Hank
Williams (Mount Olive, Alabama 17 settembre 1923
- Oak Hill, West Virginia 1 gennaio 1953)
Hank
Williams Alone
& Forsaken: cent'anni di un'icona americana
- di Marco Denti -
All’inizio è una voce alla radio, e tra gli ascoltatori
c’è Johnny Cash che illustrava così il pianeta
dell’etere: “I canali che ascoltavamo di più erano
la WLW di New Orleans, la WCKY di Cincinnati,
la XEG di Forth Worth e la XERL di Del Rio, Texas.
Il Suppertime Frolics Show trasmesso ogni sera
alle sei radio WJJD di Chicago, il Grande Ole
Opry di Nashville ogni sabato sera sulla WSM,
il Renfro Valley Barn Dance e il Wheeling Jamboree
trasmessi dalla WWVA di Wheeling, West Virginia,
erano i nostri programmi preferiti. Ascoltavamo
Roy Acuff, Ernest Tubb, Eddy Arnold, Hank Williams,
ogni genere di musica popolare, da Bing Crosby
alle Andrew Sisters, e il gospel e il blues di
musicisti come la Chuck Wagon Gang, Pink Anderson
e Sister Rosetta Tharpe”. Prima che diventasse
territorio di conquista di stolidi algoritmi,
la radio era un ancora posto dove il mistero era
possibile, e c’erano aree non ancora infestate
da predicatori e dalla propaganda politica e dall’onnipresente
pubblicità. Le voci erano credibili e quella di
Hank Williams aveva una tale familiarità,
come scriveva William Gay, che pareva essere quella
del vicino che veniva a chiacchierare sotto la
veranda. Questa è stata la sua forza, filtrata
attraverso le frequenze radiofoniche, un’associazione
indissolubile
In
Un
piede in paradiso, Ron Rash racconta così
l’apparizione via etere: “La voce di Hank Williams
si è levata dalle interferenze, con una canzone
sulla solitudine. Era un uomo giovane, ancora
ventenne ma già ricco e famoso. Mi sono domandato
se ciò che cantava non fossero soltanto parole
per lui. La sua voce indicava il contrario. Quella
voce vecchia e stanca sapeva cosa vuol dire essere
soli come un cane. Avevo sentito che Williams
ci dava sotto col bere. C’era qualcosa di profondo
in lui che denaro e fama non potevano curare.
E doveva essere comune a tanti di noi, visto quanto
erano popolari i suoi dischi. Solitudine era una
definizione plausibile, ma in effetti si trattava
di qualcosa che andava al di là delle parole.
Era una sorta di bramosia, la sensazione che una
parte del cuore fosse vuota”.
In
Tower of Song, Leonard Cohen chiedeva a
Hank Williams, “un centinaio di piani sopra”,
com’era sentirsi soli e lì comprendeva la solitudine
espressa come una forza, un’energia, un’improbabile
possibilità. Come ha detto Bob Dylan: “Quelle
di Hank Williams non sono mica canzoni d’amore”.
Questo si era capito: la sua era una voce dissonante
che si distingueva in un momento monolitico della
storia americana, quando gli sforzi bellici pervasero
tutta la vita quotidiana. Uno non accondiscendente,
non a posto: è rimasto un outsider. Una scheggia
impazzita che seguiva altri mondi, l’individuo
più che la maggioranza silenziosa, che si è distinto
all’inizio dell’industria discografica moderna,
così come l’abbiamo conosciuta: cento anni di
country & western, la musica delle lacrime nella
birra e dei cuori spezzati che Hank Williams ha
trasformato in una specie di richiamo per tutta
la tribù dei disperati. La voce del dolore collocata
dentro canzoni scritte con una formula segreta,
impenetrabili, se si prova ad approfondirle, fin
troppo dirette se le si sfiora in superficie e
l’avrebbero compreso i 16 Horsepower quando rilessero
Alone
& Forsaken in Folklore. Il dolore è
vero, innato, non è metaforico o filosofico. Si
sente.
Hank
Williams & Drifting Cowboys dal vivo alla
Grand Ole Opry, WSM radio
Steve
Earle, uno dei pochi in grado di comprendere fino
in fondo lo spirito di Hank Williams, come
se avesse allargato la ferita, scriveva in Non
uscirò vivo da questo mondo: “Essere soli
è una condizione temporanea, una nube che offusca
il sole per qualche tempo e poi, dopo essersi
spostata, fa sembrare i raggi ancora più luminosi.
