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Steve Wynn
Memorie di musica, vita e Dream Syndicate

- a cura di Fabio Cerbone -

Steve Wynn
Non lo direi se non fosse vero
Memorie di musica, vita e Dream Syndicate
[Jimenez, pp. 284]

Volevo solo portare avanti il sogno
(Steve Wynn, "Non lo direi se non fosse vero")

A guardarlo ancora oggi, eterno ragazzo del rock’n’roll in tour per il mondo, quasi non si crede al fatto che Steve Wynn abbia appena festeggiato sessantacinque anni, in buona parte dedicati a una passione totalizzante che è diventata anche un mestiere, ma sempre con un’idea precisa in testa, che il protagonista così riassume efficacemente: “Ho scoperto che volevo volare basso, fare le cose alle mie condizioni e mantenermi attivo, sia in studio sia in tour (…) Sarei stato in grado di continuare l’improbabile storia di sopravvivere e di costruirmi una vita con la musica”.

Non lo direi se non fosse vero (Jimenez edizioni 2025), titolo tanto intelligente quanto ironico, racconta proprio il percorso che ha portato l’ex voce e chitarra dei Dream Syndicate ad acquisire questa consapevolezza del suo ruolo e del suo destino, un posto nel mondo che ha tuttora un significato importante per tante persone che ne hanno apprezzato il gesto artistico, quello che attraversa queste Memorie di musica, vita e Dream Syndicate.

Autobiografia nata durante i giorni interminabili della pandemia e portata a termine con quella inclinazione per la scrittura (e le buone letture) che Wynn non ha mai nascosto, il libro affronta il "primo tempo” della vita di Steve, quella che dall’infanzia sconclusionata di figlio cresciuto da una madre single a Los Angeles arriva all’affermazione con la sua band di riferimento, The Dream Syndicate, fermandosi proprio alla soglia della successiva carriera solista (per quella c’è sempre spazio per un secondo volume…). Sono gli anni della formazione di sé, del tumulto e della ribellione, della crescita in pubblico e di quel “bisogno di rispecchiare, replicare, approssimare e sentirmi alla pari con i miei dischi e i miei autori preferiti è stata la luce primaria”, fino a immaginare e scrivere la propria musica.

Ed è prima di tutto questa condizione di rock’n’roll fan, in fondo comune anche a molti di noi, di adolescente pieno di stupore (“Ascolto una canzone o un album che mi lascia a bocca aperta e penso: Voglio farlo anch’io!”), di studente universitario che lavora di giorno come commesso nei negozi di dischi e fa il dj nei locali la sera, che coinvolge e avvicina alla lettura dei primi capitoli del libro (diviso in quattro sezioni, ciascuna intitolata prendendo spunto da un verso di una canzone dei Dream Syndicate stessi): Steve Wynn ne scrive con disincanto e affetto, comprende di essere stato molto fortunato a crescere nel cuore di Hollywood, nella California che fra anni Sessanta e Settanta era la culla della controcultura, così come la sua stessa famiglia era un guazzabuglio di padri e fratelli acquisiti, di continui cambi di casa e nuove esperienze.

Un’instabilità emotiva che per qualcuno sarebbe stata spiazzante (avere un padre “poliamoroso” e molto libertino può avere vantaggi e svantaggi…), ma che Steve Wynn ha tradotto in una libertà personale che si è subito messa in sintonia con il concetto stesso di formare una rock’n’roll band. A dirla tutta, prima di tutto ciò avrebbe voluto fare il giornalista sportivo e scrivere di baseball (qualcosa è rimasto sotto traccia, e basta ascoltarsi i dischi dei Baseball Project con l’amico Peter Buck), ma è durato lo spazio degli anni del liceo. Poi sono arrivati il ‘77, il punk rock e una rivoluzione sonora che lo ha riportato al suo unico vero obiettivo, quando da ragazzino scriveva già canzoni e divorava i dischi di Who, Rolling Stones, Creedence e Neil Yong, un’educazione “classica” che gli è servita senz’altro per sviluppare quella musica che proprio con i Dream Syndicate avrebbe fatto fa ponte fra i 60s e la “nuova onda” del cosiddetto rock alternativo e indipendente.

