Non conosciamo nel dettaglio le ragioni
che separano di ben sette anni il qui presente Just
a Dream dall’ultimo segnale discografico lanciato
da Daniele Tenca, Love
is the Only Law, ma possiamo sicuramente constatare
che sono serviti ancora una volta a immaginare un cambio
di rotta, confermando come il musicista milanese preferisca
sempre scartare un po’ di lato rispetto ai traguardi precedenti.
Se la matrice blues - elettrica, pulsante e spesso a braccetto
con trame più rock - si innestava sulle forti tematiche
sociali dei suoi primi lavori (con una menzione d’onore
per Wake
Up Nation), segnando il passaggio dall’italiano
alla più espressiva (e adatta) lingua inglese; se il citato
Love is the Only Law aggiungeva alla ricetta una
sensibilità più intima e d’autore, a grandi linee legata
all’Americana; il nuovo album si concentra adesso sulla
forza del ritmo e anche sulla modernità espressiva della
black music, come anticipano i primi due brani in scaletta,
Scars in Sight e la
stessa Just a Dream
(il sogno rimanda direttamente a quello di Martin Luther
King). Così la passione per l’idioma del blues si allarga
nella direzione del funk, di un r&b più contemporaneo, “sporcando”
i riff della tradizione con tappeti sonori, programmazioni
e loop ritmici.
Una scelta coraggiosa, addirittura spiazzante per chi forse
lo vorrebbe tenere legato a una scena “roots” italiana più
definita, un tentativo che, sebbene non sia riuscito in
tutti i suoi passaggi, restituisce comunque forte e chiara
l’impostazione internazionale del disco, sia nella parte
musicale che in quella lirica. Just a Dream, in buona
parte pensato e inciso dallo stesso Daniele Tenca
(chitarre assortite, basso, armonica e molti altri strumenti)
con il contributo essenziale in fase di produzione e negli
arrangiamenti di Antonio “Cooper” Cupertino, prende una
strada comunicativa più aggrappata al presente, affrontando
quegli argomenti di carattere sociale e politico (qui pricipalmente
rappresentati da razzismo, violenza, emarginazione e crisi
ambientale) che anche in passato hanno innervato la scrittura
di Tenca, ma declinandoli con una colonna sonora che annoda
disco-funk e tradizione in What If He Was Your Son?
(presente la slide guitar del collaboratore storico Heggy
Vezzano) e in Dreamkiller, roccioso rock blues modellato
sul groove accattivante di certi Black Keys più recenti
(No More Time Left), o infine strutture da moderna
e languida ballata soul blues (Indifference,
tra le migliori in scaletta, e ancora il lentaccio in minore
Cellphone Ringtone Blues, che evoca qualcosa dello
stile del Dylan di Time Out of Mind).
In tutto questo emergono idee sonore e cadenze affascinanti,
e altre invece più prevedibili (Pretty Mama è l’episodio
blues più canonico e forse fuori contesto, vista la direzione
presa dall’album), soprattutto una voce che appare più a
suo agio quando i giri del motore musicale calano di intensità
(anche nella pregevole parentesi da folksinger di una innodica
Smiling Man), benché
non siano mai in discussione l’intento e la visione di Daniele
Tenca, anzi, in qualche modo sottolineate dalla scelta delle
due cover presenti nella raccolta: il brano
I Can’t Breathe di H.E.R., singolo vincitore
di un Grammy nel 2021 come canzone dell’anno e ispirato
dalla scaldalosa vicenda dell’assasinio di George Floyd
per mano della polizia di Minneapolis, e la conclusiva This
Land, canzone firmata dal chitarrista Gary Clark
Jr., nella quale il famoso inno di Woody Guthrie viene reimmaginato
(e rivendicato) dal punto di vista di un afroamericano.
Nel primo caso il beat resta fedele all’originale, compreso
il contributo vocale rap di Guy Davis, soltanto macchiato
da una chitarra bluesy, ma non riesce del tutto a replicarne
la stessa intensità emotiva, mentre si rivela molto più
interessante la traduzione acustica del pezzo di Clark Jr.,
ballad che, accompagnata solamente da chitarra acustica
e organo, esalta la densità del testo e sembra agganciarsi
idealmente al fantasma dello stesso Guthrie.