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Dwight Yoakam
The Beginning And Then Some: The Albums Of The ‘80s

Sulla rete: dwightyoakam.com

File Under: West L.A. punkabilly country core

- a cura di Gianfranco Callieri -

Non è un reato, la monogamia critica, ma può diventare un atteggiamento piuttosto antipatico quando degeneri in senso del possesso o, peggio, nella cronica incapacità di contestualizzare artisti e movimenti solo perché estranei, almeno in apparenza, al perimetro dei propri pregiudizi, fisime e preconcetti. Nessuna "firma" europea di ambito musicale (con l’eccezione, forse, di quelle inglesi) può considerarsi al riparo, allorché si misuri con l’analisi di fenomeni non appartenenti al patrimonio culturale del continente di provenienza, da qualche accusa di provincialismo, ma per chi era giovane allora, sorprende ancora il settarismo (e il bigottismo) in cui incorse la critica italiana al momento di scoprire come, tra gli adorati gruppi della California dei primi ’80, molti di loro non fossero (solo) i sacrileghi, i "blasfemi" e gli irregolari oggetto di adulazione in diverse recensioni dell’epoca, bensì musicisti molto più legati alle cosiddette "tradizioni" di quanto non sembrasse in un primo momento.

E quindi, poiché tacciabili di legami sospetti col passato, con il country delle epoche precedenti e con il blues o il folk anch’essi percepiti quali antagonisti obbligati di un certo antiamericanismo di maniera, ripudiati con la stessa superficialità tramite cui li si era incensati fino a un attimo prima. Di questo repentino cambiamento di giudizio fecero le spese, tra gli altri, Green On Red, Gun Club, X e Dream Syndicate, mentre colleghi ancor più esplicitamente legati all’immaginario delle radici - Los Lobos, Blasters, Del Fuegos, Lone Justice, Concrete Blonde - vennero espunti su tutta la linea dall’orizzonte delle riviste più attente a proporsi in chiave "alternativa".

Un personaggio come Dwight Yoakam, nondimeno, venne sottovalutato anche dalle testate (non tutte, per fortuna) non certo ostili alle manifestazioni più tradizionaliste della musica a stelle e strisce, forse perché l’aspetto da cowboy metropolitano, gli stivali, il cappello, la voce nasale e gli arrangiamenti di stretta osservanza vintage rimandavano a un’idea di country regressiva e sorpassata, o comunque ritenuta incapace di suscitare le emozioni ormai richieste ad altri e più trasversali interpreti degli stessi antefatti. Così, se negli Stati Uniti era perfettamente normale (di più: logico) vedere Yoakam in apertura ai concerti dei rispettatissimi Hüsker Dü del Minnesota, in Italia il ragazzo del Kentucky veniva considerato nient’altro che il mero revivalista di un trascorso dai più già felicemente messo in soffitta.

The Beginning And Then Some: The Albums Of The ‘80s
[4CD, Via Records / Reprise / Rhino 2024]

Ora, The Beginning And The Some: The Albums Of The ‘80s - quadruplo cofanetto contenente i primi tre album del nostro, con l’aggiunta di un disco di rarità - può essere anche considerato una delle tante operazioni di sfruttamento del repertorio di artisti o canonizzati da tempo, o sulla strada della canonizzazione (quindi, come la stragrande maggioranza delle uscite legate al famigerato Record Store Day, un prodotto rivolto a proseliti dal riflesso pavloviano all’acquisto), ma gli va riconosciuto il merito di mettere in prospettiva, con chiarezza ancora maggiore rispetto a qualsiasi altra antologia o box sin qui dati alle stampe, l’indiscutibile appartenenza degli esordi di Yoakam al novero del migliore rock alternativo a quei tempi realizzato in territorio nordamericano.