Come quando sei lontano da casa e senti la mancanza
delle persone che ami e hai la sensazione che
non le rivedrai mai più. E invece le rivedrai,
e quando accade non ti senti più solo. Essere
solitari è un’altra cosa. È incurabile. Terminale.
Un buco nel cuore talmente grande che potrebbe
passarci dentro un camion a rimorchio. Così grande
e profondo che nessun quantitativo di denaro,
whisky, fica o droga potrebbe colmarlo, perché
l’hai scavato tu stesso e lo stai ancora scavando
a forza di inanellare menzogne, delusioni e promesse
non mantenute”.
Immaginare
un volto, una volta sentita quella voce straziante,
era il primo passo. Il processo di identificazione
cominciava da lì. Da canzoni che sgorgavano con
un magnetismo particolare, anche con un sound
dimesso e spesso ridotto al minimo essenziale,
ma che pareva conoscessero i sentimenti di tutti.
In un mondo fatto ancora di suoni e di parole,
e non di immagini, quell’anima tormentata, costretta
in un corpo che manda segnali atroci, che arriva
sulle onde della notte, ha bisogno di una faccia.
Hank
Williams ha gli occhi piccoli e appuntiti,
che si sforzano per vedere. Ha sempre quello sguardo
fanciullesco, da bambino irrequieto e un po’ furfante
che ti scruta a fondo, per sondare ogni possibilità.
È solo la mancanza degli occhiali, che ha perso
nella polvere, ma quello sguardo non fissa nel
vuoto. È in cerca della strada di casa e ha visto
la luce. Gli occhi sono dentro un profilo tagliente,
così come sono le sue canzoni, ma pur essendo
musica popolare, diventata tale tramite il mezzo
radiofonico, quella di Hank Williams non è accomodante
o consolatoria, non è semplice intrattenimento,
anche se la funzione era quella all’epoca. Erano
elementi di disturbo della quiete pubblica e c’era
qualcosa in quel lamento che non lasciava indifferenti:
non temeva di raccontare il dolore, di viverlo,
di penetrarlo e di esorcizzarlo.
James Welch, lasciando ascoltare I’m So Lonesome
I Could Cry ai personaggi che condividono
L’ultimo
giorno di Jim Loney scrive anche: “Era a casa.
E non era a casa. Ma almeno, pensò, sono qualcosa
ovunque io sia. Nei miei momenti migliori”. È
uno spunto che si adatta alla perfezione alla
figura di Hank Williams che cantava Ready To
Go Home ed era solo un altro tizio su un’autostrada
perduta come cantava in Lost Highway così
come l’avrebbero riproposta Jason
& The Scorchers. Hank Williams e la strada,
la strada è la strada, senza magie, nessuna cartolina
da spedire a casa, soltanto le canzoni scritte
sulla carta intestata degli hotel. Il sistema
di autostrade non esisteva, era solo vie a doppia
corsia che diventavano le main street delle città
che attraversavano. Sentirsi incastrati, anche
nelle vastità americane, non era insolito. Una
macchina, il motore che non si fermava mai, l’orizzonte
che sfuggiva agli occhi consumati nel fissare
l’asfalto, come se stesse fuggendo una disperazione,
una sofferenza che venne centellinata nella sua
interpretazione My Bucket’s Got a Hole in It.
Una canzone che sarebbe diventata
fondamentale per arrivare a The River (“Una
notte, nella mia stanza d’albergo di New York,
cominciai a cantare una canzone di Hank Williams
My Bucket’s Got a Hole in It. Più tardi,
quella stessa notte, tornai in macchina nel New
Jersey e mi sedetti in camera mia a scrivere The
River. Utilizzai una voce folk, quella di un tipo
in un bar che racconta la sua storia a uno straniero
seduto sullo sgabello a fianco” - Bruce Springsteen)
e, ancora di più, per Nebraska, entrambi
pervasi dalla visione di Hank Williams. È quella
che Springsteen notava come “la sua stupenda semplicità
e la sua oscurità” e che lo inseguiva fin dai
tempi di Darkness (“In quel periodo cominciai
ad ascoltare seriamente musica country. Scoprii
Hank Williams. Mi piaceva il fatto che il country
affrontasse tematiche adulte e volevo scrivere
canzoni che si sarebbero sentite per strada”):
qualcosa che ti rode dentro, inesorabile.