Sono gli anni del Paisley Underground, una scena e una girandola di nomi e amicizie (ci sono tutti, dai Long Ryders alle Bangles, passando per Green on Red e lpestemporanea avventura di Danny&Dusty) che Wynn racconta con un misto di nostalgia misurata e tenerezza, senza risparmiare errori e cadute e giudicandola con un grado di saggezza acquisita (“La morte di ogni grande scena musicale è dettata dal successo, perché non si passa più il tempo a casa, non si sta più insieme”). Ma soprattutto è il tempo della nascita dei Dream Syndicate, del sogno cullato con l’amica speciale Kendra Smith, bassista fondatrice del gruppo alla quale Steve Wynn riserva parole sincere, anche di scuse per tutto quello che li ha allontanati, ricordandosi però anche le ragioni che li hanno uniti, dare vita a una musica che avesse queste caratteristiche: che fosse sexy, divertente, spaventosa e con la possibilità che tutto crolli in qualsiasi momento.

Merrittville (Live in Madrid 1984) Out of The Grey, official video 1986

Da qui inizia il cuore pulsante di Non lo direi se non fosse vero, l’epica della band che scala velocemente la vetta (“La nostra fulminea ascesa è stata anche la nostra maledizione”) e poi precipita, attraverso un racconto sempre evocativo, spesso divertito e disincantato, della sfiancante vita in tour, delle frustrazioni in studio di registrazione, del rapporto conflittuale con l’industria musicale. Da questo punto di vista Non lo direi se non fosse vero potrebbe risultare davvero un manuale illuminante per capire i meccanismi perversi che guidano il music business, quanto meno la stagione più aurea e folle vissuta dal rock’n’roll, quando una band dell’underground poteva arrivare sulla bocca di tutti – e ciò accadde in fretta per Wynn e soci, dopo la pubblicazione di The Days of Wine and Roses - passando dagli scantinati e dai piccoli club ad avere a disposizione 150.000 dollari di budget dalla casa discografica per registrare il secondo album (Medicine Show, un’odissea che Wynn racconta senza risparmiarsi nulla). Roba da perdere la testa, come effettivamente sarebbe accaduto a un ragazzo allora venticinquenne che per molto tempo si sarebbe rifugiato nell’alcol per trovare un sostegno e reggere all’urto.

Wynn non si compiace di nulla, rivede ogni cosa con il giusto distacco ma anche il buon senso dell’uomo che è diventato, ammettendo dove ha sbagliato (per esempio nei rapporti con Karl Precoda, primo indimenticato chitarrista della band) e dove semplicemente il sogno si è interrotto, quando cercando di navigare nella corrente, da Out of the Grey all’ultimo album di studio Ghost Stories: “Eravamo diventati solo un altro gruppo che serviva a riempire le righe di un articolo riassuntivo (…) Sapevo che il nostro tempo era quasi finito e che eravamo ormai una notizia passata”. Nel mezzo la presa di coscienza di quello che poteva accadere e non è stato, i tour al fianco di U2 e R.E.M., di chi ha raggiunto un’altra dimensione di grandezza e ha giocato “in serie A”, come ripeteva spesso il veccho amico Karl Precoda, e chi invece, come i Dream Syndicate e lo stesso Steve Wynn da solista, non ha saputo o forse meglio non ha voluto prendere quel treno, trovando tuttavia una sua dimensione artistica altrettanto nobile e più congeniale, tra il sostegno costante del pubblico anche al di fuori dei confini nazionali (“l’Europa era il posto sicuro e affidabile in cui giocare in casa”), gli applausi della critica, ma soprattutto una coerenza con la propria personale idea di cosa dovevano essere The Dream Syndicate, quelli di prima e anche quelli di oggi, dopo la reunion discografica del 2017: “Siamo sempre stati una band che divaga, che si spinge al limite, che sfida se stessa a precipitare nell’oscurità, per salvarsi all’ultimo secondo e per rifarlo di nuovo”. Non chiediamo di meglio, Steve.


