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Sing This!
Brevi storie di brani e di alcune cover |
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#3 (Get Your Kicks On) Route 66 [a cura di Roberto Giuli] Alzino la mano coloro che, appassionati delle sette note o meno, non abbiano mai sognato di perdersi lungo quelle interminabili strisce di asfalto, contrassegnate da altrettanto mitiche sigle, così tanto da costituire un intero immaginario poetico legato alla strada. È proprio lungo le “highways” che si celebra l’arte di un’ideale ubiquità, metafora di inquietudine e libertà. Ed è su quei numeri che si consuma un pezzo significativo del sogno americano. La Route 66 (US 66) è uno di quei non-luoghi. Strada federale inaugurata nel 1926, va da Chicago a Santa Monica, contea di Los Angeles, “more than two thousand miles all the way”, per più di duemila miglia. Un classico, ideale per un viaggio a bordo di una Buick del ’41, proprio come fece Bobby Troup, compositore, pianista, jazzista, tanto entusiasta dell’esperienza da metterla su pentagramma. Nasce così (Get Your Kicks On) Route 66, emblema assoluto di un universo fatto di “sabbia, vento e decappottabili”; in prima istanza viene affidata al fascinoso Nat King Cole e relativo Trio (oltre a Cole al piano, Oscar Moore, chitarra e Johnny Miller, basso). È solo la prima di tante edizioni del brano. Pubblicata nell’aprile del ’46 e caratterizzata da notevole dinamica, è un gioiello a un magico incrocio tra jazz e quello che di lì a poco verrà indicato come rhythm and blues, nonostante la voce inebriante dell’artista (che, anzi, fa il resto) e la sua predilezione per le trame più soffuse; siamo lontani anni luce dalla quasi contemporanea e più convenzionale versione di Bing Crosby con le Andrews Sisters.
Innumerevoli saranno, nel corso dei decenni, le riedizioni di Route 66, più o meno fedeli alla linea. Di certo non difetta in dinamica Al Brown, sassofonista abbastanza oscuro, cantante, band leader originario di Fairmont, West Virginia, oltreché leader dei Tunetoppers (qualche istante di gloria ai tempi del “madison”). La sua personale Route 66, pubblicata dalla Amy nel 1961, si pregia della di lui voce quasi da shouter e di una ritmica smaccatamente r&b, con un arrangiamento che ricalca un po’ quello delle big bands.
Decisamente più nota è la cover fornita dai Rolling Stones, opener del loro omonimo album di debutto, pubblicato nell’aprile del ’64. Nelle mani di Jagger e soci, i quali evidentemente si rifanno alla pur buona traccia di Chuck Berry (1961), la canzone diventa una sorta di ennesimo archetipo del rock’n’roll, con un inconfondibile intro, un break scandito dalla nota incerta del basso e un assolo che è un ossequio al grande Chuck. Gli stessi Stones non mancheranno di eseguire il pezzo in vari momenti della loro interminabile avventura live.
Se le versioni (tra le tante) di Dr Feelgood, ruvida e
articolata (1974), dei Depeche Mode (1988) o quella più raffinata di John
Meyer (2006), confermano la capacità del brano di travalicare i generi
a dispetto della sua semplice struttura blues, quella di Buckwheat
Zydeco (da Where’s There’s Smoke There’s Fire del 1990) sembra
superiore almeno in quanto a originalità. Stanley Dural, questo il vero
nome di Buckwheat, duetta a meraviglia con David Hidalgo e tira fuori
una rilettura esuberante, fresca, spinta in avanti, intrisa di quell’ottimismo
che animava le intenzioni del glorioso Troup originario. Notevole, tenendo
conto che la US 66 corre dappertutto, ma non dalle parti di Lafayette,
Louisiana. Get your Kicks on Route 66!
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