È la riscoperta di una specie
di purezza, nel suo distanziarsi dalle forme del
bel canto, che ha alimentato la leggenda, rendendolo
un fantasma particolarmente adorato per il suo
distacco e per quella strana forma di redenzione,
coltivata attraverso le canzoni: il suo Honky
Tonkin’ racconta di cuori spezzati, di divorzi
e di separazioni, di treni che attraversano i
binari che collegano l’America e di gente che
è troppo lontana da casa, ma in sostanza canta
in continuazione di una solitudine atavica. La
trasforma in un’atmosfera dove gli strumenti (la
pedal steel e il violino, principalmente) fungono
da coadiuvanti e gli yodel i blues o i talking
di Luke The Drifter non fanno altro che
assurgere Hank Wiliams proprio in mezzo alla sacrosanta
e profana trinità degli spettri del rock’n’roll,
insieme a Robert Johnson (prima) e Elvis (poi).
La scoperta è di Peter Guralnick che in un libro
che si chiamava, guarda un po’, Lost Highway
diceva: “Forse, straordinaria quanto la sua sua
influenza musicale, l’immagine di Hank Williams
ha dominato la mitologia della country music contemporanea.
Ispirato, disperato, ossessionato come lo spiritato
cantante blues, Robert Johnson, Williams è arrivato
a simboleggiare sia il fascino che l’incubo del
mondo honky tonk”.
È verissimo, ma colpevole è stata
quella voce che sembra sia sempre esistita e se
la radio ha avuto la sua funzione nel collegare
riscatto e perdizione, I Saw The Light
e When The Saints Go Marching, Jambalaya
e You Win Again, cuori gelidi e polvere
sulla Bibbia, l’influenza di Hank Williams su
tutta la musica popolare moderna sarebbe arrivata
persino a The The con il micidiale e bellissimo
omaggio di Hanky Panky, ed era già passato
un secolo, breve e disperato. Con una rivendicazione
conclusiva importante, come diceva Waylon Jennings:
“Hank è stato il primo fuorilegge. Ed è stato
l’unico”.
Si ritrovò a suonare per l’Hadacol,
una bevanda un po’ eccitante (alcolico) e un po’
lassativa, un paradosso molto americano, nell’insieme
una schifezza, e a essere buttato fuori dai templi
di Nashville, consumò whiskey e morfina, benzina
e strada, senza fine. Come diceva William Carlos
Williams (nessuna parentela) i puri frutti americani
tendono a impazzire fino all’ultima fatale corsa
con la Long
White Cadillac, come hanno tramandato alla
storia i Blasters. Cosa ci facesse la notte di
Capodanno “in the middle of nowhere”, solo sul
sedile posteriore, con un bottiglia e i fogli
di una canzone è difficile da capire soltanto
per chi non conosce la prima legge non scritta
dello show business: non dare mai buca.
Non
uscirò vivo da questo mondo L'ultima
notte di Hank Williams
- di Fabio Cerbone -
"Tutti vorrebbero essere Hank Williams, ma nessuno
è disposto a morire"
(Kinky Friedman)
Ancora un giro per Hank in quella
notte di capodanno, un ultimo walzer per riprendere
il comando della sua vita. Non si ricordava nemmeno
quando ne avesse perso definitivamente il controllo,
in fondo era sempre stato così fin dall’inizio.
Come faceva quel suo vecchio successo di due anni
prima? Ecco: “Un lungo perduto blues della solitudine”.
Hank è disteso su un fianco, sul sedile posteriore
di una Cadillac bianca, corre sulla strada perduta
di cui andava cantando da tempo. La notte precedente
era stato tormentato da un incubo e si era svegliato
di soprassalto, arrancando a fatica nel letto.
La sua ultima fiamma, Billie Jean, donna fatale
che aveva sposato sotto gli occhi invidiosi degli
amici, gli aveva chiesto che diavolo stesse succedendo.
La risposta aveva il sapore di un epitaffio: "Billie,
penso che vedrò Dio lungo la strada"
Il volto di Hank ora è smunto,
pare un cadavere, una coperta gli copre le spalle.