Fratelli non solo in spirito, ma anche in origine e in tenore qualitativo, di tutti i dischi più belli del "nuovo rock" del periodo, gli album di Dwight Yoakam ebbero il merito di proporre una versione iperrealista e viscerale dei classici del country senza peraltro mai suonare come quelli, per di più in una stagione durante la quale il genere, nella sua declinazione mainstream, era ostaggio delle patinate sdolcinatezze di Kenny Rogers e Alabama, o si apprestava a esserlo dei primi vagiti di Reba McEntire. Se l’intuizione di farne esplodere i connotati pur restando fedeli al suo carattere, come facevano Blood On The Saddle, Tex & The Horseheads, Jason & The Scorchers o Great Plains, poteva apparire più o meno alla portata di chiunque, rivitalizzarne la grammatica senza violentarla, restituendole anzi verità interiore e riportando il suo vissuto (non la sua destrutturata rappresentazione) al centro della scena, come faceva invece Yoakam, furiosamente cercando di dimostrare quanto fosse vivo ciò che veniva dato per morto, era questione assai più complessa.

Guitars, Cadillacs, Etc., Etc. (1986), Hillbilly Deluxe (1987) e Buenas Noches From A Lonely Room (1988), usciti uno di seguito all’altro in sequenza mozzafiato, furono i primi esempi, a tutt’oggi insuperati se non dalle opere successive del loro artefice, di "modernariato country", di uno stile contemporaneo sebbene perfettamente in grado di evocare e surrogare il passato prossimo con l’intelligenza, lo slancio e la passione necessari a metabolizzare tutte le profonde trasformazioni subite dalla quotidianità degli ordinary people - gli unici di cui l’artista abbia mai scritto e cantato - nel dopoguerra. Ovviamente, questa scelta estetica, radicale e consapevole quanto le altre rivoluzioni sonore del decennio di riferimento, a suo modo estremista e di rottura nel recuperare il suono più umile della heartland, quella appunto appartenuta ai figli della Grande Depressione, con un tocco di spericolato sentimentalismo e una grinta selvatica, primordiale e mai addomesticata, non arrivò dal nulla. Nacque altresì, e non poteva essere altrimenti, in un contesto proletario, in mezzo alle migliaia e migliaia di chilometri dell’America profonda dove immaginare un’altra vita significa affrontare la superficie interminabile della strada e comporre, come in tutta la musica alternativa che abbiamo abbracciato, una continua esperienza di sconfinamento tra passato e presente.

Dwight Yoakam - Guitars, Cadillacs (1986) Dwight Yoakam - Honky Tonk Man (1986)

Il maggiore di tre figli, Yoakam - classe 1956 - si era spostato dal Kentucky delle origini allo stato dell’Ohio in concomitanza con il congedo dall’esercito del padre soldato, e lì, discente delle superiori innamorato di Elvis Presley e Johnny Cash ma deciso a recare il proprio contributo al mantenimento familiare, si era prima sobbarcato qualche turno in una fabbrica di elettrodomestici, poi aveva finito per coprire tutti quelli vacanti nella locale stazione di servizio Texaco. L’apprezzamento non solo cittadino per la rock and roll band messa in piedi ai tempi del liceo e denominata Greasers gli fece maturare l’idea di tentare la fortuna a Nashville, dove qualcuno, in effetti, gli propose contratti da autore ma non da interprete, perché nella seconda metà dei ’70, ai tempi in cui le sonorità del posto già iniziavano a scivolare verso orchestrazioni elefantiache e stucchevoli cori multipli, il suo country secco, essenziale e operaio veniva considerato una scheggia rétro dallo scarso richiamo commerciale.

