Non è un reato, la monogamia critica, ma può diventare
un atteggiamento piuttosto antipatico quando degeneri
in senso del possesso o, peggio, nella cronica
incapacità di contestualizzare artisti e movimenti
solo perché estranei, almeno in apparenza, al
perimetro dei propri pregiudizi, fisime e preconcetti.
Nessuna "firma" europea di ambito musicale
(con l’eccezione, forse, di quelle inglesi) può
considerarsi al riparo, allorché si misuri con
l’analisi di fenomeni non appartenenti al patrimonio
culturale del continente di provenienza, da qualche
accusa di provincialismo, ma per chi era giovane
allora, sorprende ancora il settarismo (e il bigottismo)
in cui incorse la critica italiana al momento
di scoprire come, tra gli adorati gruppi della
California dei primi ’80, molti di loro non fossero
(solo) i sacrileghi, i "blasfemi" e
gli irregolari oggetto di adulazione in diverse
recensioni dell’epoca, bensì musicisti molto più
legati alle cosiddette "tradizioni"
di quanto non sembrasse in un primo momento.
E quindi, poiché tacciabili di legami sospetti
col passato, con il country delle epoche precedenti
e con il blues o il folk anch’essi percepiti quali
antagonisti obbligati di un certo antiamericanismo
di maniera, ripudiati con la stessa superficialità
tramite cui li si era incensati fino a un attimo
prima. Di questo repentino cambiamento di giudizio
fecero le spese, tra gli altri, Green On Red,
Gun Club, X e Dream Syndicate, mentre colleghi
ancor più esplicitamente legati all’immaginario
delle radici - Los Lobos, Blasters, Del Fuegos,
Lone Justice, Concrete Blonde - vennero espunti
su tutta la linea dall’orizzonte delle riviste
più attente a proporsi in chiave "alternativa".
Un personaggio come Dwight Yoakam, nondimeno,
venne sottovalutato anche dalle testate (non tutte,
per fortuna) non certo ostili alle manifestazioni
più tradizionaliste della musica a stelle e strisce,
forse perché l’aspetto da cowboy metropolitano,
gli stivali, il cappello, la voce nasale e gli
arrangiamenti di stretta osservanza vintage rimandavano
a un’idea di country regressiva e sorpassata,
o comunque ritenuta incapace di suscitare le emozioni
ormai richieste ad altri e più trasversali interpreti
degli stessi antefatti. Così, se negli Stati Uniti
era perfettamente normale (di più: logico) vedere
Yoakam in apertura ai concerti dei rispettatissimi
Hüsker Dü del Minnesota, in Italia il ragazzo
del Kentucky veniva considerato nient’altro che
il mero revivalista di un trascorso dai più già
felicemente messo in soffitta.
The
Beginning And Then Some: The Albums Of The
‘80s [4CD,
Via Records / Reprise / Rhino 2024]
Ora,
The Beginning And The Some: The Albums Of
The ‘80s - quadruplo cofanetto contenente
i primi tre album del nostro, con l’aggiunta di
un disco di rarità - può essere anche considerato
una delle tante operazioni di sfruttamento del
repertorio di artisti o canonizzati da tempo,
o sulla strada della canonizzazione (quindi, come
la stragrande maggioranza delle uscite legate
al famigerato Record Store Day, un prodotto
rivolto a proseliti dal riflesso pavloviano all’acquisto),
ma gli va riconosciuto il merito di mettere in
prospettiva, con chiarezza ancora maggiore rispetto
a qualsiasi altra antologia o box sin qui dati
alle stampe, l’indiscutibile appartenenza degli
esordi di Yoakam al novero del migliore rock alternativo
a quei tempi realizzato in territorio nordamericano.
