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Carl Sandburg
American Songbag

- a cura di Marco Denti -

Nella primavera del 1964 Paul Clayton e Bob Dylan fanno visita a Carl Sandburg a Connemara, la proprietà che è stata casa sua fino alla sua morte, avvenuta tre anni dopo. Un’area del North Carolina rinominata da Sandburg in onore della costa occidentale dell’Irlanda che aveva in comune il verde brillante della vegetazione e in cui Dylan si era fatto avanti proclamando: “Sono un poeta, mi chiamo Robert Dylan e mi piacerebbe incontrare mister Sandburg”. L’incontro ha qualcosa di epico, nonostante la frugalità e la limitata disponibilità di Carl Sandburg. Dylan gli aveva portato una copia di The Times They Are A-Changin’, l’album uscito giusto un paio di mesi prima.

L’abitudine di Dylan di andare a visitare le abitazioni altrui sarebbe rimasta (anche e soprattutto in incognito), ma di tutti i pellegrinaggi dylaniani l’improvvisato appuntamento con Carl Sandburg è forse il più sensato. Dylan aveva ventidue anni, Sandburg ottantasei e all’epoca era un’autorità riconosciuta e stimata. Autore di un’autorevole biografia di Lincoln, aveva già inciso una ventina di dischi, vinto un paio di Pulitzer. Soltanto l’anno prima Kennedy gli aveva mandato un telegramma di auguri per i suoi ottantacinque anni dove lo descriveva “come un poeta, storyteller, menestrello e biografo che ha espresso le molteplici forme del genio americano”. Non sarà l’unico presidente a celebrarlo.

A suo tempo, Lyndon Johnson declamerà questo elogio funebre al Lincoln Memorial a Washington: “Carl Sandburg non ha bisogno di epitaffio. È scritto per sempre nei campi, nelle città, nel volto e nel cuore della terra che ha amato e delle persone che ha celebrato e ispirato. Con il mondo, piangiamo la sua morte. È con il nostro orgoglio e la nostra fortuna di americani che sentiremo per sempre la voce di Carl Sandburg dentro di noi; perché ci ha dato la visione più vera e duratura della nostra grandezza”. State pur certi che ai burocrati e ai politicanti avrebbe risposto così: “Io sono un vagabondo e uno scrittore e preferisco il mondo al pane, e scrivere e prendere una chitarra seguendo le giuste tracce”. Si capisce perché Dylan voleva conoscerlo.

I convenevoli sono sbrigativi, il rendez-vous dura una ventina di minuti e ben presto Paul Clayton e Dylan riprendono la strada del ritorno lasciando Carl Sandburg a godersi “le capre, i giardini e la pace” di Connemara. Il terreno comune era dato da Woody Guthrie e Walt Whitman, ma soprattutto dalla musica folk, che Carl Sandburg aveva esplorato a lungo e che aveva collocato in The American Songbag (Harcourt, Brace and Company,1927) definendolo “uno zibaldone di componimenti e canzoni popolari”. È molto di più, ma ci arriveremo perché la ricerca di Sandburg nella poesia come nelle canzoni è volta sempre “verso frasi veramente vive, con verbi tremolanti, con nomi che danno colore e producono echi”. Il senso è chiaro, ma la direzione è altrettanto importante.

La sua poetica ha un’attenzione specifica verso le condizioni sociali e umane riversate in particolare nei suoi Chicago Poems dove i protagonisti sono “poveri che faticano pazienti, più pazienti dei dirupi, delle maree e delle stelle, innumerevoli, pazienti, come l’oscurità della notte, tutti umili rovine infrante delle nazioni”. Le sue Moltitudini sono queste, ma è inevitabile il raccordo con le “moltitudini” di Walt Whitman (“Mi contraddico? Molto bene, allora mi contraddico: sono vasto, contengo moltitudini”) poi richiamate ancora da Bob Dylan in I Contain Moltitudes. Operai, ferrovieri, donne e bambini sfruttati nelle fabbriche, famiglie che cercano di arrivare alla fine della giornata, Le porte della fabbrica che si aprono e ricordano da vicino La giungla di Upton Sinclair: stessa città, stessi drammi, che spingono Sandburg a ricordare che “quando gli uomini perdono il senso poetico della vita ordinaria, e non sanno esprimere la poesia delle cose ordinarie, la poesia perde la potenza dell’elevazione”. Detto questo, nei Chicago Poems c’è spazio anche per “cose romantiche e cose grandi e sogni veri che non si sfasciano mai”, ben sapendo che “tutte le cose umane sorgono da un affollato tumulto, e ricadono risorgendo come pioggia sul mare”. Il titolo della poesia è Sulla strada, e la coincidenza vale tutta, perché qui è tutto un coro di “voci di cuori infanti, voci che cantano” e, ancora, “voci che cantano, voci d’argento”. Ci sono centinaia di canzoni dove sentirle

Carl Sandburg, Chicago Poems (Poesia di Chicago) - La recensione dal blog di BooksHighway

The American Songbag inizia con una dedica unica, un’epigrafe che, a leggerla bene, è a sua volta un ritornello: “A quei cantanti sconosciuti, che hanno fatto canzoni, per amore, divertimento, dolore, e a quei molti cantanti, che hanno mantenuto quelle canzoni come una cosa viva del cuore e della mente, per amore, divertimento, dolore”. Quelle canzoni hanno una forza magnetica che Sandburg riesce ad attivare, come se sapesse risvegliare fantasmi, killer, misteri e segreti perché le canzoni di American Songbag contengono una miriade di storie, spesso deformate nel tramandarsi nei secoli: è un mondo fluttuante, con le strofe si inseguono senza sosta e dove bisogna notare che “c’è qualcosa di autentico nel modo in cui una persona offre un brano che è stato conosciuto, vissuto e amato per molti anni dal cantante”. Sandburd non è solo in questo enorme lavoro: le scoperte e i ritrovamenti comuni con John Lomax vanno da The Buffalo Skinners a C. C. Rider e rivelano che American Songbag è stato anche una delle fonti primarie di Harry Smith nella compilazione dell’Anthology of American Folk Music.

