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Paul Westerberg
Stereo/ Mono
[2003]

La scelta di: Gianfranco Callieri


Erano passati anni da quando, per l’ultima volta, l’avevamo sentito nel tentativo di ritagliarsi una carriera mainstream, e benché Suicaine Gratifaction (1999) fosse un disco magnifico, personale, meditativo e sentito, della sua esistenza si erano accorti giusto i (soliti) quattro gatti. