È una questione tutta americana
quella che tiene in vita The Baseball Project, raduno di icone
dell’underground rock che riversa la propria passione per uno sport, anzi
di più, per una vera e propria cultura fatta di leggende, personaggi e
storie da tramandare, dentro una manciata di canzoni spedite come cartoline
della memoria. Partendo da qui si può forse cogliere una parte del fascino
di Grand Salami Time!, titolo buffo che tende fortunatamente
a non prendersi troppo sul serio (il gioco di parole è con il grand
slam, che nel baseball indica un fuoricampo realizzato con tutte le
basi piene), ma non per questo rinuncia all’emozione di raccontare una
mitologia che a noi suonerà sempre un po’ distante.
E se le figure di Jose Fernandez o Jim Bouton ci appariranno sfocate,
quando non del tutto sconosciute, così come alcuni omaggi alle voci dei
commentatori (The Voice of Baseball), alle tecniche di lancio (Screwball)
o alle manie compulsive dei tifosi (Fantasy Baseball Widow), resta
la musica a fare da collante, trasmettendo magicamente l’entusiasmo dei
partecipanti, anche di fronte alla scarsa conoscenza della materia per
il pubblico medio italiano. Eppure il risultato non era affatto scontato,
anche alla luce dei nove anni di assenza dei Baseball Project, tanto è
passato dal loro terzo lavoro pubblicato nel 2014 per la Yep Roc.
Il cambio di casacca, alla Omnivore recordings, serra i ranghi del gruppo,
ritrova l’ispirazione migliore degli esordi e dà ragione alla band: valeva
la pena un altro giro sulla giostra, se il frutto sono questi quindici
brani (sì, qualcuno di troppo, ma che volete che siano un paio di cadute
di tono nella scaletta), dove sussulti garage rock e carezze power pop
vanno a braccetto di quelle chitarre che riscoprono gioie da Paisley Underground
e palpiti da jangle pop. Facile, viene da pensare, se la formazione è
ancora nelle mani di Scott McCaughey (The Minus 5/Young Fresh Fellows)
e Steve Wynn (The Dream Syndicate), principali voci e songwgriter della
situazione, con le chitarre di Peter Buck e il basso di Mike Mills (R.E.M.),
mentre Linda Pitmon siede dietro la batteria. Il suono è presto detto
e racconta di una generazione intera, basterebbero le scintille dell’attacco
con Grand Salami Time e il sussultare
elettrico di The Yips, ma è tutto
l’album a corteggiare un intero immaginario di rock’n’roll dai bassifondi
americani.
Se alla ricetta aggiungiamo la produzione in presa diretta di Mitch
Easter (altro nome che echeggia un’epoca, oltre che gli esordi degli
stessi R.E.M.) nei suoi studi in North Carolina e le comparse di Stephen
McCarthy (The Long Ryders) e Steve Berlin (Los Lobos), allora non ci si
può proprio sbagliare sul senso di marcia di Grand Salami Time!:
in Uncle Charlie c’è il miglior Steve
Wynn che rincorre le tracce di Bob Dylan, mentre in Journeyman
e Fantasy Baseball Widow sfodera spumeggianti folk rock degni delle
sue sortite soliste più ispirate; Erasable Man è garage soul d’assalto,
sul quale la voce nervosa di Scott McCaughey va a nozze; l’uno-due di
organo e chitarre acide di New Oh in Town è puro sixties sound
rivisitato e The All or Nothings la sua accelerazione in chiave
punk rock. Arriva persino il momento dark dei Baseball Project, con una
stranezza intitolata Stuff che porta la firma (l’unica) di Mike
Mills, e soprattutto quello acid-funk di una Disco Demolition che
“celebra” l’infausto ritrovo degli odiatori della disco music, quando
nel luglio del 1979 fu organizzato un autentico rogo di vinili nello stadio
dei White Sox di Chicago.
Storie americane, certo, storie di baseball, ma la musica la conosciamo
bene e le barriere incredibilmente cadono.