Il cuore di David Olney, cantautore del New England
diventato una piccola celebrità soprattutto tra colleghi della
heartland quali Emmylou Harris e Steve Earle, Kevin Welch
e Steve Young (tutti impegnati a rivisitarne il repertorio,
emerso in prima battuta all’inizio degli ’80, con una certa
assiduità), ha smesso di battere due anni or sono, quando
un infarto ne ha isolato le funzioni durante un concerto (il
nostro, che in anticipo sul fatale decesso ha trovato la forza
di scusarsi con gli spettatori, si trovava in Florida). Non
ha invece smesso di battere, per lui, il cuore di chi ne ha
seguito e apprezzato le gesta se non dagli esordi tra pop
e radici dei “costelliani” (nel senso dell’Elvis McManus)
X-Rays, perlomeno a partire dal rigoroso percorso solista,
intrapreso nel 1986 di Eye Of The Storm all’insegna
di una canzone d’autore dai risvolti filosofici, condita da
centinaia di riferimenti letterari, articolata tramite intense
ballate e ruvide asprezze country-folk, non a caso molto lodata
(in un processo di ammirazione reciproca più volte ribadito)
dal texano Townes Van Zandt.
Tra questi estimatori, è quasi impossibile non citare il nome
di Pieter Groenveld, fondatore dell’etichetta olandese Strictly
Country sotto la cui egida sono usciti, dal 1994, ben sei
album dal vivo accreditati al musicista, ciascuno di essi
registrato in diverse località dei Paesi Bassi. Evermore
e Nevermore, composti da incisioni live risalenti
al 2016 e al 2018, rappresentano quindi il settimo e l’ottavo
capitolo della serie, e grazie ai loro brani essenziali e
incisivi (a esibirsi col titolare c’è soltanto il basso del
fidato Daniel Seymour), allergici a ogni forma di estetismo
e proprio per questo capaci di aprirsi a un’inaspettata, toccante
universalità di emozioni e sentimenti, mitigano il dispiacere
di chi, come lo scrivente, si era rammaricato del fatto che
l’ultimo disco pubblicato in vita da Olney fosse stato Whispers
And Sighs, firmato a sei mani con la cantante di
origine europea Anana Kaye e suo marito Irakj Gabriel nel
2021, un lavoro certo non brutto sebbene un po’ appesantito
dal caliginoso e decadente calligrafismo della cupezza nel
quale l’artista, di tanto in tanto, amava indugiare.
È invece molto più ampia, paradossalmente (data la frugalità
dell’assetto strumentale) ma non troppo, la varietà degli
umori, dei colori e delle suggestioni attraversate dalle scalette
di Evermore e Nevermore, opere complementari
e parallele, entrambe costituite da 15 tracce e tutte e due
testimonianza di un modo di interpretare la realtà e la scrittura
dei brani da qualche parte tra il blues, la scuola degli autori
texani e rimandi nostalgici alla cultura popolare del dopoguerra.
Il primo emerge tramite il linguaggio secco, accigliato e
a tratti cavernoso delle varie Train Wreck, Crack
In The Wall, Border Town o Caterpillar,
canzoni misteriose e affascinanti, circondate dallo stesso
fatalismo e dalla stessa intensità di cui disponevano, più
di un secolo fa, le antiche ballate su omicidi, calamità,
disastri ferroviari e leggende della montagna. La seconda,
invece, risplende nei sentiti omaggi al mai dimenticato Townes
Van Zandt, del quale vengono interpretate Rex’s Blues e
For The Sake Of The Song, e nella laconica bravura
con cui Olney s’impossessa di strofe provenienti dal catalogo
di gemelli in spirito quali John Prine (Speed Of The Sound
Of Loneliness), Johnny Cash (I Still Miss Someone)
o addirittura Buddy Holly (Everyday). I terzi, infine,
aleggiano sulle divertite parafrasi di titoli del tutto inattesi,
dagli Zombies di She’s Not There ai Bee Gees di New
York Mining Disaster 1941 (da cui i New Trolls ricavarono
la loro Una Miniera), qui commemorati con abbondanza
di malinconie e sfumature tradizionaliste.
Difficile, a questo punto, consigliare un titolo a scapito
dell’altro: Evermore e Nevermore,
destinati a non suscitare il benché minimo interesse in chi
ignori le precedenti attività del loro artefice, sono due
traguardi ugualmente attendibili, e ugualmente riusciti, nella
carriera (in questo caso postuma) di un uomo che del suo essere
fuori tempo, fuori moda e fuori tutto ha sempre fatto bandiera.
Conquistandoci integralmente allora e riuscendo a farlo, di
nuovo, ancora oggi.