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Sing This!
Brevi storie di brani e di alcune cover |
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#5 Like a Rolling Stone [a cura di Roberto Giuli] Frammenti di storia. Nelle due settimane scarse che vanno
dal 4 al 16 luglio 1965, vengono realizzati (registrati o pubblicati)
tre tra i massimi capolavori della musica del Novecento, ovvero, in ordine,
Satisfaction dei Rolling Stones, Yesterday dei Beatles e
Like A Rolling Stone di Bob Dylan; non male, nel suo insieme un
deciso salto di qualità del rock. In un momento in cui John Lennon si
ispira al Dylan più originario e cantautorale (canzoni come You’ve
Got To Hide Your Love Away o I’m A Loser), questi, consapevolmente
o meno, si sveglia una mattina colpito in pieno dalla spumeggiante ondata
britannica: concezioni musicali diverse si incontrano al vertice. Guarda
caso nell’anno di Mick Jagger, Brian Jones e compagnia, il grande Bob
crea uno dei suoi pezzi più emblematici, oltre che naturalmente il magnifico
album che la contiene, Highway 61 Revisited.
Comunque sia la canzone si guadagna nel corso dei lustri un’enorme popolarità “on stage”; come dire, non c’è rock band che non l’abbia eseguita almeno una volta dal vivo, Jimi Hendrix, Patti Smith, Bruce Springsteen che siano o qualcuno come Cat Power che la propone alla Royal Albert Hall. A dispetto di una struttura armonica semplice, consistente in una regolarissima progressione dalla tonica al quinto grado, produrla in studio è invece tutta un’altra storia, si rischia di rimanere in svantaggio, se non di farsi male. Tra quanti decidono di formalizzare su vinile, si va, tra le tante, dalla curiosa visione degli Arbors (1969), nostalgica e proto-progressive a quella delicata di Barb Jungr, con qualche venatura jazz (da Waterloo Sunset del 2003), fino alla durissima e un po’ mainstream visione dei Green Day in ogni caso molto ben prodotta. Trattazione più approfondita merita probabilmente la versione di Major Harris, pubblicata per OKeh nel 1969 (b-side di Call Me Tomorrow); nelle sue mani di soulman navigato, già membro di illustri organici quali Jarmels e Delfonics (seppur al di fuori dei rispettivi periodi focali), l’intramontabile inno si trasforma in un tipico e discreto numero soul da fine Sessanta, alquanto memphisiano nelle intenzioni, con tanto di coro a metà tra gospel e Raelettes e ottimi “licks” chitarristici eseguiti (probabilmente) da Major stesso.
Memori forse dell’intensa settimana di trent’anni prima, tanto per cambiare i Rolling Stones non si perdono l’occasione di eccellere ancora. Il già veterano gruppo sfodera una versione di incontenibile vitalità, spinta verso i limiti dall’organo e dalla ritmica, con Mick che pronuncia il testo in maniera potente, come se gli appartenesse di diritto e che lancia il suo assolo di armonica vagamente stonato, mica tanto, giusto un po’: dettagli importanti, la loro rilettura finisce nel disco Stripped (1995) e la performance alla Brixton Academy di Londra risulta la migliore.
Bazzecole, verrebbe da dire, in confronto alla personalissima
visione dei Mountain. O meglio, questa è la sigla, ma in realtà si tratta
del solo Corky Laing alle prese con una sorta di rap atonale di
rara misura, egli stesso, voce e batteria; il pezzo fa parte di un disco
interamente dedicato proprio a Bob Dylan, Masters Of War del 2007.
Ah, c’è anche un pizzico di (in)sana ironia. “In fondo era solo rock’n’roll”,
direbbe compiaciuto l’ormai ex trovatore di Duluth, colui che ebbe a dire
“il rock è morto nel 1959 con Johnny And The Hurricanes”: sempre alla
ricerca del futuro.
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