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Scott Fagan
South Atlantic Blues
[Earth Records/ Fire 2024]

Sulla rete: firerecords.com

File Under: do you remember the sixties?


di Fabio Cerbone (15/02/2024)

Un altro “album perduto” che rispunta dalle nebbie del folk rock più sotterraneo della fine degli anni Sessanta, South Atlantic Blues rimette al centro la figura di culto di Scott Fagan, musicista che aveva vissuto qualche anno fa un ritorno di interesse intorno alla sua travagliata storia personale, soprattutto dopo la rivelazione di essere il padre biologico di Stephin Merritt, mente e anima dei Magnetic Fields. L’incontro fra i due avvenne soltanto nel 2013, ispirando a Merritt anche una canzone, e dando quindi allo stesso Fagan quelle attenzioni sulla stampa specializzata che fino a quel momento erano rimaste appannaggio di pochi adepti.

Già oggetto di una ristampa rimasterizzata in cd nel 2015 per opera della Saint Cecilia Knows, l’album è riproposto oggi in vinile nella sua grafica originale dalla Earth Recordings, con un ritratto interno curato dal fotografo Joel Brodsky. Senza aggiungere tracce inedite (era possibile recuperare in via digitale alcune demo acustiche con la precedente edizione), ma semplicemente riproponendo un “classico dimenticato”, l’iniziativa si collega al fatto che Scott Fagan tornerà presto in attività con un annunciato nuovo disco, la colonna sonora di Soon, un musical scritto a suo tempo (1971) e messo in scena a Broadway ma mai realizzato in lp, nonché un documentario sulla sua vita, Soon: the Story of Scott Fagan, curato dal regista Marah Strauch.

È proprio stabilire la natura di “classico” di South Atlantic Blues che forse non rende un grande favore allo stesso Fagan, destinato all’oscurità anche per dolorose scelte personali (inciderà un altro disco ufficiale per la RCA nel 1975 prima di sparire definitivamente dalle scene) e probabilmente per aspettative troppo alte di discografici e produttori al tempo coinvolti, oltre a una concorrenza spietata, in quel 1968, allor quando il disco si dovette confrontare con il vento della rivoluzione underground che lo circondava da tutte le parti. Fagan aveva vissuto una stagione in esilio da ragazzo, cresciuto insieme ai fratelli tra le Isole Vergini e Puerto Rico in una famiglia di genitori separati, il padre musicista jazz e la madre ballerina classica, prima di fare ritorno a New York e affacciarsi sulla vivace scena dei folksinger del Greenwich Village.

   

È da quelle parti che viene notato da talent scout del lignaggio di Doc Pomus e Mort Shuman, per finire poi sotto le cure di Bert Bens della Bang Records e infine, grazie all’interessamento del manager Jerry Schoenbaum, nella scuderia prestigiosa della ATCO/Atlantic. Sarà quest’ultima a imprimere il marchio sull’esordio di South Atlantic Blues, dieci brani originali passati in fretta nell’oblio nonostante un suono che esprimeva la totale immersione nello “spirito dei tempi” da tramonto dei sixties, con la produzione firmata da Elmer Jared Gordon (Buffy Sainte Marie , Pearls Before Swine) e gli arrangiamenti per archi e fiati curati da Horace Ott (Nina Simone, Sam Cooke, The Shirelles).

Risentiti adesso questi brani sembrano distanti da alcune definizioni, su cui la stessa Earth recordings pare indugiare, che vorrebbero descrivere il suono di Fagan come un pezzo di quella sbornia psych-folk che montava all’epoca. Sebbene le suggestioni siano certamente presenti, soprattutto nel fluttuare dell’apripista In My Head, nei deragliamenti di Tenement Hall o nel finale un po’ barocco di Madame-Moiselle, a colpire sono in particolare le orchestrazioni pop di Horace Ott in Nickel and Dimes e Crying, e così altrettanto le pulsioni r&b della sezione fiati che fanno breccia in Nothing But Blue, il tutto avvolto in una commistione tra scrittura folk ed elementi soul che nel caso di Fagan si allarga inevitabilmente anche agli influssi caraibici della sua esistenza, come rivela più di tutte la traccia intitolata The Carnival is Ended.

Ciclo di canzoni che affonda nella biografia stessa di Scott Fagan, a partire dai suoi anni di soggiorno alle Isole Vergini, South Atlantic Blues raccoglie ricordi famigliari, dettagli di povertà e sofferenza ma anche di un amore emotivo, restituendo valore alle liriche un po’ sfuggenti anche quando la voce, un curioso mix fra il David Bowie giovanile e i mille folksinger di quella fine decennio, tremula e spinta forse all’eccesso dalla produzione in primo piano, non sembra in grado di reggere sempre la forza delle canzoni stesse. E qui dunque resta l’impressione che South Atlantic Blues (compreso il brano omonimo, una sorta di Van Morrison apocrifo, ma senza la densità e la grinta del nordirlandese) sia non tanto un’opera irrinunciabile al quale restituire un po’ di giustizia, semmai una rarità da riscoprire con il curioso atteggiamento di chi ama qualsiasi oggetto discografico la febbre dell'oro dei 60s continua a generare.