Fratelli non solo in spirito, ma anche in origine
e in tenore qualitativo, di tutti i dischi più
belli del "nuovo rock" del periodo,
gli album di Dwight Yoakam ebbero il merito di
proporre una versione iperrealista e viscerale
dei classici del country senza peraltro mai suonare
come quelli, per di più in una stagione durante
la quale il genere, nella sua declinazione mainstream,
era ostaggio delle patinate sdolcinatezze di Kenny
Rogers e Alabama, o si apprestava a esserlo dei
primi vagiti di Reba McEntire. Se l’intuizione
di farne esplodere i connotati pur restando fedeli
al suo carattere, come facevano Blood On The Saddle,
Tex & The Horseheads, Jason & The Scorchers o
Great Plains, poteva apparire più o meno alla
portata di chiunque, rivitalizzarne la grammatica
senza violentarla, restituendole anzi verità interiore
e riportando il suo vissuto (non la sua destrutturata
rappresentazione) al centro della scena, come
faceva invece Yoakam, furiosamente cercando di
dimostrare quanto fosse vivo ciò che veniva dato
per morto, era questione assai più complessa.
Guitars, Cadillacs, Etc., Etc. (1986),
Hillbilly Deluxe (1987) e Buenas Noches
From A Lonely Room (1988), usciti uno di seguito
all’altro in sequenza mozzafiato, furono i primi
esempi, a tutt’oggi insuperati se non dalle opere
successive del loro artefice, di "modernariato
country", di uno stile contemporaneo sebbene
perfettamente in grado di evocare e surrogare
il passato prossimo con l’intelligenza, lo slancio
e la passione necessari a metabolizzare tutte
le profonde trasformazioni subite dalla quotidianità
degli ordinary people - gli unici di cui l’artista
abbia mai scritto e cantato - nel dopoguerra.
Ovviamente, questa scelta estetica, radicale e
consapevole quanto le altre rivoluzioni sonore
del decennio di riferimento, a suo modo estremista
e di rottura nel recuperare il suono più umile
della heartland, quella appunto appartenuta ai
figli della Grande Depressione, con un tocco di
spericolato sentimentalismo e una grinta selvatica,
primordiale e mai addomesticata, non arrivò dal
nulla. Nacque altresì, e non poteva essere altrimenti,
in un contesto proletario, in mezzo alle migliaia
e migliaia di chilometri dell’America profonda
dove immaginare un’altra vita significa affrontare
la superficie interminabile della strada e comporre,
come in tutta la musica alternativa che abbiamo
abbracciato, una continua esperienza di sconfinamento
tra passato e presente.
Dwight
Yoakam - Guitars, Cadillacs (1986)
Dwight
Yoakam - Honky Tonk Man (1986)
Il maggiore di tre figli, Yoakam - classe 1956
- si era spostato dal Kentucky delle origini allo
stato dell’Ohio in concomitanza con il congedo
dall’esercito del padre soldato, e lì, discente
delle superiori innamorato di Elvis Presley e
Johnny Cash ma deciso a recare il proprio contributo
al mantenimento familiare, si era prima sobbarcato
qualche turno in una fabbrica di elettrodomestici,
poi aveva finito per coprire tutti quelli vacanti
nella locale stazione di servizio Texaco. L’apprezzamento
non solo cittadino per la rock and roll band messa
in piedi ai tempi del liceo e denominata Greasers
gli fece maturare l’idea di tentare la fortuna
a Nashville, dove qualcuno, in effetti, gli propose
contratti da autore ma non da interprete, perché
nella seconda metà dei ’70, ai tempi in cui le
sonorità del posto già iniziavano a scivolare
verso orchestrazioni elefantiache e stucchevoli
cori multipli, il suo country secco, essenziale
e operaio veniva considerato una scheggia rétro
dallo scarso richiamo commerciale.
Tuttavia, Yoakam non si diede per vinto e si diresse
verso Los Angeles, California, fermandosi in quella
zona meridionale di Long Beach dove trovò lavoro
presso la piattaforma di carico di un centro commerciale,
in seguito mettendosi anche, per arrotondare,
dietro la piastra di cottura di Hamburger Henry’s,
storica paninoteca della Belmont Shore. Spedire
qualche soldo a casa e non solo campare ma ritagliarsi
tempo e risorse per registrare qualche primigenia
versione delle proprie canzoni, però, richiedeva
impieghi più stabili. Quindi Yoakam iniziò a fare
il camionista e affittò un piccolo garage non
lontano dall’anfiteatro dell’Hollywood Bowl in
cui esercitarsi e dormire. Qualcosa cambiò dopo
l’incontro con Pete Anderson, splendido
chitarrista proveniente da Detroit, anch’egli
sintonizzato sulle frequenze dell’honky-tonk e
del primo r&r anziché su quelle del country patinato.
