Era il 1987 quando Springsteen diceva che “il
rock è diventato una faccenda così grande e ha
significato così tanto per tanti tipi diversi
di persone e ha assorbito una tale quantità di
tempo nella loro vita che ha assunto delle proporzioni
veramente smisurate. C’è una certa mancanza di
prospettiva in tutto questo”. Eravamo all’apice
di lunghissimi anni in cui nei primi posti di
tutte le classifiche c’erano personaggi con acconciature
improbabili e canzoni senza senso. La musica era
diventata un’immagine a colori primari, che andavano
bene per tutte le stagioni. La forma e lo stile
erano inventati in laboratorio, i suoni plastificati
e omogeneizzati. Persino gli intellettuali più
attenti li salutavano come una grande e definitiva
novità, tanto che a cicli più o meno regolari
vorrebbero un revival che, nonostante gli sforzi,
non arriva. È ovvio: era tutta aria fritta ed
è sparita con il primo colpo di vento. L’ottica
giusta l’avevano avuta le Violent Femmes
qualche anno prima. Arrivavano da Milwaukee che
non è New York o Los Angeles, e insinuarono il
dubbio che fosse tutto una farsa.
Con quel nome assurdo, Gordon Gano, Brian Ritchie
e Victor DeLorenzo si presentavano con un disco
dalla copertina candida ed enigmatica. Se uscisse
una fotografia così scatterebbe una denuncia o,
se non altro, tutti si chiederebbero chi è quella
bambina, cosa sta facendo o cosa potrebbe fare,
perché è lì. Nella sua innocenza l’immagine in
sé era rivelatrice perché induceva a scoprire
cosa c’era dietro quella finestra, con un’innocenza,
una curiosità e un’attenzione che sono andate
perse nel mondo isterico che ben conosciamo. Violent
Femmes riportava all’essenzialità, anche meno,
e aveva qualcosa di fresco e di acido nello stesso
tempo. Dietro la copertina il contenuto era rivoluzionario
ed esplosivo: le canzoni erano sospese tra Jonathan
Richman, i Velvet Underground, Captain Beefheart,
e chissà cos’altro e tre ragazzi le suonavano
con strumenti acustici e con un uso improprio
di altri materiali compreso un catino rovesciato
su un rullante. Rudimentali, scarni, geniali:
Violent Femmes è stato uno dei dischi
capitali per la sopravvivenza del rock’n’roll
perché riportava all’essenza, alla sua origine
umile e marginale, in una parola, alla base, e
anche più sotto. Però con un’esuberanza che pareva
non tenere conto che ci fosse stato qualcosa prima,
o di quello che poteva venire dopo. Erano giovani,
sfrontati, non avevano nulla da perdere, ed è
giusto così.
La prassi non era inusuale, anzi, era ed è rimasta
una componente implicita dell’identità del rock’n’roll,
come ben sapeva Charlie Gillett: “Ogni volta
che l’industria pensava di essere riuscita a dominare
lo spirito sfuggente del rock’n’roll, questo scompariva
per riformarsi altrove, lontano dagli occhi indiscreti”.
L’esordio dei Violent Femmes, ormai quarant’anni
fa, fu un salutare shock estetico e culturale.
Riportava tutto all’anno zero e, concettualmente,
fece tabula rasa di pregiudizi e preconcetti con
un’ironia, una carica esplosiva di follia e di
simpatia che avrebbero poi trovato molti seguaci,
tutti bravi ed efficaci, ma non altrettanto originali.
Nella sua ristampa digitale del 2003, l’importanza
di questo gioiello è confermata dall’abbondanza
di outtake e da un intero disco dal vivo che è
qualcosa in più di un feticcio aggiuntivo. È piuttosto
un omaggio ad un gruppo che, nel giro di due album,
rivoluzionò il rock’n’roll e diede il via alla
riscoperta di tutte le “rootshighways”.
Lo sapeva anche Bill Flanagan che “il rock’n’roll
è uno stile così magnificamente immorale: agguanta
al volo le buone idee, le prova in dodici modi
diversi e conserva qualsiasi cosa gli vada bene”.
L’eccentrico non è soltanto una deviazione, è
una leva capace di sollevare qualsiasi cosa ed
è il secondo disco, Hallowed Ground,
a confermare la straordinarietà dei Violent Femmes.
La terra stregata di cui parla il titolo è un
luogo magico dove la musica nasce per estrapolazione
da paesaggi sfuggenti e riti ancestrali conditi
da miti, maschere e leggende. I confini coincidono
in gran parte con la “repubblica invisibile” dei
Basement Tapes, così come l’ha raccontata
Greil Marcus, ma dentro Hallowed Ground
c’è un gradiente che si trova raramente nei dischi
di rock’n’roll: il colore degli alberi, della
terra, delle paludi, di sentieri tortuosi e anfratti
segreti, di forze della natura (a partire dalla
pioggia) e fantasmi inafferrabili. All’epoca Hallowed
Ground soffriva il confronto con l’effetto
sorpresa del debutto, ma con il tempo è diventato
evidente che ha un taglio ancora più misterioso
e affascinante. Un album stratificato, comprensivo
dei fiati degli Horns of Dilemma, degni di Tom
Waits, e densissimo perché se l’omonimo Violent
Femmes è stato fondamentale, Hallowed Ground
non è meno importante per capire l’evoluzione
che avrebbe portato a gran parte del miglior rock’n’roll
degli ultimi anni. Hallowed Ground percorreva
le stesse strade con l’aggiunta di un’estetica
musicale ancora più radicale e torbida, legata
alla provincia americana e alle sue bizzarrie,
e ha condotto, a sua volta, in territori da riscoprire,
dagli ascendenti, dalla Carter Family in poi,
agli eredi, tra cui ricordiamo almeno Willard
Grant Conspiracy, Handsome Family, Lullaby For
The Working Class e, più di tutti, i Sixteen Horsepower,
e quello che è venuto dopo.
