* uscita
digitale 04/01/2021 - in cd/vinile dal 19/03/2021
Quanti fantasmi, in questo disco. Quanta empatia, certo,
quanto spessore umano, quanta capacità di entrare nel cuore, negli estremi,
nella sofferenza e nel disastro di un’esistenza troncata troppo in fretta;
quanta capacità nel trasmettere tutto ciò, senza forzature e, anzi, con
straordinaria naturalezza, persino all’ascoltatore più distratto. Lo spettro
più ingombrante, com’è ovvio, è quello del primogenito Justin Townes
Earle (da cui le iniziali del titolo), figlio di Steve Earle morto
trentottene, a Nashville, Tn., lo scorso venti agosto, per un’overdose
di cocaina. Poi ci sono gli spettri di Townes Van Zandt e Guy Clark, il
primo addirittura evocato dal secondo nome del discendente scomparso,
entrambi già oggetto, da parte di Earle Senior, di due album costituiti
per intero da rivisitazioni del loro repertorio, con questo J.T.
nel ruolo, ingrato, di terzo lavoro dal suo artefice concepito in forma
di omaggio a chi non c’è più.
Altri fantasmi vengono alla mente, per affinità stilistica e non solo
(dall’intero cast di “comprimari” del mai dimenticato Heartworn Highways
[1981], dove un Earle giovanissimo riconosceva il proprio debito d’ispirazione
nei confronti della canzone d’autore texana, a tutte le rivoluzioni, soprattutto
personali, nel frattempo fallite), ma l’ultimo e più importante fantasma
a comparirci davanti agli occhi è proprio lui, Steve Earle, non
si sa come sopravvissuto alla morte di un figlio, alla propria compulsione
autodistruttiva, alle stagioni della droga, alla dissoluzione dell’industria
discografica e a molto altro ancora. Ma Earle, non c’è dubbio, è davvero
un fantasma, e lo è anche nel modo in cui affronta il sovraccarico di
traumi appena descritto, ossia continuando a fare dischi nell’unico modo
col quale sa farli. Per se stesso. Perché cos’altro è, in fondo, l’atto
del confezionare un album, o un film, o un libro, se non l’espressione
del bisogno di un esorcismo, di una catarsi, di una qualche restituzione
di senso nel contesto di un mondo dove affetti e certezze vanno inesorabilmente
sbriciolandosi?
Il portato emotivo di J.T. può interessare o non interessare, non è questo
il punto. Forse la cosa più toccante dell’intera operazione sono le note
del press-kit, nelle quali Earle si sofferma su quanto lui e il figlio
avessero in comune, malgrado le difficoltà dell’infanzia del secondo e
assidui allontanamenti reciproci, e rammenta di come lo chiamasse, da
piccolo, «cowboy», concludendo infine il discorso con un commosso, «Ci
vedremo quando arriverò là, cowboy. Papà». Eppure, a essere toccante e
rassicurante, in un certo senso, è anche la sopravvivenza del fantasma
di Steve Earle, che l’anno scorso, dopo una serie di dischi francamente
inficiati dall’eccesso di maniera, è a dir poco rinato grazie alla sanguinosa
cronaca sociale del brusco Ghosts
Of West Virginia, sulla tragedia mineraria colpevole di aver
tolto la vita, nel 2010, a trenta operai/fantasmi (di nuovo), e oggi affronta
il fantasma del figlio defunto piegandone il repertorio alle proprie esigenze
e al proprio stile, scongiurando in partenza il rischio del pezzo di bravura
da approvare “a prescindere”, magari rispettabilissimo nelle premesse
ma arido nei risultati, con una fame di vita in grado di resuscitare (appunto)
65 primavere di dolore, cause perse, strade sbagliate.
In J.T., i cui proventi andranno al fondo istituito per
consentire a Etta St. James Earle, figlia unica di Justin Townes, di raggiungere
la maggiore età senza eccessive preoccupazioni economiche, non troverete
traccia, se non in filigrana, del modernariato rootsy, spesso volutamente
distratto e (auto)ironico, appartenuto all’erede di Steve; troverete invece
uno Steve Earle più “earliano” che mai, con i Dukes mai così in
parte da anni (Eleanor Whitmore al violino saprebbe spaccare di pianto
una parete rocciosa), e una voglia di mordere canzoni, ricordi e sensazioni
attraverso una caustica dichiarazione di indipendenza. Nell’honky-tonk
swingante dell’iniziale I Don’t Care o di Champagne Corolla,
un pizzico della vena rétro di JT viene mantenuta, sì, ma i modi e i tempi
dell’esposizione pungono, sbuffano, graffiano. Ecco, così, l’archetipo
country-soul di Maria tramutarsi
in una frustata ai confini del rock sudista, Far Away In Another Town
e Turn Out My Lights diventare ballate elettriche all’insegna di
un realismo esasperato (attenzione alle bacchette di Brad Pemberton, splendide
nel donare inequivocabili vibrazioni rockiste al più rarefatto dei commiati),
Harlem River Blues farsi folk-rock
disidratato dal vento e dalla polvere (ma con un superbo coro finale,
aperto al mondo e alle nuove gioie, che non può non ricordare un altro
fantasma, e cioè Jerry Jeff Walker ai tempi degli Armadillo World Headquarters).
Anche Lone Pine Hill viene stravolta in un sibilo di rabbia e rimpianto,
mentre The Saint Of Lost Causes resta piuttosto fedele al prototipo
sebbene ne esasperi l’intensità in cinque minuti e rotti di spremitura
del sangue, dell’anima e delle viscere di chi la sta interpretando. Colui
che chiude l’opera col congedo — unica occasione autografa — della devastante
Last Words, parole ultime davvero, estreme, definitive di un
«addio» pugnalato dal dobro di Ricky Ray Jackson, di una ballata uguale
a cento altre del suo autore e ciò nonostante in grado di bruciare e far
male più di tutte loro messe assieme.
Non so se, tramite J.T., Steve Earle sia riuscito a congedarsi
da suo figlio nella maniera desiderata. Una cosa, però, la so per certo:
questo è l’ennesimo disco di Steve Earle — l’ennesimo viaggio a occhi
aperti e cicatrici pulsanti nel territorio del lutto, del dolore, della
parola, del suono e degli affetti — che non possiamo fare a meno di ascoltare,
e ascoltare di nuovo.