Fa un freddo cane quel 31 dicembre del 1952. Era
stato di sicuro Charles a rivestirlo: Charles
Carr, quel ragazzino appena diciottenne che si
era reso disponibile ad accompagnarlo attraverso
un’autentica tempesta di neve, badando ad arrivare
in orario. Hank aveva un conto aperto con il mondo
intero, come ogni fuggitivo che si rispetti, e
adesso era arrivato il momento di affrontrare
gli avversari a viso aperto. Due show programmati
da tempo avrebbero finalmente messo a tacere tutte
le dicerie sul suo conto, un messaggio inequivocabile
per quelli che lo vedevano all’ultima corsa, dopo
che l’undici agosto del 1952, con quella telefonata
che era giunta direttamente dal boss Jim Denny,
la Grand Ole Opry, il più grande carrozzone
radiofonico della country music, lo aveva estromesso
dai giochi. Proprio lui, un povero ragazzo del
Sud, divenuto l’eroe che in soli cinque anni di
carriera aveva rivoluzionato le sorti della musica
di Nashville e sulla cui pelle avevano campato
in tanti, all’improvviso passava per uno scomodo
fuorilegge a cui dare la caccia.
Erano trascorse poche settimane
dalla telefonata al vecchio compagno Don Helms,
uno dei musicisti più fidati dei Drifting Cowboys,
la storica band che lo aveva accompagnato nelle
registrazioni più famose della sua carriera. Don
gli aveva dato la sua parola: anche lui sarebbe
stato della partita in questo breve tour di fine
anno, il viatico per tornare in cima. Charleston,
West Virginia, era la prima data da rispettare.
Saltata, un’occasione andata in fumo: condizioni
meteorologiche proibitive, voli cancellati nel
raggio di miglia, neve e piste di atterraggio
impraticabili, la consapevolezza di essere impantanati
a Birmingham, Alabama. Se anche il tempo si metteva
di traverso tanto meglio, una possibilità in meno
di rivalersi sulla proverbiale mancanza di professionalità
di Hank: colpe questa volta non ne aveva.
Anche A.V. Bamford, il tour manager che con infinita
pazienza si stava giocando la reputazione, riportando
in carreggiata la figura di Hank, si era messo
l’animo in pace quella sera, pensando subito all’esibizione
del giorno seguente. Un capitolo chiuso a metà
tuttavia, visto che l’alternativa di infilarsi
in macchina e sfrecciare attraverso tutto il sud
degli Stati Uniti per arrivare al secondo show
di capodanno, quello previsto a Canton, in Ohio,
non era certo una prospettiva allettante. Bisognava
correre in quel giorno di fine dicembre: Fort
Payne, Chattanooga, e dritti nel Tennesse, attraverso
la tempesta di neve. Erano stati capaci di raggiungere
soltanto Knoxville, di aerei pronti a imbarcarli
neanche a parlarne.
Era un problema del quale si sarebbe
occupato Charles, perché Hank faceva fatica persino
a respirare. Incessanti colpi di tosse, il corpo
un unico tremore, convulsioni che non lo facevano
dormire. Il dolore aveva superato la soglia quella
notte, rintanato in una stanza dell’Andrew
Johnston Hotel. Spina bifida la chiamavano,
una grave malformazione al midollo spinale e conseguenze
alla funzionalità dei reni che lo tormentavano
sin da bambino, con terribili mal di schiena acuiti
da una vecchia caduta da cavallo. Sarebbe bastato
chiamare Toby Marshall, pensava Hank. “Il dottore”
avrebbe sicuramente aggiustato ogni cosa. Lo aveva
conosciuto troppo tardi, assunto a tempo pieno
dal precedente mese di ottobre come personale
consigliere medico. I suoi rimedi da stregone
non andavano a genio agli amici di Hank, tutti
a dirgli che di quel tale era meglio non fidarsi,
ma quello strano intruglio che gli preparava personalmente,
idrato di cloro, era sembrato un toccasana. Chi
l’avrebbe mai detto che si trattava di un autentico
ciarlatano, uno che probabilmente aveva comprato
il diploma da un venditore ambulante e si faceva
gioco delle simpatie di Hank prescrivendo cure
miracolose, in realtà letali per il suo cuore.
Marshall però lo capiva, ed era questo di cui
Hank aveva bisogno: dal demone dell’alcol ci era
passato anche “il dottore”, ecco perchè comunicavano
fra di loro con una sorta di empatia che difficilmente
si manifestava in altre persone dell’ambiente.
A
destra: Hank Williams con la prima moglie
Audrey Sheppard
Ventinove anni per Hank e diciotto
o quasi da alcolizzato. Roba da non crederci,
neppure lui riusciva a spiegarsi quando e perché
avesse cominciato. Ricordava solo che aveva undici
anni e per le vie di Montgomery, lustrando scarpe
e vendendo noccioline, aveva preso quel vizio
come tanti altri suoi coetanei. Si era convinto
ormai che tutto facesse parte della vita sulla
strada, la stessa che riempiva le sue canzoni.