 
 

Welcome to the medicine show
La storia discografica dei Dream Syndicate

- a cura di Marco Denti -


Nella storia dei Dream Syndicate, ogni singolo album ha segnato una svolta nella storia del gruppo, come è logico che sia, ma spesso è capitato che si trovassero nel punto più alto e più basso nello stesso momento, frutto dell’ondeggiare di una rock’n’roll band tanto generosa quanto incredibile

 

- The Days of Wine and Roses, 1982 -

“I primi album di gran parte dei gruppi non possono non essere un po’ derivativi, perché si tratta di spremere la spugna che contiene tutti i suoni, gli stili e i pezzi che ti hanno fatto venire voglia di fare musica per conto tuo. E noi non facevamo eccezione, solo che il nostro approccio amatoriale rendeva più facile camuffare e nascondere le nostre fonti”
(Steve Wynn)

Uno splendido esordio, frutto di un momento irripetibile, per i Dream Syndicate, e non solo. Registrato in fretta e furia con Chris D., cogliendo l’urgenza di una rock’n’roll band appena emersa dai sotterranei, le canzoni sono scarne, le chitarre urticanti. D’accordo, le derivazioni, ma The Days of Wine and Roses è definitivamente Los Angeles e non può essere altrimenti vista l’aria di lupi affamati che si respira: notturno, acido, tagliente e anfetaminico condivide le stesse affinità elettive con gli X, gli Alley Cats, i Gun Club, e Gravity Talks dei Green on Red. Su tutti, veglia il fantasma di Jim Morrison.
 
 
- Medicine Show, 1984 -

“Erano passati solo due anni dal nostro primo concerto, ma la band che aveva realizzato il primo EP sembrava a questo punto completamente diversa, estranea a noi stessi come noi lo eravamo ai fan e alla critica”
(Steve Wynn)

Medicine Show
è stato un momento avvincente, dove i Dream Syndicate mostravano di aver raggiunto un grado di maturità che senza dubbio nemmeno loro si aspettavano. A dispetto della meticolosa e complessa gestazione voluta dal produttore, Sandy Pearlman, Medicine Show è un grande album di rock’n’roll con canzoni destinate a diventare classici negli show dei Dream Syndicate prima e Steve Wynn poi. Per tutti noi è e resta un capolavoro, e ha senso, ma è stato il frutto di un processo tormentato nelle cui pieghe è sorta anche l’ostilità tra Karl Precoda e Steve Wynn.
 
 

- This Is Not The New Dream Syndicate Album... Live!, 1984 -

“In vista del primo concerto del tour, a Fresno, avevamo a disposizione pochi giorni di prove per mettere a punto nuovi arrangiamenti e una nuova scaletta incentrata sulle tastiere di Tommy, più o meno come nell’album, il punto focale del nostro nuovo sound”
(Steve Wynn)


Mentre gli amici Green on Red si allargavano con un chitarrista (Chuck Prophet), avendo già le tastiere di Chris Cacavas, i Dream Syndicate si portavano in tour Tommy Zvoncheck, già con i Blue Öyster Cult per cercare di ricostruire le atmosfere di Medicine Show. Il fatto è che l’organo e il pianoforte sovrastano a più riprese il sound chitarristico e This Is Not The New Dream Syndicate Album... Live! è giusto una breve testimonianza dell’attimo fuggente dei Dream Syndicate, senza rendergli onore. Tastiere a parte, l’incisione è limitata, e Steve Wynn se lo dimentica pure, nel suo memoir.
 
