Una famiglia che è tra le irrinunciabili protagoniste
della variegata e complessa area di New Orleans, alimentata
dal meticciato socio-culturale della “Crescent City” stessa
(altrimenti detta Big Easy) e di tutta la Louisiana.
Immersi nella miscela dell’arte popolare di una città cosmopolita,
i Neville Brothers ne rappresentano una delle testimonianze
più complete e articolate nel corso dei decenni, dapprima
individualmente, poi anche insieme, con figli e nipoti vari.
A riassumere la loro storia ci aiuta The Brothers Art,
Aaron, Charles and Cyril Neville… and David Ritz (Little,
Brown & Co., 2000), imperdibile “collage” di interventi alternati
dei quattro fratelli. 368 pagine, con passaggi curiosi e illuminanti,
evidenziano anche il clima razziale di una città che ha dato
tantissimo alla musica, nera in particolare, ma che non ha
risparmiato violenza e razzismo. A partire dai ricordi d’infanzia
- legami famigliari, frequenti cambi di residenza, humus sociale
teso, quando non drammatico, difficoltà legate alla negritudine,
la droga, la prigione, le diverse influenze ed esperienze
musicali -, il libro ricostruisce il percorso che porta alla
formazione del quartetto e alla sua evoluzione nel tempo.
Ne approfittiamo, qua e là, senza addentrarci nei percorsi
individuali successivi (n.b. Aaron, Cyril e il loro nipote
Ivan, hanno una carriera solistica in parallelo, di buon valore
medio), sottolineando alcuni passaggi irrinunciabili. All’inizio
dei ’50 sono Arthur Lanon (1937-2019) e Aaron
(1941) a farsi strada. Il primo, tastierista - James Booker,
Professor Longhair e Fats Domino i pianisti di riferimento
- è anche dotato di una bella voce. Forma gli Hawketts, che
nel ’55 lasciano il segno con Mardi Gras Mambo, per
breve tempo guidati anche da Aaron. Quest’ultimo, dotato di
un falsetto naturale con particolare “vibrato”, è influenzato
dai tenori-leader dell’era doo wop: Clyde McPhatter (Drifters)
e Pookie Hudson (Spaniels); ma anche da Sam Cooke e Johnny
Adams. L’incontro con Allen Toussaint, pianista, cantante,
autore e produttore, porta ad alcuni singoli, tra cui la raffinata
ballad Tell It Like It Is (’66), piccolo classico.
Charles (1939-2018), catturato dal jazz, si dedica
al sax con influenze parkeriane e dintorni (compreso l’uso
di eroina e altro, similmente ad Aaron…), ma guarda anche
al r&b. E’ il più “fuorilegge” dei quattro - sconterà tre
anni alla famigerata prigione di Algiers (Louisiana) -, con
fughe e ritorni alla città d’origine. Cyril Garrett
(1950), batterista, percussionista e cantante di rilievo,
è il più impegnato sui temi socio-razziali, con percorso molto
articolato; con Aaron formerà i Soul Machine che, nella seconda
metà dei ’60, tentano invano di emergere.
Arthur crea il combo Art Neville & The Neville Sounds, con
Leo Nocentelli, chitarra, George Porter Jr., basso, e Joseph
“Zigaboo” Modeliste, batteria. Eccoli, i Meters. Prodotti
da Toussaint, sono una macchina ritmica, r&b e funk come poche,
su strade parallele dei memphisiani Booker T. & the MG’s e
dei detroitiani Funk Brothers. Primi successi nel ’69 con
Sophisticated Cissy e Cissy Strut; numerosi
gli altri brani di eccellente spessore compositivo-esecutivo,
tra questi Joog, Look-Ka Py Py, Pungee,
Tippi-Toes e Funkify Your Life; vantano anche
qualche album di rilievo. Ed eccoci. Nella seconda metà dei
’70, i quattro fratelli si riuniscono per formare i Neville
Brothers, che vanno ad alimentare il grande fiume della
musica nera, con i caratteri vitali del “crogiolo New Orleans”.