Questi fu l’unico, una volta sentite le demo di
Yoakam, a non consigliargli di addolcirle, o di
renderle più zuccherose: la sua indicazione, al
contrario, fu quella di affilare e stilizzare
ulteriormente, di allontanarsi in modo ancor più
netto dall’esempio degli album - tutti quelli
degli Eagles e la colonna sonora di Urban Cowboy
(1980) - allora imperversanti ovunque per escoriare
il suono con ghiaia, polvere, cemento, cuoio e
sabbia, tenendo presente la lezione ancora attualissima
di Johnny Horton, Merle Haggard, Buck Owens, Lefty
Frizzell.
Reclutati il violino di Brantley Kearns e la devastante
sezione ritmica di J.D, Foster (basso) e Jeff
Donovan (tamburi), Yoakam e Anderson diedero il
via a una frenetica attività dal vivo, sovente
affiancata da gruppi come Rank & File, Violent
Femmes e Blasters. Le regolari esibizioni in alcuni
tra i più famosi locali underground della zona,
per esempio il Club Lingerie sul Sunset Boulevard
di West Hollywood, Madame Wong’s a Chinatown,
il Clubb 88 di Santa Monica, il Coral Club all’intersezione
tra la San Fernando Valley e il Tujunga Canyon,
e soprattutto il Palomino di North Hollywood,
dove i nostri diventarono un’attrazione fissa,
portarono a un estemporaneo contratto con la minuscola
Oak, presso la quale avrebbe visto la luce, nel
1984 e in formato 12”, l’esordio Guitars,
Cadillacs, Etc., Etc., così riuscito e
immediatamente popolare da attirare l’attenzione
della veneranda Reprise, che l’avrebbe ristampato
due anni più tardi, con l’aggiunta di altri quattro
brani, contrassegnando di fatto il sospirato debutto
"lungo" del musicista.
Nel frattempo, la Enigma di Wesley e Willian Hein
- casa discografica della California allora patrocinatrice
delle uscite di Rain Parade, Fuzztones, Poison,
Wipers, Textones, Cramps, Del-Lords, Mojo Nixon,
Surf Punks, Game Theory, Zarkons e moltissimi
altri - diede alle stampe, coinvolgendo proprio
Yoakam dopo aver constatato quanto fosse tornato
in auge il più puro e incontaminato hardcore-country
della regione, l’antologico A Town South Of
Bakersfield (1985), dove il nostro, Katy Moffatt,
i Lonesome Strangers e Rosie Flores tra gli altri
si occupavano di perorare la causa del cosiddetto,
rockista Bakersfield-sound da cui avevano preso
le mosse anche i "fuorilegge" del precedente
decennio. L’arrivo sugli scaffali di Guitars,
Cadillacs, Etc., Etc. (1986), fece poi saltare
il banco e scrisse la storia di un movimento informale
da lì in avanti descritto come quello dei "nuovi
tradizionalisti", comprendente il primo Steve
Earle, Randy Travis, Vince Gill, Travis Tritt
etc.
Per far capire l’impatto prodotto da Yoakam sulla
scena di Nashville, basti pensare che mentre costui
furoreggiava in classifica, un beniamino del countrypolitan
quale George Jones espresse in pubblico il suo
disappunto per il fatto di vedere il genere da
lui praticato tornare alla vecchia e mai scrostata
associazione con l’immaginario hillbilly, termine
più o meno traducibile con "montanaro"
sebbene dai più utilizzato per sottolineare una
presunta identità tra il basso grado di scolarizzazione
e il domicilio nelle zone rurali degli Stati Uniti.