 

(Danny & Dusty, The Lost Weekend, 1985)

“Era stata, soprattutto, una session divertente, e il divertimento era proprio quello che serviva a tutti noi dopo un anno passato a cercare di capire che cosa fare dei tanti riflettori, gratificanti ma anche seccanti, che erano stati puntati nella nostra direzione. Qui si trattava soltanto di amici che suonavano strambe canzoni su tipi miserabili e balordi, ridendo e tracannando alcolici”
(Steve Wynn)


Una felice parentesi a saldare i legami tra Green on Red e Dream Syndicate attraverso i rispettivi leader. L’atmosfera informale sembra fatta apposta per godersi lo spirito del tempo, senza pressioni o costrizioni, ma The Lost Weekend anticipa, al pari di Poor Little Critter on the Road dei Knitters, la coabitazione con la musica tradizionale americana che diventerà obbligatoria da lì in poi. Avrà un seguito, nel 2007, con la bella rimpatriata di Cast Iron Soul.
 
 

- Out of the Grey, 1986 -

“Nel corso degli anni ho detto più volte che Out of the Grey è l’album che mi piace di meno tra tutti quelli che ho fatto nella mia vita, solo per sentirmi dire da tanti fan che è il loro preferito”
(Steve Wynn)


Out of the Grey
nasce in un momento singolare: una nuova etichetta e il nuovo chitarrista Paul B. Cutler come produttore sembrano le coordinate giuste, ma qualcosa di perde nei dettagli, così “l’intensità e il senso di pericolo” sfumano in un un disco di transizione. Steve Wynn sta crescendo come songwriter, le canzoni si tingono di noir, da Raymond Chandles a James Ellroy, e i Dream Syndicate suonano compatti e potenti, però il sound è sfocato, non meno delle immagini in copertina. Sarebbe stato bello sentirli con un produttore come Don Gehman o Chuck Plotkin (nomi circolati all’epoca di Medicine Show) ma non volendone più sapere di supervisori esterni ed estranei (dopo l’esperienza con Sandy Pearlman) il risultato è parziale e rimangono a metà del guado. Out of the Grey è uno di questi casi in cui una ristampa rimette in discussione l’intera entità di un disco e questo l’ha detto anche Steve Wynn: “La nuova versione restaurata ha restituito il suono di un gruppo sicuro e forte che suona a pieno regime”. La ristampa, ovvero What Can I Say? No Regrets, è un’altra storia, non perdetevela.
 
 

- Ghost Stories, 1988 -

“Rispetto ai sei anni precedenti, pieni di scontri, discordie e sconvolgimenti, le cose stavano prendendo una piega stabile e sicura, e ciò si estendeva anche ai rapporti con la band. A tutti piaceva il disco e tutti andavamo d’amore e d’accordo”
(Steve Wynn)


Ghost Stories
è il disco che rappresenta meglio i Dream Syndicate rispetto a quello che facevano dal vivo. La chitarra di Paul B. Cutler serpeggia in tutte le canzoni e Steve Wynn, più ispirato che mai, lo descrive così: “Sarebbe stato il primo disco dai tempi di The Days of Wine and Roses a rifettere la potenza dei nostri concerti con una raccolta di canzoni di alto livello”. La varietà di Ghost Stories è a suo modo estrema: la dolcezza pop di I Have Faith è in contrasto con il trittico iniziale (The Side I’ll Never Show, My Old Haunts, Loving the Sinner, Hating the Sin), forse la miglior sequenza in assoluto dei Dream Syndicate ad aprire “un disco scuro e grezzo” come lo definisce ancora Steve Wynn. Il loro momento migliore, e una porta aperta verso la fine.
 
RootsHighway - dai nostri archivi
 
Live at Raji's, 1989 - dai nostri archivi, lo speciale Folklore
 
The Day Before Wine and Roses, 1982 - dai nostri archivi, ClassicHighway

 


<Credits>