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Steve
Wynn - a cura
di Fabio Cerbone -
Volevo
solo portare avanti il sogno
Da qui inizia il cuore pulsante di Non lo direi se non fosse vero,
l’epica della band che scala velocemente la vetta (“La nostra fulminea
ascesa è stata anche la nostra maledizione”) e poi precipita, attraverso
un racconto sempre evocativo, spesso divertito e disincantato, della
sfiancante vita in tour, delle frustrazioni in studio di registrazione,
del rapporto conflittuale con l’industria musicale. Da questo punto
di vista Non lo direi se non fosse vero potrebbe risultare davvero
un manuale illuminante per capire i meccanismi perversi che guidano
il music business, quanto meno la stagione più aurea e folle vissuta
dal rock’n’roll, quando una band dell’underground poteva arrivare sulla
bocca di tutti – e ciò accadde in fretta per Wynn e soci, dopo la pubblicazione
di The Days of Wine and Roses - passando dagli scantinati e dai
piccoli club ad avere a disposizione 150.000 dollari di budget dalla
casa discografica per registrare il secondo album (Medicine Show,
un’odissea che Wynn racconta senza risparmiarsi nulla). Roba da perdere
la testa, come effettivamente sarebbe accaduto a un ragazzo allora venticinquenne
che per molto tempo si sarebbe rifugiato nell’alcol per trovare un sostegno
e reggere all’urto.
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Welcome
to the medicine show - a cura di Marco Denti -
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The Days of Wine and Roses, 1982 - “I primi album di gran parte dei gruppi non possono non essere un po’ derivativi, perché si tratta di spremere la spugna che contiene tutti i suoni, gli stili e i pezzi che ti hanno fatto venire voglia di fare musica per conto tuo. E noi non facevamo eccezione, solo che il nostro approccio amatoriale rendeva più facile camuffare e nascondere le nostre fonti” (Steve Wynn) |
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Uno splendido esordio, frutto di un momento irripetibile, per i Dream Syndicate, e non solo. Registrato in fretta e furia con Chris D., cogliendo l’urgenza di una rock’n’roll band appena emersa dai sotterranei, le canzoni sono scarne, le chitarre urticanti. D’accordo, le derivazioni, ma The Days of Wine and Roses è definitivamente Los Angeles e non può essere altrimenti vista l’aria di lupi affamati che si respira: notturno, acido, tagliente e anfetaminico condivide le stesse affinità elettive con gli X, gli Alley Cats, i Gun Club, e Gravity Talks dei Green on Red. Su tutti, veglia il fantasma di Jim Morrison. |
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Medicine Show, 1984 - “Erano passati solo due anni dal nostro primo concerto, ma la band che aveva realizzato il primo EP sembrava a questo punto completamente diversa, estranea a noi stessi come noi lo eravamo ai fan e alla critica” (Steve Wynn) |
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Medicine Show è stato un momento avvincente, dove i Dream Syndicate mostravano di aver raggiunto un grado di maturità che senza dubbio nemmeno loro si aspettavano. A dispetto della meticolosa e complessa gestazione voluta dal produttore, Sandy Pearlman, Medicine Show è un grande album di rock’n’roll con canzoni destinate a diventare classici negli show dei Dream Syndicate prima e Steve Wynn poi. Per tutti noi è e resta un capolavoro, e ha senso, ma è stato il frutto di un processo tormentato nelle cui pieghe è sorta anche l’ostilità tra Karl Precoda e Steve Wynn. |
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- This Is Not The New Dream Syndicate Album... Live!, 1984 - “In
vista del primo concerto del tour, a Fresno, avevamo a disposizione
pochi giorni di prove per mettere a punto nuovi arrangiamenti e una
nuova scaletta incentrata sulle tastiere di Tommy, più o meno come nell’album,
il punto focale del nostro nuovo sound” |
