Ogni volta che leggo il nome di Black
Snake Moan non riesco a non pensare a un vecchio film
dallo stesso titolo del 2006 del regista Craig Brewer (purtroppo
successivamente colpevole del remake di Footloose
e dell’inguardabile seguito de Il Principe Cerca Moglie),
in cui una conturbante Christina Ricci cercava in un vecchio
bluesman (un Samuel L. Jackson ispirato da Blind Lemon Jefferson)
la salvezza dalla propria ninfomania, simbolicamente risolta
nelle braccia della popstar Justin Timberlake. Non certo
un film da cinefili, se non per le atmosfere che ben coglievano
l’anima tormentata del blues di Jefferson, le stesse che
mi vengono ispirate dalla musica di questo Lost In
Time. Ed è proprio dalla canzone di Jefferson che
prende anche il nome d’arte il musicista viterbese Marco
Contestabile, che con questo nickname arriva a pubblicare
il suo terzo album.
Lo attendevamo a questo appuntamento, dopo che lo scorso
anno gli avevamo dedicato una intervista
(a cura di Sara Fabrizi) utile a capire cosa spinge ancora
un musicista nostrano ad abbracciare così fortemente una
cultura lontana come quella americana. Lost In Time
non delude affatto le attese, e anzi attesta la sua continua
crescita musicale dopo i già interessanti Spiritual Awakening
del 2017 e Phantasmagoria del 2019. Nove canzoni,
trenta minuti scarsi, ma sufficienti a completare un viaggio
lisergico che mi immagino, con buona dose di scontati luoghi
comuni, come quello di un giovane hippie che sperimenta
peyote in un deserto americano nel 1969.
Il titolo d’altronde dice già tutto,
il suono creato da Blake Snake Moan ha perso ormai molto
delle sue radici blues dei primi anni, quando si esibiva
come one-man-band delle 12 battute, acquistando in sapori
che uniscono melodie West Coast e sonorità da piena Summer
of Love ‘67. Ancora una volta Contestabile fa tutto da solo,
o quasi, giusto due interventi di tastiera di Gabriele Ripa
in Come On Down e Put Your Flowers e il pulsante
basso e voce offerti da Roberto Dell'Era (Afterhours, The
Winstons, Calibro35). Eppure dallo stereo esce un muro di
chitarre e voci che pare di sentire impegnata una intera
comune freak alla Incredible String Band, fin dalla breve
Dirty Ground che introduce al viaggio, alle chitarre
quasi da dark-era di Light The Incense all’organo
psych-pop di Come On Down, o ancora alle mille ipnotiche
percussioni che reggono Put Your Flowes o alle voci
filtrate nella programmatica West Coast Song, qui
tutto sa di antico, eppure fatto in casa con grande conoscenza
della materia e capacità di trasformarla in canzoni più
che convincenti.
Lo chiameremmo Desert Rock, anche se
a Viterbo fortunatamente la siccità ancora non ne ha creato
uno, ma d’altronde la musica serve a viaggiare con l’immaginazione,
e quella di Black Snake Moan riesce particolarmente bene
ad accompagnarci in questo “trip”.