Un percorso fatto di alti e bassi, anche di forte divario
qualitativo, con album imperdibili e altri di “svendita” a
favore di una commercialità-attualità di ingredienti e miscele
di generi.
Prologo discografico scintillante con The
Wild Tchoupitoulas (’76), intitolato all’ensemble dello
zio George “Big Chief Jolly” Landry (fratello di Amelia, madre
dei quattro). Co-prodotto da Toussaint, che oltre a loro si
avvale anche degli ex-Meters, è frutto dei legami con la comunità
afro-indian: fantasiosa esibizione di costumi, canti e ritmi
del variegato humus neorleansiano, esibiti durante il Mardi
Gras. Perle quali Brother John e Hey Pocky A-Way
(ricavato da un antico “Indian chant”) torneranno nei live.
Due anni dopo The Neville Brothers, prodotto da Jack
Nietzsche, non è pienamente all’altezza delle aspettative:
manca di freschezza creativa ed esecutiva. Fiyo On the
Bayou (’81) è di altro spessore, grazie anche a Leo
Nocentelli, Dr. John, Ivan Neville (’59, tastierista, figlio
di Aaron). Si va da Hey Pocky Way, al medley Brother
John/Iko Iko, a Fire On the Bayou, al doo wop The
Ten Commandments of Love (hit dei Moonglows); Mona
Lisa è dedicata a Bette Midler, che li aveva aiutati ad
ottenere il nuovo contratto discografico. I livelli più bassi
li toccano con Uptown (’87) e Family Groove
(‘92) - nell’edizione speciale, denominata “Cookbook”, aggiunge
un libretto col ricettario gastronomico di ognuno (“Art’s
Seafood and Okra Gumbo”, “Aaron’s Red Beans”, “Cyril’s E’Touffee”,
“Charles’ Eggplant and Potato Casserole”: slurp?) -, accumulo
di forzature up-to-date. Anche Valente Street (’99)
è abbastanza deludente.
Di grande peso specifico sono invece Yellow Moon
(’89) e Brother’s Keeper (’90), entusiasmanti
e degni del loro potenziale artistico: forza espressiva, eterogeneità
e riferimenti sociali. Nel primo, prodotto da Daniel Lanois,
oltre al brano omonimo, splendido, “luminoso” e di particolare
maestria esecutiva, si elevano l’orgoglioso inno My Blood,
la dedica Sister Rosa (Rosa Parks) e Wake Up.
Preziose le cover di A Change Is Gonna Come, With
God on Our Side, The Ballad of Hollis Brown, Will
the Circle Be Unbroken. Belle cover anche nel secondo,
prodotto dai Neville e Malcolm Burn: Fallin’ Rain (Link
Wray), Mystery Train (Junior Parker ed Elvis Presley)
e, pur con un finale “chiassoso”, Bird On a Wire (Cohen).
“Solchi” pregiati sono Brother Blood, Steer Me Right,
l’evocativa River of Life, e soprattutto Sons and
Daughters, capolavoro(!) che traccia la “black history”,
dalla schiavitù ai tempi recenti: possente sviluppo narrativo,
sostenuto dal drumming, la cui seconda parte è un imperdibile
puzzle percussivo-corale, grazie anche alle voci di Buffy
Sainte Marie e Marva Wright. Sempre nell’89, le radici caraibiche
artistico-famigliari li portano a collaborare alla colonna
sonora di Konbit - Burning Rhythms of Haiti, documentario
di Jonathan Demme, con la versione creola di My Blood e
la stessa Konbit.
