Li aspettavamo al varco, il trio irsuto di
Matt Stubbs e Pat Faherty, con Tim Carman alla batteria pronti
ad “attaccare” un live che più live non si può, giacché la
band aveva già un approccio al vivo in studio, figuriamoci
col pubblico presente sul posto, a gettar benzina sul fuoco.
Luogo del misfatto, il Plaid Room Records in Loveland, Ohio,
dove ha sede anche la casa discografica del loro produttore
Terry Cole, Colemine Records.
Così i GA-20, che nascono da una pausa di Stubbs dal
lavoro come chitarrista di Charlie Musselwhite, nel 2018 (ai
tempi in cui l’armonicista si apprestava alla tournée con
Ben Harper) dopo tre album-studio approdano finalmente a questo
disco dal vivo, registrato senza fronzoli da un vecchio Tascam,
per un “buona la prima” in undici tracce e solo mezz’ora,
ma di un sound incendiario e viscerale: blues elettrico e
energia così forte, quanto la meno tossica che possa giungere
da un cortocircuito, qui tra il pubblico e la band sul palco,
e via veloci come schegge al vento. Provenienza di (poco meno
che) una sporca dozzina di brani, dal loro debutto che fu
Lonely Soul del 2019, di cui tre pezzi; cinque invece
dal più recente Crackdown,
del 2022; e infine tre inediti, coll’approccio che più che
mai li identifichi in quell’originale quanto scarna line-up
che fu dell’altrettanto scarno e smilzo bluesman Hound-Dog
Taylor e i suoi Houserockers, nientemeno che l’altra chitarra
di Brewer Philips e la batteria di Ted Harvey, per i quali
i GA-20 giocarono a carte scoperte, dedicandogli il loro secondo
album e il più esplicito che mai, Does
Hound Dog Taylor. Try It..You Might Like It!, del
2021.
Eccoli in tutto il loro splendore, finalmente dal vivo, come
quando si esibivano per arrotondare nei bar di Boston, Mass.
e dintorni (di cui sono originari) immaginandoci assiepati
a livello di palco, come nella folla del locale quando attacca
un torrido blues: è I Cry For You,
e loro sono i GA-20, che a scanso di equivoci, si chiamano
come un ampli Gibson prodotto tra i Cinquanta e i Sessanta.
E’ proprio così, le riverberazioni delle “songs” sembrano
quelle di quegli anni, e Little Walter è rievocato da My
Baby Sweeter come la loro Lonely Soul apre un varco
nel pubblico a fare spazio per ballare.
Double Gettin’ My Love giunge ai vertici del
climax e da lì in poi il concerto è in discesa, sciolti gli
indugi (se mai ve ne siano stati), via al gran finale, di
cui piacevolmente segnaliamo Crackin’ Up di Bo Diddley,
in stile sixties, quanto la conclusiva e rock’n’rollistica
By My Lonesome. Bentornati, ragazzi!