Mentre Jones lamentava il ritorno dell’equivalenza
tra country e rudezza, Yoakam s’impegnava esattamente
a sbriciolarne le iper-produzioni orchestrali
e a ricollocarne la posizione nell’alveo del r&r
delle origini, dell’honky-tonk tagliente e trascinante
come lo prediligevano i migranti in arrivo dalle
praterie inabitabili del Texas, dell’Arkansas
e del Midwest, dei ritmi sferzanti nei quali cercavano
conforto gli okies diretti verso la Central Valley,
dell’orgoglio da classe lavoratrice esibito da
Wynn Stewart, Stonewall Jackson, Tommy Collins
e, su tutti, Merle Haggard.
E cos’era, quel disco, se non, appunto, una celebrazione
dell’epica della gente comune, confezionata con
l’aiuto di Jay Dee Maness (pedal-steel), Ed Black
(lap-steel), David Mansfield (dobro e mandolino)
e Gene Taylor (pianoforte), nonché culminante
nello stropicciato romanticismo di South Of
Cincinnati e in quello da proletari in jeans
e volti anneriti dal carbone di Miner’s Prayer?
L’esplosiva rivisitazione della Honky Tonk
Man di Johnny Horton s’inchiodò per sei mesi
alle classifiche, senza peraltro oscurare la parafrasi
rockabilly della Ring Of Fire di Johnny
Cash, la sconquassante rilettura della Heartaches
By The Number di Harlan Howard e il folgorante
talento compositivo dello stesso Yoakam, straordinario
sia nel gospel bruciante di Bury Me (con
Maria McKee dei Lone Justice) sia nell’incedere
frenetico di I’ll Be Gone, sia nella spumeggiante
cornice di violini dell’irresistibile It Won’t
Hurt sia nel ritmo spedito, alla Bob Wills,
dell’altrettanto travolgente Guitars, Cadillacs.
L’anno successivo, pur senza lo stesso effetto
sorpresa, Hillbilly Deluxe (1987)
avrebbe perfezionato la formula facendo ricorso
alla lap-steel di un ancora sconosciuto Greg Leisz
e, in contemporanea, inasprendo il twang (nell’omaggio
a Buck Owens dell’iniziale Little Ways,
ma pure nell’Elvis Presley in centrifuga honky-tonk
di Little Sister) e affilando la scrittura
(secondo una prassi evidentissima nella strepitosa
Johnson’s Love, ballatona rootsy su di un
uomo a tal punto tormentato dal perduto amore
da lasciarsi morire di freddo nella neve). Il
Lefty Frizzell di Always Late With Your Kisses
veniva portato all’incrocio tra country e doo-wop,
lo Stonewall Jackson di Smoke Along The Tracks
spennellato di vernici blues e la chitarra alla
Don Rich di Anderson diventava protagonista assoluta,
ancorché mai gratuitamente virtuosistica, nei
sussulti rockinrollisti di Please, Please Baby,
This Drinkin’ Will Kill Me, Throughout
All Time. Le radici working-class dell’artista
affioravano ancora nel road-movie mentale dell’accorata
Readin’, Rightin’, Rt. 23, affresco
emozionante (emozionato, anche) sui ragazzi nati
nel Kentucky dei ’60, tutti provenienti da famiglie
di operai addetti all’estrazione di materiale
carbonifero e andati in massa verso le grandi
fabbriche delle multinazionali di città solo per
scoprire una diversa ma ugualmente mortificata
miseria.
Buenas Noches From A Lonely Room
(1988), terzo disco in tre anni a squadra più
o meno invariata (stavolta apparivano il dobro
di Al Perkins, il basso di quel Taras Prodaniuk
poi collaboratore fisso di Richard Thompson, il
violino di Don Reed e diversi ospiti di rilievo),
si proponeva invece come l’episodio del raffreddamento
noir, non tanto nel suono (al contrario sempre
elettrico, scintillante, a tratti euforico) quanto
nei temi delle liriche, in un susseguirsi di omicidi,
vendette, scenate e ossessioni tali da farlo somigliare
a un’unica, alluvionale ballata d’amore e di morte.
