suo amato poeta. Vedendolo così coinvolto, azzardo un gesto e dal mio posto alzo il relativo cd che ho portato con me e glielo mostro. Per tutta risposta sorride sorpreso e lo indica al resto del pubblico.

Poi seguiranno altre canzoni, ancora selezionate meticolosamente dal quadernone, che non so cosa darei per dargli una sbirciatina. Il pubblico si è mostrato costantemente partecipe e consapevole della caratura del musicista che ha di fronte, il quale al termine si trattiene per autografare dischi e fare due chiacchiere. E anche se alla mia domanda sul significato di Love Will Meet Again – da Sweet Surprise e da sempre la mia canzone preferita - risponde che non lo sa perché l’aveva “scritta insieme alla bassista” (Jennifer Condos, ndr) per me sarà sempre la sua voce a sussurrare quel verso immortale che fa così: “Time has no limitations, love will meet again”.

(Donata Ricci)


Torino, Folk Club, 11 ottobre 2024

Eric Andersen & Steve Addabbo (foto: © Remo Ricaldone)

Scendere le ripide scale che portano al seminterrato del Folk Club di Torino è immergersi, grazie alle moltissime foto appese ai muri, in un viaggio a ritroso nei trentasei anni di vita di una vera istituzione del capoluogo subalpino, un angusto ma accogliente ritrovo di appassionati che l’hanno mantenuto in vita tra mille difficoltà e anche tra mille soddisfazioni. Eric Andersen è quasi di casa al Folk Club, con numerose apparizioni sul suo piccolo palco fin dal lontano 1992 quando si esibì in quella breve ma intensa avventura musicale con Rick Danko e Jonas Fjeld. Era dal 2019 che Eric non tornava a Torino e nel frattempo, come lui ha sottolineato durante il concerto, è cambiato molto, sono successe cose impensabili e sono passati gli anni con l’alternanza si speranze e disillusioni in un mondo sempre più conflittuale e meno empatico.

La penultima tappa del tour di quest’anno ha visto un Eric Andersen purtroppo non al meglio come salute, tormentato da una fastidiosa tosse e da un’influenza (una ‘boogie woogie flu’ come l’ha scherzosamente definita) che ne ha intaccato l’approccio melodico con la voce più fragile e alcune interruzioni che comunque non gli hanno impedito di portare a termine un set decisamente lungo viste le sue condizioni. Quasi due ore in cui il suo partner, un eccellente Steve Addabbo alla chitarra elettrica che lo ha supportato con un affetto e una dolcezza unici, ha mostrato qualità e gusto ritagliandosi anche uno spazio personale proponendo una autobiografica River Town che ha svelato anche buon talento interpretativo oltre all’assodata bravura nel ruolo di produttore e ingegnere del suono.

Eric Andersen ha dato vita ad un percorso in cui quasi ogni stagione musicale ha avuto modo di emergere, dai suoi ‘folk days’ dove Thirsty Boots ha rappresentato uno dei punti più alti anche dal punto di vista emozionale e Close The Door Lightly When You Go ha catturato il cuore del pubblico con grande intensità. Uno spazio importante lo ha avuto Blue River con la title-track che purtroppo non ha potuto innalzare la sua magnifica melodia a causa delle difficoltà vocali di Eric, riprendendosi poi con una toccante versione di Wind And Sand e una Florentine presentata come introduzione al concerto che a mio parere è risultata un po’ troppo ‘timida’ e discreta.

I legami con l’amata letteratura britannica e l’amore per le poesie di Lord Byron dallo stesso Andersen musicate con risultati di assoluto valore, l’omaggio a Lou Reed con una potente You Can’t Relive The Past e un’anticipazione del prossimo disco programmato per il giorno del compleanno del nostro il 14 di febbraio, San Valentino hanno costituito parti fondamentali di un set portato a termine con evidente fatica e presentando il musicista ormai ottantunenne di Pittsburgh, Pennsylvania nella sua versione più esile e forse per questo più umanamente tenera.

Un misto di velata tristezza, di ricordi ancora vividi e di una continua e profonda interazione tra pubblico e artista hanno reso la serata un altro tassello di una vita vissuta intensamente.

(Remo Ricaldone)