Dal vivo - a volte si ritrovano anche sullo stesso palco con
Grateful Dead, Rolling Stones e altri del rock e non -, i
Neville sono irrinunciabili, anche perché propongono la vasta
gamma delle influenze r&b, r&r, doo wop, funk, jazz, caraibico,
rock. I due Neville-Ization usciti separatamente nell’84
e nell’87 (registrati a New Orleans e ripubblicati nel ‘98
in doppio cd: Live At Tipitina’s, 1982), e Live
On Planet Earth (dal tour mondiale, Italia compresa) del
’94, ne sono la testimonianza. Ma è il doppio Authorized/Warfield
Theatre, San Francisco, CA, registrato nell’89 (pubblicato
nel 2010), che riprende “tutto” il loro arco artistico, a
rappresentare il meglio del curriculum live, con classici
di ogni genere, similmente alle varie session discografiche
quando, oltre a quelli citati, passano Ain’t No Sunshine,
By the Rivers of Babylon (un attacco vocale-ritmico irresistibile),
Ball of Confusion, Love the One You’re With,
You Can’t Always Get What You Want, My Girl,
Fever. A tutto volume, con qualcosa di forte da sorseggiare.
Neville
Brothers, live @ Municipal Auditorium New Orleans, 31/10/1991
A puzzle called New Orleans
[a cura di Roberto Giuli]
Circola in tutti i canali a disposizione, e
gli addetti ne facciano tesoro, un video in cui il pianista
britannico Jon Cleary (che a dire il vero poco c’entra con
la nostra storia, se non indirettamente per aver citato Art
Neville come sua influenza) illustra i tratti stilistici che
caratterizzano il pianismo di New Orleans, scavando nel profondo
e risalendo a tutte le possibili radici, via via fino ai ritmi
remoti della madre Africa. Una lezione vera e propria, durante
la quale il tastierista snocciola tutto lo snocciolabile,
spiegando ovviamente il blues in ogni sua sfumatura, il boogie,
gli elementi del primo jazz, le bande itineranti e la proverbiale
“second line”, i ritmi caraibici, quelli africani, l’habanera,
Jelly Roll Morton, praticamente inteso come genere, e quant’altro.
I concetti espressi da Cleary, sia dal punto di vista tecnico
che emozionale, valgono ovviamente anche per la musica in
generale, non solo per il suo strumento.
In misura maggiore rispetto ad altre metropoli statunitensi,
la musica della "Crescent City" è non tanto una
miscela in cui le varie fasi (stilistiche) si disperdono per
poi risultare non più rintracciabili in quanto tali; piuttosto
un puzzle, un disegno ricco e composito, nel quale i contorni
delle singole tessere rimangono sempre distinguibili. Un universo
a sé, all’interno del quale, di là degli elementi più immediatamente
riconoscibili e dei quartieri più battuti, esiste una “terra
di nessuno”, da molti indicata in senso musicale come “rhythm’n’blues”,
dove è consentito sbizzarrirsi partendo da un qualsiasi punto,
stilistico e cronologico, e dove si possono menzionare Cosimo
Matassa (e i suoi J&M Recording Studios), e gli anni Cinquanta,
“quando tutto è iniziato”, per usare ancora Cleary, ma soprattutto
Fats Domino, Lloyd Price, James Booker, Huey Smith, Professor
Longhair. E via via, fino a Dr. John e tutta una serie di
artisti che hanno saputo fornire un’inevitabile e irresistibile
forza ritmica all’originario lamento delle “blue notes”, facendo
di quel “second line rhythm” e delle sincopi un marchio di
fabbrica.
Tra i protagonisti, e arriviamo al punto, ci sono senz’altro
i Neville Brothers e tutte le loro “proiezioni”, figli
legittimi della città di cui hanno distillato ogni singolo
umore. Volendo trovare, stilisticamente parlando, il classico
bandolo della matassa (è proprio il caso di dirlo…), senza
perdersi nelle pieghe di intricate note biografiche e di una
lunga discografia, in qualche caso non qualitativamente indispensabile,
potremmo indicare come “start” proprio quel magico periodo
a cavallo tra Cinquanta e Sessanta, durante il quale il fratello
maggiore Art pubblica delle tracce per alcune etichette (soprattutto
Specialty), tra cui Oooh-Whee Baby e Arabian Love
Call. Cose mai troppo ascoltate e apparentemente non abbastanza
significative ai fini della loro futura produzione, ma a tutti
gli effetti costituenti una base nel corredo genetico dello
stesso Art, di Charles, Aaron, Cyril (figli e nipoti compresi),
profondi conoscitori e musicisti formidabili, che in quella
“nobody’s land” sono andati a scuola e hanno preso appunti
e che, i dati oggettivi lo confermano, trovano sul palco la
loro dimensione ideale (vedi "Authorized Bootleg: Warfield
Theatre, San Francisco, CA, february 27, 1989").