Tuttavia, Yoakam non si diede per vinto e si diresse verso Los Angeles, California, fermandosi in quella zona meridionale di Long Beach dove trovò lavoro presso la piattaforma di carico di un centro commerciale, in seguito mettendosi anche, per arrotondare, dietro la piastra di cottura di Hamburger Henry’s, storica paninoteca della Belmont Shore. Spedire qualche soldo a casa e non solo campare ma ritagliarsi tempo e risorse per registrare qualche primigenia versione delle proprie canzoni, però, richiedeva impieghi più stabili. Quindi Yoakam iniziò a fare il camionista e affittò un piccolo garage non lontano dall’anfiteatro dell’Hollywood Bowl in cui esercitarsi e dormire. Qualcosa cambiò dopo l’incontro con Pete Anderson, splendido chitarrista proveniente da Detroit, anch’egli sintonizzato sulle frequenze dell’honky-tonk e del primo r&r anziché su quelle del country patinato. Questi fu l’unico, una volta sentite le demo di Yoakam, a non consigliargli di addolcirle, o di renderle più zuccherose: la sua indicazione, al contrario, fu quella di affilare e stilizzare ulteriormente, di allontanarsi in modo ancor più netto dall’esempio degli album - tutti quelli degli Eagles e la colonna sonora di Urban Cowboy (1980) - allora imperversanti ovunque per escoriare il suono con ghiaia, polvere, cemento, cuoio e sabbia, tenendo presente la lezione ancora attualissima di Johnny Horton, Merle Haggard, Buck Owens, Lefty Frizzell.

Reclutati il violino di Brantley Kearns e la devastante sezione ritmica di J.D, Foster (basso) e Jeff Donovan (tamburi), Yoakam e Anderson diedero il via a una frenetica attività dal vivo, sovente affiancata da gruppi come Rank & File, Violent Femmes e Blasters. Le regolari esibizioni in alcuni tra i più famosi locali underground della zona, per esempio il Club Lingerie sul Sunset Boulevard di West Hollywood, Madame Wong’s a Chinatown, il Clubb 88 di Santa Monica, il Coral Club all’intersezione tra la San Fernando Valley e il Tujunga Canyon, e soprattutto il Palomino di North Hollywood, dove i nostri diventarono un’attrazione fissa, portarono a un estemporaneo contratto con la minuscola Oak, presso la quale avrebbe visto la luce, nel 1984 e in formato 12”, l’esordio Guitars, Cadillacs, Etc., Etc., così riuscito e immediatamente popolare da attirare l’attenzione della veneranda Reprise, che l’avrebbe ristampato due anni più tardi, con l’aggiunta di altri quattro brani, contrassegnando di fatto il sospirato debutto "lungo" del musicista.

Nel frattempo, la Enigma di Wesley e Willian Hein - casa discografica della California allora patrocinatrice delle uscite di Rain Parade, Fuzztones, Poison, Wipers, Textones, Cramps, Del-Lords, Mojo Nixon, Surf Punks, Game Theory, Zarkons e moltissimi altri - diede alle stampe, coinvolgendo proprio Yoakam dopo aver constatato quanto fosse tornato in auge il più puro e incontaminato hardcore-country della regione, l’antologico A Town South Of Bakersfield (1985), dove il nostro, Katy Moffatt, i Lonesome Strangers e Rosie Flores tra gli altri si occupavano di perorare la causa del cosiddetto, rockista Bakersfield-sound da cui avevano preso le mosse anche i "fuorilegge" del precedente decennio. L’arrivo sugli scaffali di Guitars, Cadillacs, Etc., Etc. (1986), fece poi saltare il banco e scrisse la storia di un movimento informale da lì in avanti descritto come quello dei "nuovi tradizionalisti", comprendente il primo Steve Earle, Randy Travis, Vince Gill, Travis Tritt etc.