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Mentre gli amici Green on Red si allargavano con un chitarrista (Chuck Prophet), avendo già le tastiere di Chris Cacavas, i Dream Syndicate si portavano in tour Tommy Zvoncheck, già con i Blue Öyster Cult per cercare di ricostruire le atmosfere di Medicine Show. Il fatto è che l’organo e il pianoforte sovrastano a più riprese il sound chitarristico e This Is Not The New Dream Syndicate Album... Live! è giusto una breve testimonianza dell’attimo fuggente dei Dream Syndicate, senza rendergli onore. Tastiere a parte, l’incisione è limitata, e Steve Wynn se lo dimentica pure, nel suo memoir. |
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(Danny & Dusty, The Lost Weekend, 1985) “Era
stata, soprattutto, una session divertente, e il divertimento era proprio
quello che serviva a tutti noi dopo un anno passato a cercare di capire
che cosa fare dei tanti riflettori, gratificanti ma anche seccanti,
che erano stati puntati nella nostra direzione. Qui si trattava soltanto
di amici che suonavano strambe canzoni su tipi miserabili e balordi,
ridendo e tracannando alcolici” |
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Una felice parentesi a saldare i legami tra Green on Red e Dream Syndicate attraverso i rispettivi leader. L’atmosfera informale sembra fatta apposta per godersi lo spirito del tempo, senza pressioni o costrizioni, ma The Lost Weekend anticipa, al pari di Poor Little Critter on the Road dei Knitters, la coabitazione con la musica tradizionale americana che diventerà obbligatoria da lì in poi. Avrà un seguito, nel 2007, con la bella rimpatriata di Cast Iron Soul. |
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- Out of the Grey, 1986 - “Nel
corso degli anni ho detto più volte che Out of the Grey è l’album che
mi piace di meno tra tutti quelli che ho fatto nella mia vita, solo
per sentirmi dire da tanti fan che è il loro preferito” |
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Out of the Grey nasce in un momento singolare: una nuova etichetta e il nuovo chitarrista Paul B. Cutler come produttore sembrano le coordinate giuste, ma qualcosa di perde nei dettagli, così “l’intensità e il senso di pericolo” sfumano in un un disco di transizione. Steve Wynn sta crescendo come songwriter, le canzoni si tingono di noir, da Raymond Chandles a James Ellroy, e i Dream Syndicate suonano compatti e potenti, però il sound è sfocato, non meno delle immagini in copertina. Sarebbe stato bello sentirli con un produttore come Don Gehman o Chuck Plotkin (nomi circolati all’epoca di Medicine Show) ma non volendone più sapere di supervisori esterni ed estranei (dopo l’esperienza con Sandy Pearlman) il risultato è parziale e rimangono a metà del guado. Out of the Grey è uno di questi casi in cui una ristampa rimette in discussione l’intera entità di un disco e questo l’ha detto anche Steve Wynn: “La nuova versione restaurata ha restituito il suono di un gruppo sicuro e forte che suona a pieno regime”. La ristampa, ovvero What Can I Say? No Regrets, è un’altra storia, non perdetevela. |
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- Ghost Stories, 1988 - “Rispetto
ai sei anni precedenti, pieni di scontri, discordie e sconvolgimenti,
le cose stavano prendendo una piega stabile e sicura, e ciò si estendeva
anche ai rapporti con la band. A tutti piaceva il disco e tutti andavamo
d’amore e d’accordo” |
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Ghost Stories è il disco che rappresenta meglio i Dream Syndicate rispetto a quello che facevano dal vivo. La chitarra di Paul B. Cutler serpeggia in tutte le canzoni e Steve Wynn, più ispirato che mai, lo descrive così: “Sarebbe stato il primo disco dai tempi di The Days of Wine and Roses a rifettere la potenza dei nostri concerti con una raccolta di canzoni di alto livello”. La varietà di Ghost Stories è a suo modo estrema: la dolcezza pop di I Have Faith è in contrasto con il trittico iniziale (The Side I’ll Never Show, My Old Haunts, Loving the Sinner, Hating the Sin), forse la miglior sequenza in assoluto dei Dream Syndicate ad aprire “un disco scuro e grezzo” come lo definisce ancora Steve Wynn. Il loro momento migliore, e una porta aperta verso la fine. |
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Live at Raji's, 1989 - dai nostri archivi, lo speciale Folklore | |||||||
The Day Before Wine and Roses, 1982 - dai nostri archivi, ClassicHighway |
info@rootshighway.it
<Credits>