Siano benedetti gli showcase. Quelle situazioni intime
da trenta persone o poco più dove ci si conosce tutti
e sembra di stare ad una serata tra amici. Quei contesti
dove il mito si fa carne, perché ce l’hai a tre metri
lineari, puoi percepirne il respiro e magari passargli
una Golia se te la chiede. Fa già buio quando parcheggio
davanti allo studio di Radio ADMR in questa sera di primo
autunno, eppure riconosco subito lo spilungone fermo sulla
strada, che non sarà la highway che intitolava il suo
primo disco, ma resta pur sempre il luogo ideale per chi
è stato amico di Jack Kerouac. Eccolo qui l’affascinante
Eric Andersen, vestito total black a partire dal
Borsalino calato sulla testa; ecco il ragazzone di cui
s’innamorarono legioni di fanciulle del Village e più
tardi colleghe musiciste frequentate nei Chelsea days
o nella lunga notte norvegese. Insomma eccolo qui,
in tutta semplicità, uno dei più grandi cantautori americani
del Novecento.
A doverne raccontare le gesta artistiche non si saprebbe
da dove cominciare, tanto ci sarebbe da dire, ma fortunatamente
stasera non serve: mi siedo e mi godo il suo storytelling,
lasciandomi trasportare dove vuole lui con la sua chitarra
acustica, per un’ora abbondante di performance. Ad accompagnarlo
all’elettrica siede nientemeno che Steve Addabbo,
stimatissimo produttore e ingegnere del suono che – solo
per citare l’impresa più recente – ha posto la firma sul
cofanetto da 27 cd di Bob Dylan and The Band. Da anni
ormai accompagna Andersen nei suoi tour, dunque conosce
il repertorio del songwriter di Pittsburgh come le sue
tasche e pertanto anche questa sera si fa trovare preparato
ad ogni brano, pur in assenza di una scaletta prestabilita.
Eric sembra scegliere sul momento i pezzi da eseguire,
come se andasse a braccio, sfogliando accuratamente il
quadernone appoggiato al leggio. Scruta le pagine con
i suoi occhi scuri mormorando qualcosa tra sé e rivolgendo
rapidi sorrisi al pubblico, come a scusarsi dell’attesa.
Sono appena accennati i suoi sorrisi, denotano una specie
di pudore quasi temesse l’invadenza di un’ilarità sfacciata.
Comunque ci siamo, la scelta è caduta su Florentine
ed è una pesca d’altura perché proviene dal capolavoro
Blue
River. Il ritratto delicato della ragazza è in definitiva
una canzone d’amore (“Love’s the song I sing” - L’amore
è la canzone che canto) argomento prediletto da questo
compositore romantico che non a caso è nato nel giorno
di San Valentino. Il timbro vocale è rimasto profondo
e pastoso come lo abbiamo sempre conosciuto, soltanto
leggermente arrochito dagli anni ma perfettamente intonato
e senza sbavatura alcuna. Poi però, a rammentarci di non
essere stato soltanto il cantore delle relazioni amorose,
ecco irrompere il ritmo serrato di You
can’t relive the past, magnifica composizione
dalla genesi funambolica dove si sente la mano di Lou
Reed, che infatti firmò la musica imprimendole la tipica
perentorietà di pochi accordi ben assestati; è la perfetta
cornice al testo di Eric giocato sulla dichiarazione reiterata
che “non puoi rivivere il passato”, a metà tra rabbia
e amara rassegnazione, dato che le persone care sono perse,
il nostro corpo invecchia e in altre parole non si può
riavvolgere il nastro. Efficacissima l’interpretazione
di questa sera, che attinge ulteriore drammaticità dalla
consapevolezza degli ottant’anni.
Ma subito Eric si addolcisce, osserva i poster alle
pareti dello studio, complimentandosi per il livello degli
artisti transitati da Chiari. Ha ottime parole anche per
Steve Addabbo, al quale cede la scena per l’esecuzione
di una canzone. A seguire, dopo una Violets of Dawn
valida per qualsiasi stagione, ecco emergere il cantautore
letterato, quello sedotto dalla Poesia, colui che ha vergato
poemetti in musica, sostanzialmente degli spoken word
che potrebbe averli scritti Ferlinghetti. Peccato che
in questo contesto non siano proponibili né i dieci minuti
di Ghosts Upon the Road né tantomeno i venti abbondanti
di Beat Avenue. Ma siccome la passione per l’espressione
poetica bussa sempre decisa, ecco che introduce Lord Byron,
il poeta londinese vissuto a cavallo tra ‘700 e ‘800,
al quale Andersen nel 2016 dedicò un
intero disco, il secondo della trilogia letteraria
comprendente anche Albert Camus ed Heinrich Boll. E, credetemi,
fa una certa impressione leggere nei crediti “lyrics Lord
Byron – music Eric Andersen”: due poeti separati da un
paio di secoli ma vicinissimi nello spirito. Si sofferma
diffusamente a parlarci della figura di Byron, rapito
dalla sua grandezza, declamando i versi che poco dopo
ci canterà. E non risparmia una frecciatina a Jim Morrison
quando mormora che non potrebbe reggere il confronto con
il suo amato poeta. Vedendolo così coinvolto, azzardo
un gesto e dal mio posto alzo il relativo cd che ho portato
con me e glielo mostro. Per tutta risposta sorride sorpreso
e lo indica al resto del pubblico.