Per far capire l’impatto prodotto da Yoakam sulla scena di Nashville, basti pensare che mentre costui furoreggiava in classifica, un beniamino del countrypolitan quale George Jones espresse in pubblico il suo disappunto per il fatto di vedere il genere da lui praticato tornare alla vecchia e mai scrostata associazione con l’immaginario hillbilly, termine più o meno traducibile con "montanaro" sebbene dai più utilizzato per sottolineare una presunta identità tra il basso grado di scolarizzazione e il domicilio nelle zone rurali degli Stati Uniti. Mentre Jones lamentava il ritorno dell’equivalenza tra country e rudezza, Yoakam s’impegnava esattamente a sbriciolarne le iper-produzioni orchestrali e a ricollocarne la posizione nell’alveo del r&r delle origini, dell’honky-tonk tagliente e trascinante come lo prediligevano i migranti in arrivo dalle praterie inabitabili del Texas, dell’Arkansas e del Midwest, dei ritmi sferzanti nei quali cercavano conforto gli okies diretti verso la Central Valley, dell’orgoglio da classe lavoratrice esibito da Wynn Stewart, Stonewall Jackson, Tommy Collins e, su tutti, Merle Haggard.

E cos’era, quel disco, se non, appunto, una celebrazione dell’epica della gente comune, confezionata con l’aiuto di Jay Dee Maness (pedal-steel), Ed Black (lap-steel), David Mansfield (dobro e mandolino) e Gene Taylor (pianoforte), nonché culminante nello stropicciato romanticismo di South Of Cincinnati e in quello da proletari in jeans e volti anneriti dal carbone di Miner’s Prayer? L’esplosiva rivisitazione della Honky Tonk Man di Johnny Horton s’inchiodò per sei mesi alle classifiche, senza peraltro oscurare la parafrasi rockabilly della Ring Of Fire di Johnny Cash, la sconquassante rilettura della Heartaches By The Number di Harlan Howard e il folgorante talento compositivo dello stesso Yoakam, straordinario sia nel gospel bruciante di Bury Me (con Maria McKee dei Lone Justice) sia nell’incedere frenetico di I’ll Be Gone, sia nella spumeggiante cornice di violini dell’irresistibile It Won’t Hurt sia nel ritmo spedito, alla Bob Wills, dell’altrettanto travolgente Guitars, Cadillacs.

L’anno successivo, pur senza lo stesso effetto sorpresa, Hillbilly Deluxe (1987) avrebbe perfezionato la formula facendo ricorso alla lap-steel di un ancora sconosciuto Greg Leisz e, in contemporanea, inasprendo il twang (nell’omaggio a Buck Owens dell’iniziale Little Ways, ma pure nell’Elvis Presley in centrifuga honky-tonk di Little Sister) e affilando la scrittura (secondo una prassi evidentissima nella strepitosa Johnson’s Love, ballatona rootsy su di un uomo a tal punto tormentato dal perduto amore da lasciarsi morire di freddo nella neve). Il Lefty Frizzell di Always Late With Your Kisses veniva portato all’incrocio tra country e doo-wop, lo Stonewall Jackson di Smoke Along The Tracks spennellato di vernici blues e la chitarra alla Don Rich di Anderson diventava protagonista assoluta, ancorché mai gratuitamente virtuosistica, nei sussulti rockinrollisti di Please, Please Baby, This Drinkin’ Will Kill Me, Throughout All Time. Le radici working-class dell’artista affioravano ancora nel road-movie mentale dell’accorata Readin’, Rightin’, Rt. 23, affresco emozionante (emozionato, anche) sui ragazzi nati nel Kentucky dei ’60, tutti provenienti da famiglie di operai addetti all’estrazione di materiale carbonifero e andati in massa verso le grandi fabbriche delle multinazionali di città solo per scoprire una diversa ma ugualmente mortificata miseria.

