Proviamo
innanzitutto a mettere in fila un po’ di contabilità. Per
i Drive-By Truckers, nati nel 1996, in quel di Athens,
Georgia, per volontà dei due amici Patterson Hood e Mike Cooley,
che avevano già fondato altri gruppi e venivano dal mondo
del soul il primo (figlio di David Hood, bassista nella sezione
ritmica dei Muscle Shoals), dal bluegrass operaio il secondo,
The Dirty South - uscito in origine nel 2004
- era il quinto album. Il secondo dopo l’exploit critico e
discografico di Southern
Rock Opera (2001), il torrenziale doppio col quale avevano
per la prima volta tentato di conferire una dimensione istrionica
e plateale all’intreccio tra le loro radici sudiste e la sfera
di adolescenze spese inseguendo le cicatrici del post-punk;
il secondo realizzato, dopo la defezione di Rob Malone, consegnando
parte della scrittura e delle esecuzioni chitarristiche -
un triplo arsenale di strumenti sulla falsariga dei Lynyrd
Skynyrd - a Jason Isbell, autore e musicista dell’Alabama,
ai tempi sposato con la bassista Shonna Tucker, che se ne
sarebbe andato sei anni più tardi e, una volta ripulito da
droghe e alcol, avrebbe intrapreso un’acclamata carriera solista.
In un certo senso, però, The Dirty South poteva anche
essere una specie di "esordio", lo sforzo fino a
quel momento ancora latente di asciugare le 20 tracce di Southern
Rock Opera alla luce delle malinconie, delle amarezze
e delle sfumature meno granitiche emerse nelle 15 del successivo
Decoration Day
(2003), così da dare luogo a quattordici, nuove composizioni
in grado di portare alle estreme conseguenze il suono bruciante,
compresso e claustrofobico dei lavori precedenti spingendolo
verso nuovi vertici di nichilismo e rumore. L’impresa riuscì,
e anche per chi, come il sottoscritto, apprezza i DBT soprattutto
nelle loro incarnazioni meno fluviali, per esempio quelle
del capolavoro A Blessing And A Curse (2006) o degli
ultimi quattro album, uno più bello e maturo dell’altro, The
Dirty South sembrò da subito un’opera capitale, ricchissima
di pathos e, in egual misura, di sventagliate rockiste; soprattutto,
apparve come la concretizzazione, priva di difetti o capitoli
superflui, di una delle ossessioni coltivate da Hood per lungo
tempo, quella cioè di allineare un ciclo di brani dal sapore
cinematografico, «grandi» non solo nelle ambizioni bensì nel
perimetro narrativo, concettuale, aneddotico.
E infatti, se Southern Rock Opera era stata una celebrazione,
non priva di lati oscuri (anzi), di una mitopoiesi sudista
vissuta da ragazzi ubriachi di liquori, passerelle tra Ozzy
Osbourne e Randy Rhoads, chilometri di campagna, gasolio,
armi, fabbriche abbandonate, famiglie in disarmo, umidità
alle stelle e riff degli AC/DC, The Dirty South
fu l’occasione in cui tutte le contraddizioni in precedenza
soltanto adombrate o evocate di passaggio - il razzismo inestirpabile
di metà nazione, gli abusi domestici, l’acolismo dilagante,
la propensione a una violenza vista come risolutrice di qualsiasi
controversia, il tetro dissolversi dell’influenza e del ricordo
delle leggende del rock - esplodevano fino a prendersi il
centro della scena, invariabilmente detenuto con rabbia e
aggressività.