Instabili e frenetici, come rabdomanti in cerca
dell’acqua in un deserto di idee, i Violent Femmes
sorpresero anche al terzo difficile album. The
Blind Leading The Naked, con le influenze
dei Velvet in risalto, metteva in evidenza una
volta di più la vena sarcastica e irriverernte
in I Held Her In My Arms. Quella frase
che dice “la tengo tra le mie braccia, ma non
sei tu”, già scombinando le declinazioni dei verbi,
è emblematica nel mettere in evidenza l’aspetto
surreale che ha distinto le liriche di Gordon
Gano, anche nei suoi stralunati gospel o spiritual,
che poi avrebbero trovato maggiore spazio nei
Mercy Seat, un’esperienza notevole, per quanto
estemporanea. Il punto di non ritorno probabilmente
è da cercare nella loro versione di Children
Of The Revolution riproposta come se l’avessero
suonata i Talking Heads, e così per ricordare
che il produttore era Jerry Harrison, e non sono
andati lontani a cercarlo visto che anche lui
è originario di Milwaukee. Lo sforzo di plasmare
le canzoni dei Violent Femmes con forme più accattivanti
nel tentativo, inevitabile, di confrontarsi con
una possibile progressione sonora, non limita
l’eclettismo di The Blind Leading The Naked,
ma va anche detto che non sarebbero andati oltre.
C’è un’alchimia nei Violent Femmes che non tollera
intrusioni prefabbricate.
Dopo
The Blind Leading The Naked e il quarto album
intitolato, secondo una logica tutta da capire,
3, i Violent Femmes non sono stati più
in grado di esprimere lo stesso impeto rivoluzionario,
pur distribuendo una manciata di album più che
dignitosi, compresi nell’elenco gli episodi solisti
di Brian Ritchie. Se The Blind Leading The
Naked era evidente il tentativo di ampliare
le sonorità in 3, che in parte riprendeva
lo stile dell’esordio, appare più chiaro il fascino
dylaniano, soprattutto nelle ballate, per quanto
distorto dalla visione dei Violent Femmes. Forse
è il passaggio più accessibile della loro discografia,
dove comunque non mancheranno sorprese, come l’interpretazione
di Do You Really Want To Hurt Me? dei Culture
Club e un’American Music che è il riflesso naturale
di quella dei Blasters in Why Do Birds Sing?
(e siamo già nel 1991) o Machine, una roba
tagliente degna dei Suicide nel 1994 in New
Times, del resto gli estremi sono sempre ben
frequentati.
Il cambio della guardia alla batteria (Victor
De Lorenzo aveva un groove unico), scioglimenti
e successive ricomposizioni, alcuni screzi interni,
con le immancabili controversie legali, hanno
segnato l’esistenza del gruppo, che si è trascinata
a fasi alterne fino a oggi, ma motivi per affrontare
Rock!!!!! pubblicato nel 2000 (in origine
solo in Australia), Freak Magnet, We
Can Do Anything nel 2019 o ancora il più recente Hotel
Last Resort, nobilitato dalla presenza
di Tom Verlaine, ce ne sono parecchi, anche se
restano tutto sommato episodi relativi. La vera
eredità dei Violent Femmes è stata la determinazione
a infrangere regole e costumi come non si è più
vista. L’idea perseguita fino a oggi di coltivare
l’eccentricità come elemento poetico e pratico,
se non addirittura politico, e bisogna dire che
in questo il vero maître à penser resta l'anarcoide
Mojo Nixon.
Un parte consistente riguarda anche la realtà
della loro musica suonata senza additivi o correttivi,
con una gamma di espressioni dal minimale (la
voce di Gordon Gano) al funambolico (il basso
di Brian Ritchie) che hanno garantito se non altro
un’alta certezza di genuinità. Un’attitudine che
si è consolidata nel riportare le incisioni con
tutti i limiti e i difetti dell’irruenza sonora
dei Violent Femmes, alla faccia di filtri, campionamenti
e frigide riduzioni digitali, e questo vale per
tutto quello che hanno registrato. Si sente soprattutto
nei concerti dove senza assecondare una regola
che sia una, si sono confermati ogni volta un
act trascinante, spesso con risvolti imprevisti
e psichedelici. Non hanno mai perso smalto, e
ci sono parecchie testimonianze del loro impatto
dal vivo.
Più
di tutte merita Viva Wisconsin,
dove, non a caso, Violent Femmes e Hallowed
Ground (fondamentali, si sarà capito) forniscono
una buona parte del repertorio che non sembra
accusare gli anni che passano: ci sono ancora
follia, divertimento, coraggio e una predisposizione
irriverente nei Violent Femmes in tour nel 1998.
Uno show energico, corposo, delirante: viaggiano
sul filo della follia, si prestano alle divagazioni,
però suonano in maniera impeccabile. Ah, e un
appunto per tutti i kids che ci provano: i Violent
Femmes suonavano ovunque. Quando li sbattevano
fuori dai bar, improvvisavano ai quattro angoli
della strada, nelle stazioni degli autobus o dove
capitava. Si diventa grandi così.
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Percorso discografico
Violent Femmes (Slash, 1983) Hallowed Ground (Slash, 1984) The Blind Leading the Naked (Warner, 1986) 3 (Slash, 1989) Why Do Birds Sing? (Reprise, 1991)
New Times (Elektra, 1994) Rock!!!!! (Mushroom, 1995) Viva Wisconsin (BMG, 1999) Freak Magnet (BMG, 2000) We Can Do Anything (PIAS, 2016) Hotel Last Resort (PIAS, 2019)