Diceva Leonardo Sciascia, in relazione
alla propria terra d’origine, di avere la sensazione d’essersi
attaccato ai "suoi" luoghi ancor prima di venire
al mondo: «Risiedevo già qui, e poi vi sono nato». Lacosta,
ossia via della Costa, la provinciale di collegamento tra
Modigliana e Brisighella nella Romagna sommersa dalle alluvioni
e oggi affidata alle discutibili cure di un militare e del
presidente di regione che l’ha inondata di cemento, non
è solo il quarto album di Antonio Gramentieri nei panni
di Don Antonio, bensì un’ipotetica sequenza di suggestioni
sonore - tutte strumentali - rivolte a chiunque sia consapevole
di come i luoghi, le strade, le curve dimenticate, i vecchi
casolari e i ponti svogliatamente deteriorati dallo scorrere
del tempo possiedano un loro senso e un loro sentimento.
All’impoverimento del tessuto culturale e del dibattito
pubblico, al bieco atteggiamento propagandistico di chi,
pur continuando a sproloquiare di recupero dei borghi e
delle tradizioni, altro non fa se non affrettarne la scomparsa,
Don Antonio contrappone alcuni gesti che, un tempo, avremmo
definito militanti: mette in piedi, da un momento all’altro,
un festival "di prossimità" malgrado la regione
gli abbia fatto naufragare, pochi giorni prima, un’altra
manifestazione (Strade Blu, da ventuno anni portata
avanti con il sostegno e la complicità di Andrea Bernabei),
raduna persone, contributi e interesse intorno a Modigliana
(duramente colpita dalle calamità climatiche dello scorso
maggio), realizza un disco in forma di celebrazione delle
proprie radici anziché piatire denari, incoraggiamento o
versamenti.
E in effetti Lacosta, con tutto il suo portato
di intimismo, poetiche e autobiografia, con le sue radiografie
sconsolate sulla desolazione del presente e sul lento morire
di paesi e persone, panorami e abitazioni, resta comunque
un disco militante, dove le domande sopravanzano di gran
lunga le possibili risposte e la spaccatura tra andare e
restare si riempie di suoni, volti, profili, colline, fiumi,
montagne. Dai fotogrammi desertici dell’iniziale Pedro
alle atmosfere sudamericane dell’ultima Blu Spazio Blu,
eseguita col tocco fragile e inventivo di un’orchestrina
della provincia italiana degli anni ’50 (attenzione alle
infinite coloriture della batteria di “Vince” Vallicelli
e delle tastiere di Stefano Intelisano), l’album esplora
una vaghezza stilistica dove si rispecchiano i dubbi e i
ricordi di chi l’ha confezionato e si trova, oggi, a contemplare
uno spazio conosciuto per capire di nuovo come si possa
riattivare, al suo interno, la connessione tra passato e
presente.
Il rock anni ’80 della title-track è quello della giovinezza
dei suoi musicisti, Roccaccia quello della loro ricerca
interiore e sonora («Lontano più lontano degli occhi del
tramonto / mi domando come mai non ci sono bambini» avrebbe
detto, molte stagioni or sono, un aristocratico collega),
La Rosa e La Spina un omaggio sempiterno ai quadri
d’epoca dei fratelli Paolo e Giorgio Conte (con un riconoscimento
speciale alla fisarmonica di Vanni Crociani), Al Verde
un soffio di sensualità soul presa in prestito dagli
americani, 1979 un portale sonoro verso altri mondi,
altre stanze, altre fasi di una vita in cui, come cantava
un antico poeta, si sono odiati «mercati di seconda mano
e cimiteri» in quanto scippatori delle nostre infanzie.
Quando ogni cosa sembra passata e perduta, occorre stabilire
un confine tra quanto se n’è andato per sempre e quanto,
invece, può essere rivitalizzato e vissuto con nuovo calore.
Anche se non siete mai stati nell’Appennino tosco-romagnolo,
Lacosta potrà comunque regalarvi la materializzazione
acustica di quel confine, realizzata proprio a partire dal
suo lessico sonoro: mobile, irrequieto, contaminato e, va
da sé, irresistibile.