Drive-By
Truckers, 2004: Mike Cooley, Patterson Hood, Jason Isbell,
Brad Morgan, Shonna Tucker
Insomma, là dove Southern Rock Opera somigliava al
loro Zen Arcade (Hüsker Dü, 1984) in virtù
del suo porsi quale arruffata, a tratti catartica e a tratti
selvaggia iniziazione alla vita di anime giovani ma già tormentate
dal proprio retaggio, da luoghi di provenienza troppo schiaccianti
per poterseli lasciare alle spalle, The Dirty South
provava a essere un altro Warehouse: Songs And Stories
(Hüsker Dü, 1987), un più composto benché non meno
lacerante cantico generazionale sul parallelismo tra il passaggio
della linea d’ombra e l’automatico trovarsi impantanati in
una melma di frustrazioni, fallimenti e rimpianti dove l’ombra
"del Sud", con i suoi racconti sulfurei e la sua
cronaca nera grondante brutalità, mozzava il fiato in gola
anziché assicurare una ventata d’aria fresca. La citazione
degli Hüsker Dü non è casuale: se c’è, infatti, una cosa che
i nuovi remix di questo The Complete Dirty South
rendono evidente, è quanto le sonorità del gruppo, abrasive,
spesso metalliche, lancinanti anche quando paiono mordere
il freno, fossero indebitate con quelle confezionate da Bob
Mould e Grant Hart nelle loro stagioni di militanza presso
la Warner Bros.
Ci sarà un motivo se David Barbe - bassista proprio
di Mould negli Sugar da lui capitanati nel triennio ’92/’95
- ha prodotto tutti i dischi dei DBT dal 2001 a oggi, e ce
ne sarà un altro se, dietro la cortina fumogena dei continui
rimandi a Skynyrds, Molly Hatchet e 38 Special, il duo composto
da Hood e Cooley in seguito alla disgregazione degli Adam’s
House Cat e prima della nascita dei Truckers si chiamava Virgil
Kane, come il soldato sudista (quasi omonimo: nella canzone
il cognome è Caine) di cui parla The Night They Drove Old
Dixie Down della Band. Ecco, immaginate un incrocio tra
lo spirito roots di Robertson, Helm e soci, in contemporanea
pittorico e pastorale, e il martellante post-punk degli Hüsker
Dü, e avrete un’indicazione abbastanza verosimile di cos’abbiano
suonato i DBT nella prima metà degli anni duemila.
Di questo suono, The Dirty South è il manifesto più
probante, cupissimo nelle tematiche (a detta degli stessi
artefici, la Daddy’s Cup di Mike Cooley era l’unico
brano a non radiografare una vicenda traumatica) eppure piuttosto
variegato negli arrangiamenti, capaci di spaziare dal minimalismo
folk dell’avvolgente Goddamn Lonely
Love, accarezzata dai velluti di un organo d’altri
tempi, al tradizionalismo allucinato della cinematica The
Sands Of Iwo Jima, dove un veterano di guerra irritato
dalla rappresentazione del conflitto data nel film omonimo
(da noi Iwo Jima, Deserto Di Fuoco) dichiara di «non
aver mai visto John Wayne» sulle sabbie dell’isola giapponese,
dalla società proibizionista ritratta attraverso immagini
bibliche (alla Flannery O’Connor) e rasoiate rock’n’roll di
Where The Devil Don’t Stay al martirio della classe
lavoratrice raccontato con effervescenza byrdsiana nella stupenda
The Day John Henry Died.
