A metà degli anni Settanta la casa di Susanna e Guy Clark
è un porto aperto, un crocevia di ribelli e sconosciuti talenti, per lo
più espatriati texani che cercano a Nashville il loro primo colpo di fortuna.
È lì che bisogna dirigersi se si vuole agguantare il successo, spedire
la canzone che ti risolverà la vita sotto il naso di qualche famelico
discografico del Music Row - il viale per eccellenza del business musicale,
dove tutta l’industria del country si pesta i piedi per trovare la next
big thing. Guy, figlio del Texas come gli amici che ospita, è approdato
in città dopo un breve soggiorno in California, deve ancora incidere l’album
d’esordio, quell’Old No.1 che nel 1975 lo iscriverà di diritto
nella storia della canzone d’autore americana, ma alcune sue composizioni
hanno già fatto breccia nelle interpretazioni altrui. Vanta una rete di
conscenze e amicizie che possono spianare la strada a chiunque, compreso
quel ventenne scapestrato, Steve Earle, tra i più giovani frequentatori
(con lui ci sono anche Rodney Crowell e John Hiatt) delle serate a base
di chitarre e alcol che si susseguono dai coniugi Clark.
A quasi tre anni dalla scomparsa (nel maggio del 2016) e a dieci da quel
Townes che omaggiava l’altra metà del cielo texano (Townes Van
Zandt), Guy è la lettera d’addio che Steve non ha mai scritto
in vita per l’amico e consigliere. Fra i tanti, troppi errori commessi,
di uno in particolare si dichiara sinceramente pentito Earle: quello di
essersi rifiutato, negli ultimi momenti in cui Clark era vivo, di scrivere
insieme una canzone. Troppo orgoglio, altri impegni per la testa, e alla
fine l’occasione se ne è andata, trascinandosi dietro l’anima di Guy.
A sessantaquattro anni, sopravvissuto miracolosamente a prigioni, matrimoni
e dipendenze varie, Steve Earle prova a riparare i torti, si coalizza
con i riformati Dukes di queste stagioni (che hanno nel chitarrista Chris
Masterson un buon direttore d’orchestra) ed estrapola sedici brani da
un immenso catalogo di gemme che Clark ha sciorinato in quattro decenni
di carriera. Earle la conosce bene quella carriera, avendola inseguita
e ammirata fin da ragazzino. Lo si può osservare nel documentario di culto
Heartworn Highways, imberbe e desideroso di apprendere, in alcuni
stralci di quella arruffata poesia e di quell’irripetibile stagione del
songwriting americano che avvenne a Nashville, circondato dai mentori
Guy Clark e Townes Van Zandt, cercando di rubare ogni segreto... E anche
i numerosi vizi.
Sono il diavolo e l’acqua santa, i suoi Kerouac e Ginsberg come li definisce
lo stesso Steve, maestri di (cattiva) vita e di grandi qualità narrative:
Clark è l’artigiano paziente, come le chitarre che si metterà a costruire
in proprio, un disciplinato cesellatore di versi, Townes il poeta maudit
e tormentato, entrambi alzano il gomito e possono diventare molto pericolosi.
Steve Earle non si lasciò sfuggire l’opportunità e quello che non
seppe o volle imparare a scuola, scappato di casa ancora ragazzino, lo
apprese dalla strada dei due compari, diventando persino il bassista (poco
provetto) nella band di Guy Clark e finendo persino per incidere alcune
parti vocali nel citato capolavoro Old No.1. Per il suo vero debutto
ci vorranno ancora la bellezza di dieci anni, trascorsi fra cadute clamorose
e promesse non mantenute, ma quando Steve arriverà a fare il botto grazie
a Guitar Town (1985), la mano tesa di Guy Clark si sentirà fra
le note dei suoi primi successi.
Il suono dei Dukes nel 2019 non è quello del tempo e neppure la
voce, increspata e vissuta, è la stessa, ma la saggezza è dalla parte
di Steve Earle, che scava nel repertorio di Clark con ossequio e affetto.
Forse resta fregato da questa sua ammirazione, non aggredisce e stravolge
con violenza gli originali, e non potrebbe altrimenti, visto il legame
sentimentale, eppure Guy suona più spiritato e vivace del
predecedente album tributo Townes. Strano, a pensdarci bene, perché
tutti abbiamo sempre immaginato che fra Earle e Van Zandt esistesse una
dipendenza artistica e umana oscura e quasi fatale. E invece eccole spuntare
Dublin Blues e L.A.
Freeway in tutta la loro pacifica bellezza, avvolte in una
familiare coperta country rock, “outlaw” per vocazione e sentimento, anche
se oggi questo linguaggio è diventato la legge dell’Americana. Il repertorio
lo conosciamo in gran parte, ma per chi fosse sprovvisto di punti di riferimento,
sappia che Guy conferma una volta di più la densità narrativa del songwriting
di Clark, quel suo intrecciare dimensione poetica e realismo americano,
luoghi del mito e strada vera, polvere del Texas e personaggi usciti da
un romanzo: come Rita Ballou, The
Ballad of Laverne and Captain Flint, l’epica sarcastica di The
Last Gunfighter Ballad e l’anedottica di Texas 1947, fino a
toccare il suo vertice nel gioiello The Randall
Knife, una della canzoni sul rapporto padre/ figlio più intense
che siano mai state scritte, un legaccio di sentimenti e ricordi.
Gioco forza, Steve Earle sembra attingere a piene mani dai primi due lavori
di Clark (Old No.1 e Texas Cookin’), quelli che ne hanno definito lo stile
e la direzione, e probabilmente quelli che ha consumato di più da giovane
discepolo, ma c’è spazio anche per una eccitata New
Cut Road dall’aspro sapore hillbilly, successo nella versione
di Bobby Bare, o per il sobbalzare honky tonk di Heartbroke, a
suo tempo divenuta una hit per Ricky Skaggs. Restano in disparte gli ultimi
anni di Guy, quelli più acustici e riflessivi, lontani forse dalla sensibilità
di Steve o dalle sue stesse possibilità interpretative, ma non ci lamentiano
se in cambio riceviamo il rutilante, acido roots rock di Out
in the Parking Lot, tra i passaggi più elettrici della raccolta,
e la sgroppata bluegrass tra acustico ed anima fuorilegge di Sis Draper.
Il finale poi è una missiva spedita da una intera generazione più che
una canzone: Old Friends, omonima
traccia dell’album del 1988 firmata da Clark con Richard Dobson (anch’egli
scomparso in tempi recenti), è ripercorsa con un respiro nostalgico per
anni di formazione e selvaggia fiducia nel domani, con le voci di Emmylou
Harris, Rodney Crowell, Terry Allen e Jerry Jeff Walker ad affiancare
il nostro Steve.