È un racconto che si nutre di quella
piccola mitologia rock da carbonari quello che accompagna
l’uscita di questo live della Joe Ely band, testimonianza
del primo tour italiano del songwriter texano. La data dell’8
ottobre 1993 reca infatti come luogo del concerto la discoteca
Sinatra’m di Vergiate, nel varesotto, profonda provincia lombarda
che sembra l’ideale palcoscenico per le storie americane di
Ely, figlio prediletto di Lubbock, polvere e tornado nella
regione conosciuta come Texas Panhandle. Si tratta tuttavia
di un ripiego di fortuna: all’ultimo momento, l’organizzatore
della serata, Carlo Carlini, figura che attraverso la sua
agenzia Only a Hobo ha scritto un pagina importante
per gli appassionati di certa american music in terra italiana,
è costretto a cambiare il locale che ospiterà l’esibizione
di Ely e del suo gruppo. La più capiente Sala Marna, sulle
rive del Ticino, è finita letteralmente sott’acqua dopo un
violento temporale che si è abbattuto in giornata, per cui
un cartello improvvisato e un passaparola frenetico avvisa
il pubblico di spostarsi in blocco a Vergiate.
La risposta non si fa attendere e il locale si riempie con
l’entusiasmo di chi ha seguito passo dopo passo le gesta di
un musicista che dai Flatlanders ai Clash ha unito il mito
del South West fuorilegge con il gesto ribelle del rock’n’roll.
E l’attesa cresce anche nello stesso Joe Ely, che introduce
lo show con parole che non sembrano affatto di circostanza,
magari di quelle studiate su misura per blandire gli astanti.
“Aspettavo con ansia questa serata da molto tempo, gente”,
e le note distese di If You Were a Bluebird, brano
dell’amico e compagno di ventura nei Flatlanders, Butch Hancock,
aprono una scaletta che sarà fiammeggiante per intensità elettrica
ed epica per narrazione musicale.
La sintesi tra le due anime è offerta dalla formazone che
Ely si porta appresso, modellata sulle dinamiche e sui musicisti
di quello che è già passato alla storia come uno dei suoi
album dal vivo più robusti, il ben noto Live at Liberty
Lunch, registrato in Texas nella primavera del 1989 e
uscito per la MCA l’anno successivo: sono infatti della partita
la stessa chitarra incendiaria di David Grissom e la batteria
quadrata e martellante di Davis McLarthy, mentre il basso
cambia protagonista con Glen Fuckunaga (al Liberty Lunch era
presente Jimmy Pettit). Il suono resta quello che anche nei
dischi di studio dell’epoca - oggi forse un po’ dimenticati
dopo le vette artistiche toccate con il capolavoro personale
dell'artista, Letter to Laredo, e la svolta spanish
- dava la stura a un country rock carburato sui giri di un
eccitante roadhouse texano, impregnato delle note rock blues
della solista di Grissom (che in quegli anni si divideva tra
Ely e John Mellencamp, giusto per ribadire il raggio d'azione)
e sull’intensità del canto (ma anche come “spalla” chitrarristica
non se la cava niente male) dello stesso Joe Ely.
Lo dimostra proprio la presenza di alcuni brani tratti dal
recente Love and Danger, uno dei dischi della lunga
carriera di Ely più imparentati con certo heartland rock americano:
non un capolavoro, senza dubbio, eppure nella loro versione
live l’innodica Settle for Love,
la rutilante Highways and Heartaches e la ben nota
cover del collega Robert Earl Keen, quella sceneggiatura in
musica che corrisponde al titolo di The
Road Goes On Forever, restituiscono esattamente
l’atmosfera bollente che aveva un concerto della Joe Ely Band
al tempo. La conferma? È lì sul piatto, quando Ely tira fuori
gli assi dalla manica, spesso e volentieri tratti dalla penna
adorata dell’amico Butch Hancock: una devastante Boxcars,
che insieme a Row of Domonoes e She Never Spoke
Spanish To Me traccia i sentieri più western dell’immaginario
musicale del protagonista, siano essi votati al lato selvaggio,
imbizzarrito ed elettrico, oppure alla poesia da confine messicano.
Nel mezzo spazio anche per l’honky tonk danzereccio di Dallas,
brano appartenuto all’altro compadre dei lontani giorni nei
Flatlanders, Jimmie Dale Gilmore, per l’autografa Me
and Billy the Kid, una sgroppata di autentico rock’n’roll
“outlaw” che scalda il pubblico stipato al Sinatra’m con la
sua storia fra leggenda e ironia, e più di tutti per il finale
di Letter to L.A., occasione per liberare da ogni obbligo
la solista di Grissom in tutto il suo lirismo.
L’impossibilità di offrire l’intero set orginale del concerto
– come spiegato puntualmene nelle note da Renato Bottani della
New Shot records, sia per motivi tecnici riguardanti l’incisione,
sia per scelte artistiche dello stesso Ely (un brano in particolare
non ritenuto adatto alla sensibilità dei nostri giorni) –
lascia un pizzico di amaro in bocca per quello che avrebbe
potuto essere il live album definitivo della carriera di Joe
Ely, e tuttavia anche in questa forma “ridotta”, dieci brani
e comunque la bellezza di cinquantatrè minuti di fuochi d’artificio,Fighting the Rain risulta imperdibile, un treno
in corsa lanciato per le praterie del migliore rock delle
radici made in Texas.