Richiamata la McKee per duettare su di una dolentissima
versione della Send Me The Pillow di Hank
Locklin, Yoakam non perdeva comunque occasione
non solo per congedare ancora una volta gli ascoltatori
con un brano in forma di anti-climax (qui, il
bluegrass indiavolato di Hold On To God),
bensì per celebrare numi tutelari quali Johnny
Cash (Home Of The Blues) e l’armonicista
blues “Lazy” Lester (I Hear You Knockin’).
Dwight
Yoakam - Please, Please Baby (1987)
Dwight
Yoakam - Little Sister (1987)
La fisarmonica del texano Flaco Jiménez adornava
con gusto popolare il tex-mex alla Doug Sahm di
una Streets Of Bakersfield cantata addirittura
con il mèntore Buck Owens e la raggelante Buenas
Noches From A Lonely Room (She Wore Red Dresses),
uno dei tanti esempi di testi - sui pensieri sconvolti
di un uomo che sperava di essere fermato prima
di trovare, per ammazzarli a revolverate, l’ex-fidanzata
e il nuovo compagno - per i quali un lavoro simile,
pur avendo goduto ai tempi di buona fortuna, oggi
non sarebbe nemmeno più concepibile. Sensazionali
erano anche il rock’n’country alla Creedence di
I Got You, il valzer gentile di One
More Name e la tristissima I Sang Dixie,
dove il narratore confortava uno sconosciuto uomo
del Sud, morente sulle indifferenti strade di
Los Angeles, stringendogli la mano e intonando,
per il suo momento estremo, l’omonimo e ufficioso
inno degli stati confederati.
In seguito a un trittico come questo, grondante
forza espressiva e vitalità, Dwight Yoakam
si prenderà un attimo di pausa (per continuare,
dopo, a sfornare dischi magnifici) con l’antologico
Just Lookin’ For A Hit (1989), nel quale
campeggiavano le rasoiate della Long White
Cadillac dei Blasters e la malinconia, accarezzata
dalla voce di k.d. lang, della Sin City
dei Flying Burrito Brothers, ossia i due inediti
(di allora) ripresi anche nel quarto CD di questo
cofanetto. So Forth & So On contiene
infatti quelle due tracce, un’inutile squarcio
di chiacchiere (dal vivo) in occasione d’una vigilia
di Natale e i dieci, embrionali pezzi tramite
cui Yoakam cercava di farsi conoscere, all’indomani
del 1981, nella città degli angeli: tutti brani
fatti e finiti, abbastanza simili a quelli poi
gratificati di un’uscita ufficiale (9 su 10) anche
se non proprio identici (Miner’s Prayer
in chiave bluegrass, This Drinkin’ Will Kill
Me accelerata e indomabile), testimonianze
probanti di una stoffa interpretativa e di una
capacità di scrittura già perfettamente formate.
Certo, chi segue il musicista dall’inizio, questi
brani li ha prima d’ora incontrati per ben due
volte, nel cofanetto quadruplo Reprise Please
Baby: The Warner Bros. Years (2002) e nella
Deluxe Edition doppia, arrivata nel 2006, di
Guitars, Cadillacs, Etc., Etc., dove faceva
bella mostra di sé anche un incendiario live al
Roxy di Hollywood. E sarà pur vero, quindi, che
almeno per gli iniziati The Beginning And
The Some: The Albums Of The ‘80s non contiene
nulla di veramente inedito. Ma dato il costo alquanto
contenuto, e data in particolare la loro completa
irriducibilità a un presente in cui ogni attimo
è già preistoria rispetto al successivo e di fatica,
lavoro, dignità e poveracci non parla più nessuno,
perché non ascoltare un’altra volta ancora questi
album splendidi, perché non raccontarne di nuovo
la storia e le storie? Del country (e non solo)
che più abbiamo amato, queste opere di Dwight
Yoakam sono state, dagli ’80 a oggi, il manifesto
e la promessa. Per una volta, sempre mantenuta.