«In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza»,
scriveva Pier Paolo Pasolini nei versi della Religione Del Mio Tempo
(1961), «il più colpevole sono io, inaridito dall’amarezza». Ma è
un’accusa, quella del farsi spegnere dalla disillusione dilagante e da
un incombente senso di vuoto, che di certo non si può rivolgere a Steve
Earle. Bollito, secondo alcuni, da una routine ormai composta dal
mestiere (e dalla necessità di provvedere al figlio autistico) anziché
dall’ispirazione e quindi occupato a produrre, l’una di seguito all’altra,
opere assolutamente estemporanee; sempre fedele, secondo chi scrive, all’imperativo
di riannodare con costanza i fili del passato, all’obbligo interiore di
instaurare un dialogo ininterrotto col proprio immaginario e i suoi elementi
costitutivi allo scopo di esorcizzarne ricordi e rimpianti.
E così, dopo essersi misurato col blues attraverso una vitalità quasi
punk in Terraplane (2015), dopo aver ragionato sullo scorrere del
tempo con l’amica e collega Shawn Colvin in Colvin & Earle (2016),
dopo aver aggiornato il progressive-country dei ’70 con un po’ di sporcizia
e cattiveria in So
You Wannabe An Outlaw (2017), dopo aver parlato di lavoro e
morti bianche nello spigoloso Ghosts
Of West Virginia (2020) e dopo aver reso omaggio alla memoria
del primogenito Justin Townes, scomparso a soli 38 anni, tramite le spine
rootsy del doloroso J.T.
(2021), ecco che oggi, con questo Jerry Jeff dedicato alla
rivisitazione di dieci episodi dal catalogo di Jerry Jeff Walker, Earle
porta a compimento un’ideale trilogia, inaugurata nel 2009 di Townes
(Van Zandt) e proseguita nel 2019 di Guy
(Clark), sulla persistenza degli insegnamenti dei suoi maestri. Sull’arte
e sul gesto dei mèntori al cui esempio si è rifatto per imparare a scrivere
canzoni e per farlo, per di più, senza mai rinunciare all’onestà e al
disincanto.
Van Zandt, Clark e Walker (quest’ultimo originario della provincia di
New York ma diventato un beniamino della scena texana, nonché uno dei
suoi punti di riferimento, in seguito al trasferimento nel Sud) sono stati,
per uno Steve Earle alle prime armi (pure lui nato altrove, ossia in Virginia,
benché cresciuto tra San Antonio e Houston), gli autori in grado di fargli
scambiare il Texas della giovinezza «per la California meridionale». Cioè
per la meta privilegiata e accogliente di pazzi, sognatori, emarginati,
sbandati, idealisti in disarmo e soprattutto musicisti, attirati dalla
promessa di un luogo creativo, estraneo a barriere e steccati. Mentre
però i toni cupi di Townes immortalavano la dimensione più oscura
e tormentata del cantautore di Fort Worth, e quelli distesi e vivaci di
Guy celebravano con asciutta nostalgia il portamento inconfondibile
di un paziente artigiano delle note, Jerry Jeff, pubblicato
a due stagioni dal decesso di Walker per un cancro alla gola, prova invece
a mettere in scena una divertita sintesi delle atmosfere dei predecessori,
ora raggomitolandosi nella rilassatezza di polverose ballate, ora concedendosi
piccole scariche di honky-tonk straccione e countreggiante.
A non venire mai meno, non nell’esordio col botto di Gettin’
By e Gypsy Songman (la prima caratterizzata da qualche
modifica nelle liriche, tutte e due vivacizzate da un dettato country
antiretorico, spumeggiante, irresistibile) né nel congedo “cosmico” di
una Old Road affidata soltanto alla
suggestione delle voci e a un’armonica bluesy frustata dal vento e dalla
malinconia, è tuttavia la consapevolezza di come le sgrammaticature adoperate
da Walker nel frullare country, blues e r’n’r (qualcuno, accostandone
l’operato a quello giornalistico di Hunter S. Thompson, parlò di stile
«gonzo») non fossero sintomo di pigrizia e noncuranza ma rispondessero,
altresì, a un preciso disegno impressionista e allergico ai paludamenti
del mainstream, capace di sottrarre la tradizione alle sue derive più
reazionarie per trasformarla, a sorpresa, in quella che lo stesso Earle
chiama, giustamente «full-blown hippie music». E al cui spirito lui e
i suoi fidati Dukes si attengono, speziando di soul e urgenza comunicativa
l’arcinota, immancabile Mr. Bojangles,
sottolineando la natura gioiosa di Charlie Dunn e I Makes Money
(Money Don’t Make Me) con robuste iniezioni di febbrile country-rock,
scoprendosi pensosi e meditativi nei pressi di My Old Man nonché
attenti e devoti alla melodia cristallina di Little Bird. Fino
a raggiungere vette di dolente, inaspettata espressività prima alle prese
con la dolcezza folkie di un’incantevole Hill
Country Rain, poi nei laconici ricordi guerra, in forma di
interrogazione delle proprie radici, evocati nella stupenda Wheel,
altro blues astrale sulla fragilità della vita e degli esseri umani.
Jerry Jeff ci conferma che, per Steve Earle, nel fare dischi il
cuore conta più del calcolo, e il «radicamento, la stanzialità, la nostalgia
per la terra d’origine, la difesa e la cura del territorio» in cui si
è nati e vissuti (per usare le parole con cui l’antropologo Vito Teti
definisce l’attaccamento ai propri luoghi, intesi anche in senso metafisico)
appartengono non a un’azione di retroguardia ma alla perpetua necessità
di fare i conti con se stessi e con gli scambi, gli incontri, le conoscenze
di una vita spesa sulla strada. E se questo non basta a fare del ventiduesimo
lavoro in studio di Earle un album irrinunciabile, è però sufficiente
a gettare una luce di affetto e concordia sulla negatività sperimentata
quotidianamente, fino a stringere in mano una lettera d’amore da declamare,
con orgoglio, sulle macerie di un’epoca che della poesia, dei rimpianti,
dei sorrisi e delle lacrime di un tempo non sa più cosa farsene.