Poi seguiranno altre canzoni, ancora selezionate meticolosamente
dal quadernone, che non so cosa darei per dargli una sbirciatina.
Il pubblico si è mostrato costantemente partecipe e consapevole
della caratura del musicista che ha di fronte, il quale
al termine si trattiene per autografare dischi e fare
due chiacchiere. E anche se alla mia domanda sul significato
di Love Will Meet Again – da Sweet Surprise
e da sempre la mia canzone preferita - risponde che non
lo sa perché l’aveva “scritta insieme alla bassista” (Jennifer
Condos, ndr) per me sarà sempre la sua voce a sussurrare
quel verso immortale che fa così: “Time has no limitations,
love will meet again”.
Scendere le ripide scale che portano al seminterrato
del Folk Club di Torino è immergersi, grazie alle moltissime
foto appese ai muri, in un viaggio a ritroso nei trentasei
anni di vita di una vera istituzione del capoluogo subalpino,
un angusto ma accogliente ritrovo di appassionati che
l’hanno mantenuto in vita tra mille difficoltà e anche
tra mille soddisfazioni. Eric Andersen è quasi
di casa al Folk Club, con numerose apparizioni sul suo
piccolo palco fin dal lontano 1992 quando si esibì in
quella breve ma intensa avventura musicale con Rick Danko
e Jonas Fjeld. Era dal 2019 che Eric non tornava a Torino
e nel frattempo, come lui ha sottolineato durante il concerto,
è cambiato molto, sono successe cose impensabili e sono
passati gli anni con l’alternanza si speranze e disillusioni
in un mondo sempre più conflittuale e meno empatico.
La penultima tappa del tour di quest’anno ha visto un
Eric Andersen purtroppo non al meglio come salute, tormentato
da una fastidiosa tosse e da un’influenza (una ‘boogie
woogie flu’ come l’ha scherzosamente definita) che ne
ha intaccato l’approccio melodico con la voce più fragile
e alcune interruzioni che comunque non gli hanno impedito
di portare a termine un set decisamente lungo viste le
sue condizioni. Quasi due ore in cui il suo partner, un
eccellente Steve Addabbo alla chitarra elettrica che lo
ha supportato con un affetto e una dolcezza unici, ha
mostrato qualità e gusto ritagliandosi anche uno spazio
personale proponendo una autobiografica River Town
che ha svelato anche buon talento interpretativo oltre
all’assodata bravura nel ruolo di produttore e ingegnere
del suono.
Eric Andersen ha dato vita ad un percorso in cui quasi
ogni stagione musicale ha avuto modo di emergere, dai
suoi ‘folk days’ dove Thirsty
Boots ha rappresentato uno dei punti più alti
anche dal punto di vista emozionale e Close The Door
Lightly When You Go ha catturato il cuore del pubblico
con grande intensità. Uno spazio importante lo ha avuto
Blue River con la title-track che purtroppo non
ha potuto innalzare la sua magnifica melodia a causa delle
difficoltà vocali di Eric, riprendendosi poi con una toccante
versione di Wind And Sand
e una Florentine presentata come introduzione al
concerto che a mio parere è risultata un po’ troppo ‘timida’
e discreta.
I legami con l’amata letteratura britannica e l’amore
per le poesie di Lord Byron dallo stesso Andersen musicate
con risultati di assoluto valore, l’omaggio a Lou Reed
con una potente You Can’t Relive The Past e un’anticipazione
del prossimo disco programmato per il giorno del compleanno
del nostro il 14 di febbraio, San Valentino hanno costituito
parti fondamentali di un set portato a termine con evidente
fatica e presentando il musicista ormai ottantunenne di
Pittsburgh, Pennsylvania nella sua versione più esile
e forse per questo più umanamente tenera.
Un misto di velata tristezza, di ricordi ancora vividi
e di una continua e profonda interazione tra pubblico
e artista hanno reso la serata un altro tassello di una
vita vissuta intensamente.