«Avrò fatto la figura dello
stupido, ma / Cosa posso dire? Nessun rimpianto»: così cantava Steve
Wynn nel 1986 di Blood Money e, sebbene la canzone parlasse di
uno dei suoi tanti delinquentelli di mezza tacca, come molti suoi colleghi
disperso in un un sottomondo di violenza e crudeltà surreali, si poteva
ugualmente leggere tra le parole, in filigrana, un riferimento ai personali
sogni di gloria (musicale) di lì a poco in procinto di assopirsi a tempo
indefinito.
Già, perché i Dream Syndicate - il gruppo da lui fondato nel
1981 - avevano avuto la loro “grande occasione” pochi anni prima: dopo
il clamore underground suscitato dall’esordio The Days Of Wine And
Roses (1981) e dal suo abrasivo intreccio tra punk, new-wave, r’n’r,
canzone d’autore e morbosità velvettiane, a metterli sotto contratto
ci aveva infatti pensato l’insigne A&M, ma nonostante la generosità
dello stanziamento economico e la capillarità della distribuzione major,
nessuno dei due titoli licenziati sotto quell’egida era riuscito a impressionare
il grande pubblico. Anzi, di Medicine Show (1984), tra i massimi
capolavori del classic-rock di sempre, si sarebbero perse le tracce
in un battibaleno, mentre l’extended dal vivo This Is Not The New
Dream Syndicate Album... Live!, uscito nello stesso anno, sarebbe
presto finito in qualche bancarella dei cosiddetti forati per poi sparire
rapidamente dalla circolazione.
Insomma, secondo la (capovolta) fenomenologia del successo immortalata,
in Italia, da Alberto Arbasino, i Dream Syndicate erano passati, nel
giro di un biennio appena e nonostante prestigiose aperture di concerti
per R.E.M. e U2, dalla categoria delle «belle promesse» a quella dei
«soliti stronzi» (per accedere al rango dei «venerati maestri» ci avrebbero
messo più di trent’anni, con 28 di pausa), peraltro con l’onere emotivo
di una formazione di continuo scombussolata. La bassista Kendra Smith
se n’era andata in seguito al debutto e il chitarrista Karl Precoda
aveva fatto altrettanto all’indomani della rescissione di contratto
con la A&M; a costoro, in aggiunta cioè alla sei corde di Wynn e ai
tamburi di Dennis Duck, erano subentrati Mark Walton e la vecchia conoscenza
Paul B. Cutler, fino a poche settimane prima responsabile (con Don Bolles
dei Germs e Rob Ritter dei Gun Club) del macabro e irresistibile punk
gotico dei 45 Grave.
Un po’ per queste premesse
(molti estimatori della prima ora si aspettavano un’altra opera cruciale)
e un po’ per l’insostenibilità delle pressioni commerciali (si trattava
pur sempre dell’ultima occasione per intercettare un pizzico di successo),
i contenuti del terzo Out Of The Grey (1986) finirono
per deludere quasi tutti. Il disco uscì per l’australiana Big Time (tant’è
che i nastri rimasero proprietà... degli Hoodoo Gurus!) e soffrì, negli
Stati Uniti, di una distribuzione altalenante, ma non andò meglio in
Europa, benché nel vecchio continente l’album battesse la bandiera della
prestigiosa Chrysalis: se i seguaci del gruppo rimasero freddi davanti
a materiale percepito, da parte di chi era stato fino a quel momento
annoverato tra le più incoraggianti leve del «nuovo rock» targato ’80,
come troppo ammiccante e levigato, il grande pubblico e con lui le stazioni
radio e la stampa scelsero altresì di ignorarlo su tutta la linea. Fedeli
al proposito di non alimentare troppi rimpianti, Wynn e soci diedero
vita a un ulteriore lavoro in studio (Ghost Stories [1988], ottimo)
e a un disco dal vivo a dir poco incendiario (Live At Raji’s [1989],
epocale), in entrambi i casi avvalendosi del produttore Elliot Mazer
(Neil Young, Frankie Miller, Gordon Lightfoot e altri nel suo carnet),
per poi sciogliersi e rientrare in pista soltanto tre decenni più tardi,
sfruttando (senza dolo, per carità) le nuove opportunità di un mercato
discografico ormai cronicamente afflitto da nostalgia e retromania.
Non è solo il ricordo di un’altra epoca, tuttavia, a rendere così accattivante
questo What Can I Say? No Regrets... - Out Of The Grey
+ Live, Demos & Outtakes, ristampa "espansa", nonché integrata
da vari elementi inediti, del terzo album dei Dream Syndicate, perché
se è vero che canzoni allora in apparenza evanescenti sembrano oggi,
data la pochezza delle proposte contemporanee, piccole meraviglie di
gusto melodico e finezza esecutiva, è altrettanto inevitabile rendersi
conto di come Out Of The Grey (con lo stesso Cutler ai controlli)
non fosse affatto quel mezzo passo falso di cui s’è a lungo dibattuto.
Col senno di poi, quale fosse il "tradimento" perpetrato dal
gruppo nell’allineare i riff sferzanti di Forest
For The Trees, l’epico e solenne flusso di coscienza di una
Boston ispirata alla lavorazione
del vanmorrisoniano Astral Weeks, il rock-noir affilato di 50 In
A 25 Zone e Blood Money, il pop cristallino di Slide Away,
quello più immalinconito di Dying Embers o il folk-rock da giorni
di pioggia dell’ultima You Can’t Forget, è difficile da capire.
