Radio John era un disco inedito del
grande John Hartford, in teoria un ritorno alle radici
più secche della propria ispirazione tradizionalista, con
arrangiamenti minimali e senza alcuna sovraincisione dopo
la sbornia di fiati e archi dei precedenti John Hartford
(1969) e Iron Mountain Depot (1970). Alla fine,
però, il musicista — stupefacente virtuoso di banjo e violino
nonché uno degli artisti più dotati, irriverenti e originali
in tutta la storia del folk americano — scelse di non pubblicarlo,
preferendo dare alle stampe il leggendario Aero-Plain
(1971), tra le sue opere più funamboliche, e per ascoltarlo
avremmo dovuto aspettarne la definitiva sconfitta nella pluridecennale
battaglia contro il cancro (cui si arrese nel 2001, all’età
di 63 anni), in seguito alla quale la Camden/BMG avrebbe ristampato,
su due diversi CD, ben sei dei suoi titoli storici, recuperando
per l’occasione anche quello perduto di cui sopra.
Ma «Radio John» era anche il soprannome di Hartford nella
prima metà dei ’60, quando costui, trasmettendo dalle frequenze
della KSTL di St. Louis, Missouri (sua città d’origine), inondava
l’etere non solo di qualsiasi proposta riformatrice venisse,
in ambito bluegrass, old-time o folk, impressa su vinile,
bensì di una serie apparentemente interminabile di storie
e aneddoti riguardanti Mark Twain, il fiume Mississippi e
la fabbricazione dei battelli navali, tre passioni che l’avrebbero
accompagnato per tutta la vita. Dismessi i panni del conduttore
radiofonico, «Radio John» indossò quelli dell’autore proprietario,
senza smettere però di consumare musica altrui in quantità
industriali. Fu a tal punto folgorato dall’omonimo esordio,
targato 1972, dei New Grass Revival di Sam Bush (altro
virtuoso, originario del Kentucky, di qualsiasi strumento
a corda della tradizione, ma con leggera predilezione per
il mandolino), dalla loro inaudita contaminazione (molto influenzata
dagli esperimenti hartfordiani) tra suoni centenari e ingredienti
ricavati dalle melodie di pop e reggae, da volergli scrivere
uno strampalato “poema” (lo trovate sul retrocopertina del
disco) e da stringere con il condottiero del gruppo una duratura
amicizia.
Hartford, successivamente a un altro mezzo capolavoro come
Morning Bugle (1972), si sarebbe preso una pausa di
qualche anno per dedicarsi, da commodoro!, all’amata navigazione
fluviale; nel momento di tornare in studio, l’avrebbe fatto
sotto l’egida della Flying Fish di Chicago perché quella era,
ai tempi, la casa discografica in cui militava Bush (e i due
si sarebbero infatti divertiti, per anni, a collaborare suonando
e incidendo assieme, scambiandosi pezzi e consigli, accompagnandosi
in tour). Non solo, perché la coppia si sarebbe ritrovata
anche nell’organico della colonna sonora di Fratello, Dove
Sei? (O Brother, Where Art Thou?), diretto nel 2000
dai fratelli Coen, partecipando così alla più fortunata resurrezione
mediatica vissuta dal repertorio old-timey degli ultimi anni.
A sei stagioni di distanza dall’ultimo (e
splendido) Storyman (2016), Bush ha voluto rimettersi
in pista per confezionare un omaggio, decantato nel tempo,
all’amico scomparso: Radio John: Songs Of John Hartford
comprende infatti nove rivisitazioni (più l’inedita title-track,
scritta a quattro mani dal titolare e da John Pennell) di
brani appartenuti al polistrumentista del Missouri, la maggior
parte dei quali proveniente da lavori dei ’70 a cui Bush aveva
a vario titolo già partecipato in diretta. Nondimeno, siccome
il tempo cambia molte cose, non solo dal punto di vista della
neurobiologia ma proprio in termini di emozioni e sensazioni,
ecco che gli sfrenati istrionismi di allora, le sperticate
macellerie strumentali e gli spericolati esempi di acrobazia
esecutiva rallentano, in parte si pacificano, si dischiudono
per accogliere nuovi orizzonti di pensiero e sentimento. Così,
se il vortice terroristico dell’antica California
Earthquake poteva essere, allora, una marziale
presa in giro del piagnucolio dei brani realizzati tra Nashville
e dintorni, oggi, nelle mani di Bush, pur senza perdere grinta
virtuosistica, diventa una magistrale riflessione sull’epoca
in cui la musica — tutta la musica — voleva fermare un pezzo
di mondo, o almeno del proprio mondo, in ghirlande di note
e composizioni di strumenti.
Ben quattro brani arrivano dall’indimenticato (anche da Bush,
a quanto pare) Nobody Knows What You Do (1976), e sono
l’umoristica Granny Wontcha Smoke Some Marijuana, in
parte addolcita rispetto al mulinare di corde del prototipo
ma sempre travolgente, e la più melanconica Down, l’incantevole
ritratto rurale di In Tall Buildings
e la piena genuflessione di John McLaughlin, quest’ultima
evocazione intricatissima di quando Bush e Hartford si perdevano
tra le suggestioni della Mahavishnu Orchestra di Birds
Of Fire (1973). Bush fa più o meno sempre tutto da solo,
anche in veri e propri affreschi acustici quali I’m
Still Here o nelle sottili elettrificazioni del
basso che percorrono No End Of Love e A Simple Thing
As Love (deliziosa); il suo gruppo viene schierato al
completo solo nell’ultima Radio John,
eppure il tono complessivo della traccia resta nostalgico,
come se il quintetto evocasse il country-rock dei Byrds di
Sweetheart Of The Rodeo (1968), dove Hartford non a
caso compariva, accentuandone le trame folk e bluegrass.
Per John Hartford la tradizione rappresentava un possibile
elemento di trasgressione, che Bush avrebbe poi contaminato
col rock e con altri linguaggi (Tony Rice, per dire, avrebbe
fatto lo stesso col jazz), da rivendicare, come spazio di
libertà, all’interno di quella che negli anni ’70 già reputava
essere l’omologazione dilagante di suoni e prospettive. Per
il Sam Bush di Radio John: Songs Of John Hartford,
quell’antico spazio è invece diventato un feticcio cui guardare
con un filo di tristezza e qualche rimpianto. Naturale, quindi,
scorgere nella sua cerimonia dei ricordi qualche scampolo
di maniera: ma finché la maniera sarà espressa con tanta grazia
e tale partecipazione, non solo ce la faremo bastare ma la
celebreremo come testimonianza del cuore puro di una generazione
che ha voluto, prima di tutto, restare umana.