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  Don Antonio
Lacosta
[Strade Blu Factory 2023]

Sulla rete: crinalelab.com

File Under: antropologie del restare


di Gianfranco Callieri (31/08/2023)

Diceva Leonardo Sciascia, in relazione alla propria terra d’origine, di avere la sensazione d’essersi attaccato ai "suoi" luoghi ancor prima di venire al mondo: «Risiedevo già qui, e poi vi sono nato». Lacosta, ossia via della Costa, la provinciale di collegamento tra Modigliana e Brisighella nella Romagna sommersa dalle alluvioni e oggi affidata alle discutibili cure di un militare e del presidente di regione che l’ha inondata di cemento, non è solo il quarto album di Antonio Gramentieri nei panni di Don Antonio, bensì un’ipotetica sequenza di suggestioni sonore - tutte strumentali - rivolte a chiunque sia consapevole di come i luoghi, le strade, le curve dimenticate, i vecchi casolari e i ponti svogliatamente deteriorati dallo scorrere del tempo possiedano un loro senso e un loro sentimento.

All’impoverimento del tessuto culturale e del dibattito pubblico, al bieco atteggiamento propagandistico di chi, pur continuando a sproloquiare di recupero dei borghi e delle tradizioni, altro non fa se non affrettarne la scomparsa, Don Antonio contrappone alcuni gesti che, un tempo, avremmo definito militanti: mette in piedi, da un momento all’altro, un festival "di prossimità" malgrado la regione gli abbia fatto naufragare, pochi giorni prima, un’altra manifestazione (Strade Blu, da ventuno anni portata avanti con il sostegno e la complicità di Andrea Bernabei), raduna persone, contributi e interesse intorno a Modigliana (duramente colpita dalle calamità climatiche dello scorso maggio), realizza un disco in forma di celebrazione delle proprie radici anziché piatire denari, incoraggiamento o versamenti.

E in effetti Lacosta, con tutto il suo portato di intimismo, poetiche e autobiografia, con le sue radiografie sconsolate sulla desolazione del presente e sul lento morire di paesi e persone, panorami e abitazioni, resta comunque un disco militante, dove le domande sopravanzano di gran lunga le possibili risposte e la spaccatura tra andare e restare si riempie di suoni, volti, profili, colline, fiumi, montagne. Dai fotogrammi desertici dell’iniziale Pedro alle atmosfere sudamericane dell’ultima Blu Spazio Blu, eseguita col tocco fragile e inventivo di un’orchestrina della provincia italiana degli anni ’50 (attenzione alle infinite coloriture della batteria di “Vince” Vallicelli e delle tastiere di Stefano Intelisano), l’album esplora una vaghezza stilistica dove si rispecchiano i dubbi e i ricordi di chi l’ha confezionato e si trova, oggi, a contemplare uno spazio conosciuto per capire di nuovo come si possa riattivare, al suo interno, la connessione tra passato e presente.

Il rock anni ’80 della title-track è quello della giovinezza dei suoi musicisti, Roccaccia quello della loro ricerca interiore e sonora («Lontano più lontano degli occhi del tramonto / mi domando come mai non ci sono bambini» avrebbe detto, molte stagioni or sono, un aristocratico collega), La Rosa e La Spina un omaggio sempiterno ai quadri d’epoca dei fratelli Paolo e Giorgio Conte (con un riconoscimento speciale alla fisarmonica di Vanni Crociani), Al Verde un soffio di sensualità soul presa in prestito dagli americani, 1979 un portale sonoro verso altri mondi, altre stanze, altre fasi di una vita in cui, come cantava un antico poeta, si sono odiati «mercati di seconda mano e cimiteri» in quanto scippatori delle nostre infanzie.

Quando ogni cosa sembra passata e perduta, occorre stabilire un confine tra quanto se n’è andato per sempre e quanto, invece, può essere rivitalizzato e vissuto con nuovo calore. Anche se non siete mai stati nell’Appennino tosco-romagnolo, Lacosta potrà comunque regalarvi la materializzazione acustica di quel confine, realizzata proprio a partire dal suo lessico sonoro: mobile, irrequieto, contaminato e, va da sé, irresistibile.