Ricercatori alimentati da una passione fuori dal comune, su versanti differenti della montagna hanno creato la stratificazione necessaria a scoprire alcune delle radici inossidabili del rock’n’roll. La linea è quella spiegata da Amanda Petrusich in It Still Moves: “La musica indigena, rurale possiede qualcosa che invita alla mitizzazione, che richiede movimento e scoperta. Come per moltissime altre cose, la ricerca è altrettanto importante del premio finale”. Con The American Songbag si dipana una ragnatela di connessioni: Carl Sandburg ha attinto a una miriade sterminata di fonti, compreso The Universal Songster, un’incredibile raccolta di canzoni di 1300 pagine pubblicata a Londra nella prima metà del diciannovesimo secolo e soltanto il titolo lascia intuire che non si tratta di scrivere le canzoni, ma di trascinarle giù da dove si inventano da sole. La ricchezza di American Songbag è enorme perché non è un’enciclopedia, ma una visione.

Per dire, in The American Songbag ci sono sette modi per declinare l’articolo “the” e altrettante versioni della parola “here”, che è sintomatico di una posizione sfuggente. È un libro per “peccatori e innamorati dell’umanità” e questo è il terreno delle canzoni che contengono tutti elementi del folklore: gente nata diecimila anni fa, giganti e furfanti, pionieri e banditi, sbronze e preghiere, lamenti d’amore e canzoni dalle prigioni, blues e ancora blues, naufraghi e pescatori, vittime e carnefici. Per la prima volta, tutti insieme: una dimensione così ampia, comprese tutte le “imperfezioni” dichiarate dallo stesso Sandburg, ma che abbraccia un’idea primordiale di America. Con tutte le ingenuità, ma con una ricchezza straordinaria e straripante quel valore intrinseco che Greil Marcus spiegava benissimo così in La repubblica invisibile: “Quella musica sembrava non il prodotto di un ego, ma il frutto del genio di un popolo, il popolo, gente a cui ci si poteva unire e, magari, diventare parte. Era il suono di un altro paese, un paese che una volta intravisto, lo si poteva sentire dentro di sé”. Le trascrizioni, le introduzioni, le prefazioni, tutti gli spartiti e le relative annotazioni collocano le canzoni in un contesto aperto e mutevole, lasciando spazio a ogni ulteriore supposizione o ipotesi. Come spiega nel dettaglio Carl Sandburg, nell’interpretazione un certo grado di libertà è necessario, se non indispensabile.

Solo la divisione tematica di American Songbag suggerisce un’ipotesi di catalogazione, che comunque non è definitiva e nemmeno così rigida. Ogni tema è un insieme ben rappresentato da un pugno di composizioni e quello che è stato collezionato in The American Songbag è diventato uno standard. Il paesaggio indefinito è una sorta di mondo a parte tra usanze, leggende e cronache della realtà americana che le canzoni riportavano, come un telegrafo senza fili. Le intersezioni sono numerose: per esempio, la cultura ferroviaria si estende da John Henry, personaggio celebrato da Colson Whitehead in un intero romanzo, John Henry Festival, a Casey Jones, che ricordiamo attraverso i Dead (ovviamente) fino ad A. R. U., che narra un periodo conflittuale come l’ha raccontato Karl Marlantes in Deep River. Tra canzoni di lotta e d’amore, disastri e catastrofi assortiti, il boll weevil e il Titanic, ricordiamo almeno The House Carpenter, riscoperta poi nell’interpretazione di Nathalie Merchant, che come dice Carl Sandburg è diventata un po’ la pietra angolare nella formazione delle ballate o Erie Canal, che rispuntata anche nelle Seeger Sessions di Bruce Springsteen.

Mike Farris, Oh, Mary Don't You Weep (Music Fog Sessions) Bruce Springsteen - Erie Canal (The Seeger Sessions)

I percorsi sono illimitati, e aprono davvero a “moltitudini”. Vale la pena, se non altro, di seguire la genesi di Mary Don’t You Weep, che è stata riletta da tutti, ma che ricordiamo nella rendition di Aretha Franklin in Amazing Grace o in quella di Mike Farris in Salvation In Lights. In American Songbag viene presentata scomposta in due differenti parti, Mary Wore Three Links of Chain e Pharaoh’s Army Got Drownded e definita da Carl Sandburg “una creazione sublime” come se le canzoni avessero un loro specifico DNA capace di mutare e di riprodursi in modo autonomo. Negli anni, Paul Clayton si era già dedicato alle shanty con Whaling & Sailing Songs from the Days of Moby Dick e ce ne sono moltissime in American Songbag, non ultima Blow The Man Down, la preferita di Robert Frost, secondo le indicazioni di Carl Sandburg. Discorso a parte per Dylan: l’elenco delle incursioni nella musica tradizionale americana potrebbe andare avanti all’infinito e una cernita è impossibile. Una canzone emblematica, su tutte, potrebbe essere Frankie & Albert, ripresa in Good As I Been To You, perché è stata identificata da Carl Sandburg come l’origine di tutta una specie.

Sull’almanacco segnateti i bisogni primari di Carl Sandburg: “Stare lontano dalle prigioni, mangiare regolarmente, stampare quello che scrivo, e un po’ d’amore a casa e un po’ anche fuori”. Saggezza popolare, anche Dylan sarà d’accordo.