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Luca & The Tautologists
Paris Airport '77
[RecLab/ IRD 2023]

File Under: rockin’ on a jet plane

lucaandthetautologists.bandcamp.com

di Nicola Gervasini

La copertina è un po’ artigianale, quasi da post social messo a documentare un viaggio che sa di memorabile per una band italiana tutta chitarre e passione, ma comunica il giusto sapore degli elementi messi in campo da Luca & The Tautologist. C’è il cantautore che guarda senza paura un orizzonte noto solo a lui, brandendo con severità una chitarra come fosse un mitragliatore, e ci sono i compagni di viaggio sullo sfondo, colleghi musicisti, ma prima di tutto commensali di mangiate e bevute, navigatori per non perdere la strada durante i viaggi alla ricerca di sperduti locali, dove ancora la musica può sovrastare le chiacchiere da bar. Paiono tre autostoppisti trovati per l’occasione, ma sono nomi a noi ben noti come il riconoscibilissimo bluesman Ruben Minuto (qui si cimenta al basso, ma ovviamente non si fa attendere alla sei corde e al mandolino quando c’è da duellare con le altre chitarre) Leandro Diana (chitarre) e Deneb Bucella alle pelli. Persino la maglietta è un indizio chiarissimo, il logo di un noto negozio di dischi di Piacenza, uno di quegli antichi punti di ritrovo per appassionati dove tutte queste canzoni hanno trovato linfa e ispirazione. Album corposo questo Paris Airport ’77, più di un’ora di musica in cui il leader Luca Andrea Crippa ha messo un po’ tutta la sua vita nei testi in inglese, con uno stile da heartland-rock stradaiolo pensato nel modo tipico della scena italiana (vengono in mente Edward Abbiati e i suoi Lowlands in molti momenti), eppure la title-track iniziale quasi depista sul contenuto, un sopraffina melodia sognante che fa capire quanto la lezione di Jonathan Wilson sia oramai entrata nel gergo del genere. Poi Dreams Becomes Promise e Things…From a Spell (canzone che ha due parti) riportano tutto a casa, accomunate anche da un finale che aumenta il ritmo dando sempre più spazio alle chitarre. Tra tante cavalcate da american-rock si distinguono anche la più tetra Winter Heights And My Falldowns, con anche inserti di elettronica realizzati da ZOWA (Lele Ledda), e la baldanzosa Undelivering che dà spazio anche alle tastiere di Riccardo Maccabruni. Se state per partire per un lungo viaggio è il disco giusto da mettere in valigia.


 


Grand Drifter
Paradise Window
[Subjangle 2023]

File Under: this is pop

granddrifter.bandcamp.com

di Nicola Gervasini

Inutile disquisire ormai sul confine tra album e EP in tempi di musica liquida, per cui accogliamo come terzo album di Grand Drifter questo seppur breve Paradise Window, dopo che già lo avevamo conosciuto coi suoi apprezzatissimi precedenti lavori Lost Spring Songs (2018) e Only Child (2021). Sette brani che proseguono il percorso del proprietario del moniker Andrea Calvo in uno stile figlio dell’indie-folk di fine anni ‘90 che si sta facendo via via sempre più sofisticato. Il patron dell’etichetta inglese Subjangle, Darrin Lee, che aveva creduto in lui per un lancio più internazionale già dal precedente lavoro (e i tanti concerti tenuti all’estero sembrano dargli ragione), anticipa un po’ la sorpresa in cartella stampa citando Belle & Sebastian, Burt Bacharach e il jangly indie-pop in stile Sarah Records, chiudendo così la porta ad ogni altro possibile riferimento, se non magari la possibilità di notare che nel passaggio dalle atmosfere autunnali di Only Child al mood più scanzonato di questo album, molto fa il giocoso pianoforte in stile Misread dei Kings Of Convenience che spesso trapunta i brani. Grand Drifter è oramai un artista completo, capace di giocare in studio suonando tutti gli strumenti (solo il basso di As the Days Change viene suonato da The Cascarino), il che forse limita il raggio di azione al suo particolare stile, che ricorda spesso l’Iron & Wine più intimo, ma che sicuramente gli permette di concentrarsi molto sui particolari. Il dono della sintesi spesso è un pregio, ma visto che stavolta il gioco è pure più brioso e per nulla tedioso, quando si arriva al finale di Memory and Dust si sentirebbe quasi il bisogno di almeno un bis. Ma di una cosa sono certo, se cantasse in italiano, Grand Drifter godrebbe qui da noi di molta più attenzione, ma se leggete le classifiche di ascolto del nostro paese vi accorgerete che la musica anglofona è praticamente quasi sparita, a parte qualche consolidato nome, per cui purtroppo sempre meno possiamo dire che questo bel Paradise Window (e bella anche la copertina di Sergio Varbella) rappresenti il nostro Made in Italy.