Certo, la regolarità della sezione ritmica, la pulizia degli assoli
di Cutler e la scrittura meno improvvisata e più tradizionalista di
Wynn non reggevano il confronto con le libere rappresentazioni sonore,
vulcaniche e melodrammatiche, andate in scena ai tempi di Smith e Precoda,
ma da qui a bollare l’opera come un’epitome del ridimensionamento ne
correva e ne corre.
Senz’altro Out Of The Grey era un disco di transizione, l’opera
con cui un gruppo al crocevia tra new-wave e post-punk ufficializzava
in tutto e per tutto l’ispirazione passatista e tutt’altro che trasgressiva
del proprio gesto, ma all’insegna di un passaggio (verso altri mondi,
altre sfere, altre passioni) che ora come ora non faticheremmo a considerare
a un passo dal definirsi compiuto. Impegnati a trasformare in altro
i cortocircuiti innescati nei loro cuori di fanatici della musica, alle
prese con il bisogno di catalogare la loro nuova identità partendo da
un sistema culturale condiviso, i Dream Syndicate prendevano
di petto, rileggendone i brani, numi tutelari quali Eric Clapton (Let
It Rain, ruggente e rockinrollista come poche), Neil Young (Cinnamon
Girl, meno viscerale di quanto era lecito aspettarsi) e Alice Cooper
(Ballad Of Dwight Frye, ipnotica e trascinante), senza dimenticare
il blues di Slim Harpo (Shake Your Hips) e oscuri strumentali
tra surf e proto-punk (The Lonely Bull), con l’idea di mostrare
senza filtri cosa sedimentasse nel cuore del proprio, inquieto girovagare
tra forme, stili, etichette, referenti.
Atteggiamento che, in
questo caso, viene enfatizzato dalla scaletta di Odds & Sods,
il terzo dei CD qui inclusi (tutto il materiale poc’anzi citato sta
invece nel primo): titolo omaggiante una vecchia raccolta degli Who
per una cornucopia di inediti il cui punto, com’è ovvio, non sta nel
sentire i Syndicate alla prese con la sigla della serie televisiva I
Mostri (in originale The Munsters) o ascoltarli sminuzzare, in
genere per un minuto o poco più, Pink Floyd (Another Brick In The
Wall Pt.2, Brain Damage), Dolly Parton (Jeannie’s Afraid Of The
Dark), Santana (I Ain’t Got Nobody) etc., bensì nel trovarsi
di fronte al loro approccio totalizzante, innamorato, affamato, tumultuoso
e travolgente al r’n’r. Che nelle loro mani diventa un sogno d’infanzia
- un moto d’innocenza e purezza - a cui donare concretezza sventrando
I’m Eighteen di Alice Cooper con furia punk degna dei Sex Pistols,
oppure rileggendo la Sixteen Ways degli amici Green On Red sostituendone
l’acidità psichedelica con un muro di esaltazione elettrica, oppure
ancora scontornando le primigenie versioni dei brani del disco (con
una menzione d’onore per la Here On Earth As Well poi finita,
in vesti più lugubri e meno efficaci, su Kerosene Man, nel 1990 esordio
solista di Wynn) attraverso risonanze folkie, armonie sensuali e arrangiamenti
tanto semplici quanto incisivi.
Sul secondo CD, registrato dal vivo a Rochester (periferia di New York)
nel 1985, poco da dire: parte senza guizzi eccessivi, ma se avete amato
il Live At Raji’s, anche qui vi troverete presto avviluppati
nel lirismo a un tempo aggressivo e strappalacrime delle acrobazie chitarristiche
di Cutler, nell’energia vocale di Wynn e nei sortilegi di basso e batteria
in costante cavalcata, tutte caratteristiche portate a temperatura ustionante
nel delirio post-punk di un’interminabile John Coltrane Stereo Blues,
nell’incedere granitico, crudo e lisergico di una monumentale Still
Holding On To You, nell’infiammarsi visionario e deragliante di
When You Smile, nella febbricitante sporcizia di una The Days
Of Wine And Roses tagliente come una bufera di coltelli.
E quindi, in definitiva, What Can I Say? No Regrets... - Out Of
The Grey + Live, Demos & Outtakes si rivolge soltanto a chi
i Dream Syndicate già li apprezzava, ai completisti, a quanti non riescono
a trattenere il rimpianto per il tempo che fu? Sì e no. C’è una poesia
di Jacques Prévert (bella come lo erano tutte le sue poesie prima che
la comunicazione formato social ci obbligasse a demistificare e demolire,
ironizzandoci sopra, qualsiasi cosa) in cui a un ragazzo viene chiesto
di svolgere un compito di matematica mentre lui vorrebbe soltanto osservare,
al di fuori della classe, il volo di un uccello: una dicotomia tra desiderio
e realtà dove c’è tutto Out Of The Grey, il disco - quello di
ieri e quello di oggi - col quale i Dream Syndicate provarono per l’ultima
volta a spiccare il volo salvo accorgersi, dopo, di quanto fossero fragili
(cioè umane, imperfette, indistintamente amabili) le loro ali. Steve
Wynn è un signore di buone letture. Quella poesia, ci scommetto, se
la ricorda.