Aveva cominciato a rifletterci seriamente: era
il dolore che andava affogato, il blues come lo
chiamavano i suoi amici neri dell’Alabama, l’esistenza
stessa che andava scacciata con un'altra bottiglia.
In ogni caso quella sera a Knoxville il dottor
Marshall non può accorrere in suo aiuto, inutile
rimuginarci sopra. Due dosi di morfina e una di
vitamina b-12 le riceve da un medico locale, chiamato
in gran fretta dopo l’orario di cena dagli inservienti
dell’albergo. Hank è pronto a ripartire, ormai
abituato a quelle quantità industriali di antidolorifici.
Qualche impercettibile colpo di tosse, appena
affacciatosi fuori dalla stanza dell’Andrew
Johnston Hotel, giusto un piccolo sospiro
per ammettere la propria presenza al mondo. Due
facchini lo reggono in piedi accompagnandolo alla
Cadillac, poi il buio totale.
Da quale lato della strada mi trovo? Che importa,
sono così solo che potrei piangere. Ammettiamolo,
semplicemente non mi piace questo modo di vivere
e di sicuro non importa quanto combatto, né quanti
sforzi farò, perché non uscirò vivo da questo
mondo.
Sogna Hank Williams: forse di riprendere
i fili di una vita alla deriva; forse di restare
sobrio almeno per quella serata a Canton, dimostrando
a tutti quanto sia ancora il più grande; forse
di riconciliarsi un’altra volta con la moglie
Audrey, che nonostante il divorzio continua ad
amare alla follia; forse semplicemente di scrivere
una nuova canzone. Tra le bottiglie di birra e
whiskey, sul fondo dell’auto, fogli sparsi riportano
i versi incompleti di una semplice e struggente
confessione d’amore. Hank ci sta lavorando sopra,
le prime parole le ha scritte di getto, come spesso
gli accade, tutti lo invidiano per questa sua
capacità. Il titolo pare veramente giocare con
il destino: Then Came that Fatal Day.
Sfreccia intanto l’auto guidata da Charles Carr
lungo la statale. Alle 22.30 è già in viaggio
da Knoxville, destinazione Canton, oltre i limiti
di velocità consentiti. Un sorpasso azzardato,
un’auto della polizia sul ciglio opposto della
carreggiata. Buonasera agente. Mi scusi, correvo
troppo, ha ragione. Swan Kitts, pattuglia stradale,
sposta lo sguardo dal conducente e osserva quell’uomo
dal volto scavato sul sedile posteriore, un colorito
bluastro, un vestito sgualcito buttato addosso
come uno straccio. Gli sembra davvero senza vita.
Tutto sotto controllo agente, gli risponde Carr,
sta solo riposando. Kitts si limita al suo dovere:
fanno venticinque dollari, ma si trovi un altro
guidatore, di certo lei al volante non ci può
tornare. Carr rimedia un sostituto, giusto per
poche miglia, poi riprende il comando e parte
fiducioso da Bristol, Tennessee, attraversando
le colline di quella terra che tante volte era
riecheggiata nelle canzoni di Williams. Bluefield,
Bluestone River, Spanishburg, Princeton, forse
anche Mount Hope, da qualche parte perduti nel
mezzo dell’America.
La coperta scivola via, dietro
c’è soltanto silenzio. Charles accosta in una
stazione di servizio e capisce all’istante: il
corpo è ghiacciato, esanime. E’ l’alba del capodanno
del 1953. Hank è già morto, lo era da un bel pezzo,
prima ancora che arrivasse cadavere all’ospedale
di Oak Hill, West Virginia, gettato di peso sul
tavolo del pronto soccorso. Il coroner non crede
ai propri occhi: le condizioni del cuore, con
l’emorragia interna che ne ha provocato ufficialmente
la morte, quelle del fegato, devatasto dall’abuso
di alcol e droghe, e più in generale lo stato
di salute assai approsimativo dell’intero fisico
di quel “ragazzo” fanno pensare a un uomo più
vecchio di una quindicina d’anni. Ne aveva soltanto
ventinove.
Then Jesus came like a stranger in the night
Praise the Lord, I saw the light
(I Saw the Light, Hank Williams)
(liberamente tratto da "Fuorilegge d'America",
Selene Edizioni 2007)