Buenas Noches From A Lonely Room (1988), terzo disco in tre anni a squadra più o meno invariata (stavolta apparivano il dobro di Al Perkins, il basso di quel Taras Prodaniuk poi collaboratore fisso di Richard Thompson, il violino di Don Reed e diversi ospiti di rilievo), si proponeva invece come l’episodio del raffreddamento noir, non tanto nel suono (al contrario sempre elettrico, scintillante, a tratti euforico) quanto nei temi delle liriche, in un susseguirsi di omicidi, vendette, scenate e ossessioni tali da farlo somigliare a un’unica, alluvionale ballata d’amore e di morte. Richiamata la McKee per duettare su di una dolentissima versione della Send Me The Pillow di Hank Locklin, Yoakam non perdeva comunque occasione non solo per congedare ancora una volta gli ascoltatori con un brano in forma di anti-climax (qui, il bluegrass indiavolato di Hold On To God), bensì per celebrare numi tutelari quali Johnny Cash (Home Of The Blues) e l’armonicista blues “Lazy” Lester (I Hear You Knockin’).

Dwight Yoakam - Please, Please Baby (1987) Dwight Yoakam - Little Sister (1987)

La fisarmonica del texano Flaco Jiménez adornava con gusto popolare il tex-mex alla Doug Sahm di una Streets Of Bakersfield cantata addirittura con il mèntore Buck Owens e la raggelante Buenas Noches From A Lonely Room (She Wore Red Dresses), uno dei tanti esempi di testi - sui pensieri sconvolti di un uomo che sperava di essere fermato prima di trovare, per ammazzarli a revolverate, l’ex-fidanzata e il nuovo compagno - per i quali un lavoro simile, pur avendo goduto ai tempi di buona fortuna, oggi non sarebbe nemmeno più concepibile. Sensazionali erano anche il rock’n’country alla Creedence di I Got You, il valzer gentile di One More Name e la tristissima I Sang Dixie, dove il narratore confortava uno sconosciuto uomo del Sud, morente sulle indifferenti strade di Los Angeles, stringendogli la mano e intonando, per il suo momento estremo, l’omonimo e ufficioso inno degli stati confederati.

In seguito a un trittico come questo, grondante forza espressiva e vitalità, Dwight Yoakam si prenderà un attimo di pausa (per continuare, dopo, a sfornare dischi magnifici) con l’antologico Just Lookin’ For A Hit (1989), nel quale campeggiavano le rasoiate della Long White Cadillac dei Blasters e la malinconia, accarezzata dalla voce di k.d. lang, della Sin City dei Flying Burrito Brothers, ossia i due inediti (di allora) ripresi anche nel quarto CD di questo cofanetto. So Forth & So On contiene infatti quelle due tracce, un’inutile squarcio di chiacchiere (dal vivo) in occasione d’una vigilia di Natale e i dieci, embrionali pezzi tramite cui Yoakam cercava di farsi conoscere, all’indomani del 1981, nella città degli angeli: tutti brani fatti e finiti, abbastanza simili a quelli poi gratificati di un’uscita ufficiale (9 su 10) anche se non proprio identici (Miner’s Prayer in chiave bluegrass, This Drinkin’ Will Kill Me accelerata e indomabile), testimonianze probanti di una stoffa interpretativa e di una capacità di scrittura già perfettamente formate.

Certo, chi segue il musicista dall’inizio, questi brani li ha prima d’ora incontrati per ben due volte, nel cofanetto quadruplo Reprise Please Baby: The Warner Bros. Years (2002) e nella Deluxe Edition doppia, arrivata nel 2006, di Guitars, Cadillacs, Etc., Etc., dove faceva bella mostra di sé anche un incendiario live al Roxy di Hollywood. E sarà pur vero, quindi, che almeno per gli iniziati The Beginning And The Some: The Albums Of The ‘80s non contiene nulla di veramente inedito. Ma dato il costo alquanto contenuto, e data in particolare la loro completa irriducibilità a un presente in cui ogni attimo è già preistoria rispetto al successivo e di fatica, lavoro, dignità e poveracci non parla più nessuno, perché non ascoltare un’altra volta ancora questi album splendidi, perché non raccontarne di nuovo la storia e le storie? Del country (e non solo) che più abbiamo amato, queste opere di Dwight Yoakam sono state, dagli ’80 a oggi, il manifesto e la promessa. Per una volta, sempre mantenuta.


 

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