Spettacolare, poi, è il trittico di canzoni dedicato da Hood
e Cooley allo sceriffo Buford Pusser, il più giovane tutore
dell’ordine (eletto all’età di 28 anni) nella storia del Tennessee,
responsabile nella seconda metà dei ’60 di una solitaria crociata
contro la prostituzione, il contrabbando di liquori e il gioco
d’azzardo alimentati e promossi, sul confine col Mississippi,
dalla cosiddetta «Dixie Mafia», scampato a numerosi attentati
(in uno dei quali, però, ci rimise la pelle la giovane moglie),
abituato a girare e difendersi con un bastone passato alla
storia, immortalato in un rozzo ma efficace revenge-movie
di enorme successo (Un Duro Per La Legge [Walking
Tall, 1973] di Phil Karlson, trent’anni dopo oggetto di
un penoso remake con Dwayne “The Rock” Johnson nei panni di
Pusser), morto trentaseienne in un incidente d’auto alquanto
sospetto: grazie a chitarre scartavetrate e schegge di lamiera,
in The Boys From Alabama e
The Buford Stick, entrambe
composte da Hood, i fatti storici vengono inquadrati e narrati
dal punto di vista dei criminali, mentre nel rantolo per voce
e chitarra della tenebrosa Cottonseed, Cooley esplora
l’inquietudine dell’uomo di legge consapevole di rischiare
la vita, ogni giorno, in un contesto sociale ormai completamente
deragliato. Ma bisognerebbe spendere qualche parola anche
per lo psicotico, younghiano (nel senso di Neil) attorcigliarsi
delle sei corde nella corrosiva Lookout Mountain (Hood),
per l’autoritratto distruttivo e tristissimo dipinto nel marziale
country-folk di Danko/Manuel (Isbell,
ancora in quota The Band), per la sublime nostalgia rockista
di una Carl Perkins’ Cadillac (Cooley)
in cui l’intero scibile del r’n’r nel suo momento aurorale
viene condensato in cinque minuti elettrici, incalzanti, rigeneranti.
The Complete Dirty South, disponibile in doppio CD
e doppio vinile con vari cadeaux aggiunti (molti relativi
alle illustrazioni del solito Wes Freed, purtroppo scomparso
nel 2022 ndr), ci riconsegna un disco scintillante
anche a vent’anni dalla sua uscita, con un suono (rivisitato
per l’occasione) ancor più ruvido di quello del prototipo,
due tracce vocali rimpiazzate ad hoc (con cambiamenti quasi
impercettibili in The Sands Of Iwo Jima e un assetto
invece assai più scorticato nel bilancio esistenziale di Puttin’
People On The Moon, flusso di coscienza di una testa calda
finita a fare lo scaffalista, sottopagato, in un supermarket)
e tre brani non presenti nella scaletta originaria, il country-rock
ecologista della TVA di Isbell e due pezzi di Hood
già apparsi nell’antologico The Fine Print: A Collection
Of Oddities And Rarities (2009), l’apologo elettrico (sopra
una storia di suicidio) di una Goode’s Field Road leggermente
rimaneggiata, più secca e diretta, e l’epica ferrosa di The
Great Car Dealer War.
Nelle 48 pagine (!) del libretto di questa nuova edizione,
Patterson Hood definisce The Complete Dirty South il
director’s cut del suo predecessore, la sua versione approvata
e ratificata da chi ne fu artefice. Per quanto la definizione
sia azzeccata e suggestiva (Hood, con queste cose, ci sa fare:
se esistesse un premio per le migliori liner-notes, lo vincerebbe
con regolarità), non basta a rendere "necessario"
l’acquisto, soprattutto per chi già possieda l’adattamento
precedente, col quale le differenze sono peraltro minime.
I DBT, come tutti, sanno perfettamente di vivere nelle stagioni
della dittatura dell’engagement, della partecipazione forzata,
della perenne chiamata a raccolta - unica iniziativa in grado
di scongiurare repentine cadute nell’oblio - dei propri estimatori
e dei propri appassionati. The Complete Dirty South
risponde, molto semplicemente, a questa necessità, all’esigenza
di sollecitare a intervalli regolari platee altrimenti distratte,
trascurate, risucchiate nel vortice di un’offerta di gran
lunga superiore a qualsiasi domanda. Ma The Dirty South resta
un disco così bello, romantico, espressivo e disperato da
farci dire che, se c’era bisogno di una scusa per rispolverarlo,
per tornare a immergersi nella sua dimensione tagliente e
ostinata, allora siamo tutto sommato disposti anche a credere,
volendo restare ai casi recenti, alla barzelletta su come
“Sleepy” Joe Biden sappia davvero quale sia la differenza
tra Ucraina e Iraq.