Steve Earle l’outlaw socialista, l’incorreggibile
rivoluzionario del country, il texano più odiato a Nashville: ci domandavamo
quando avrebbe deciso di alzare la voce, e cosa avrebbe avuto da spiattellare
in faccia all'attuale amministrazione americana, e se avesse o meno ripreso
la lotta. Il tempo passa, la saggezza mitiga gli animi, o forse, meglio,
scava in profondità, dando all’autore la consapevolezza di poter incidere
con parole e musica che guardino direttamente nell’anima del suo avversario.
Ed è nell’anima (e nel corpo) dell’America divisa di questi giorni che
Ghosts of West Virginia prova a volgere lo sguardo: invece della
battaglia, a sorpresa Steve Earle cerca il confronto, la rinconciliazione,
si mette nei panni di quella gente che non la pensa come lui, che non
vota come lui, che non crede in ciò in cui crede lui, ma resta comunque
popolo, spesso povero, emarginato anche nell’arretratezza dei mezzi culturali,
confinato in terre martoriate, sfruttate, senza molti diritti.
Una di queste è racchiusa in Ghosts of West Virginia, luogo di
miniere e duro lavoro, dove prendono vita gli eventi cantati in questo
album breve, dal cipiglio fieramente hillbilly, spigoloso e dagli spiccati
accenti country rock rurali, inciso presso gli Electric Lady Studios di
New York con ciò che è rimasto dei Dukes (se ne è andato per sempre
il vecchio compagno Kelley Looney, bassista scomparso di recente e sostituito
da Jeff Hill). Tutto nasce intorno alla collaborazione con una compagnia
teatrale di Off-Broadway, sogno che Steve inseguiva da tempo: narrare
la vicenda controversa di Upper Big Branch, una delle tragedie
minerarie più grandi della recente storia americana, esplosione che uccise
una trentina di operai nel 2010. La colonna sonora della pièce teatrale,
intitolata Coal Country, nella quale Earle assumeva il ruolo di
una sorta di coro greco, è diventata adesso un album vero e proprio, una
rilettura del folklore americano nel solco di personaggi come Woody Guthrie
e Johnny Cash, che aprirono la strada.
Si parte con il canto a cappella di Heaven Ain’t
Got Nowhere e siamo già dentro i ritratti e le emozioni di
quell’angolo di paese che emerge spesso anche dai romanzi di scrittori
come Chris Offutt. "White trash" direbbe qualcuno, ma Steve
Earle conosce bene la fierezza di queste persone per non averne il massimo
rispetto, e il suo approccio sfiora allora compassione e orgoglio, attraversando
gli orizzonti di Union, God and Country,
tutto il mondo conosciuto da questa gente, prima di sprofondare nelle
viscere della terra con il gotico country di Devil Put the Coal in
the Ground. La voce è sempre più ispida e limitata nei registri, ma
Earle la sa utilizzare a suo vantaggio: John Henry was a Steel Drivin’
Man rivisita il mito popolare di John Henry a passo di sobbalzante
alternative country, Time is Nevere on Our Side e The Mine si
mettono sulle tracce dei suoi maestri, Guy Clark e Townes Van Zandt, mentre
la musica si fa rauca in It’s About Blood,
schietto rock rurale che nel finale declama, uno ad uno, tutti i nomi
delle vittime di Upper Big Branch.
If I Could See Your Face Again offre spazio per la prima volta al
lato femminile di questa storia e per farlo cede il canto a Eleanor
Whitmore (insieme al marito, il chitarrista Chris Mastersons, ormai
un punto fermo dei Dukes odierni), prima che con la cruda Black
Lung, elettriche e mandolino a intrecciarsi, si torni all’hillbilly
elettrico e all’inferno della vita in miniera, seguita dal brusco honky
tonk di Fatest Man Alive, ritratto dell’eroe di guerra locale Chuck
Yeager (perché c’è sempre un eroe di guerra in qualsiasi contea americana,
ci avete fatto caso?). Registrato in mono, a causa della parziale sordità
che ha colpito Earle e che gli impedisce di cogliere la separazione audio
in stereo, Ghosts of West Virginia restituisce l’immagine di un
musicista che si ostina ancora a trovare le ragioni di quell’impegno civile
e di quella resistenza umana che da sempre lo muovono dentro.