Tell
It Like It Is (Live 7/6/1979)
Hey Pocky Way (Live at Farm Aid 1994)
Da quel “proto-rock’n’roll” partirà un filo
conduttore che si porterà fino al presente, fino al rock (è
nota l’amicizia e la collaborazione tra i Neville e molti
musicisti di quel genere). Possiamo spingerci ancora più indietro,
fino all’avventura, sempre di Art, in seno agli Hawketts e
a quel piccolo gioiello di Mardi Gras Mambo, dall’ossatura
ritmica seminale (nel gruppo militava il grande batterista
John Boudreaux, personaggio fondamentale che ogni tanto riaffiorerà).
Nel cassetto dei Neville ci sono tutte le tessere di quel
puzzle. C’è l’esperienza primigenia dei Wild Tchoupitoulas
(un nome che suona da solo), da un lato gruppo di “indian
revellers” legati al mardi gras, dall’altro un combo di ottimi
musicisti fautori di un album omonimo del ‘76 in cui, nello
spazio di poche tracce, sembrano raccontare l’intero omnibook
della musica della “Big Easy”, dai poliritmi a quegli inconfondibili
clusters e “patterns discendenti” di tastiera (da Brother
John a Indian Red, quest’ultima un piccolo campionario
di “12/8 groove”: la base di quello che conosciamo come “terzinato”).
C’è poi quell’inconfondibile “diddley beat” sincopato, presente
in ogni dove, nell’epica Hey Pocky Way, da Fiyo
On The Bayou (già dei Meters), come nelle versioni dei
classici Big Chief e Iko Iko, o Steer Me
Right (in Brother’s Keeper) e My Blood (in Yellow
Moon). Dischi eccellenti, per stile e contenuti. C’è il jazz
(soprattutto Charles ne è appassionato); ci sono elementi
di matrice europea, meno evidenti ma parte del tessuto connettivo
(accenni all’opera qua e là); c’è l’immancabile passione per
i gruppi vocali; in città ce n’erano di meravigliosi: Hawks,
Sha Weez, Spiders. A tal proposito, è bello ricordare le innumerevoli
versioni live di Tell It Like It Is (successo per Aaron
nel ‘66), puntualmente condita di citazioni a Frankie Lymon
e agli Imperials, e sempre conclusa con il bel refrain di
Goodnite Sweetheart degli Spaniels. Lo stesso Aaron
ha pubblicato nel 2013 My True Story, personale omaggio
ai più grandi gruppi: Drifters, Midnighters, Jive Five, tra
gli altri.
Volendo insistere su Tell It Like It Is, questo è un
numero soul memorabile, con la voce rotta dall’emozione, le
note scandite della chitarra e un impianto fiatistico minimale
denso di intervalli di quinta, in grado di sottolineare i
momenti salienti di un tema che denota un’innata propensione
alla melodia, laddove molta della produzione dei fratelli
conferma la possanza della componente ritmica. Infine, ma
soprattutto, c’è quella solida matrice funky la quale, oltre
a investire tutta la loro opera, trova massima espressione
nel repertorio proprio dei menzionati Meters, antesignani
e al tempo stesso “spin-off” dei Neville, fautori di un irresistibile
quanto estremo “esercizio funk”, basato su un ossuto beat
di batteria e un incredibile unisono tra basso e chitarra;
benzina sul fuoco.
In definitiva, un grande compendio musicale, un intero vocabolario
stilistico che trae la sua linfa dalle pieghe più intime di
quell’incredibile caleidoscopio sonoro: il puzzle New Orleans.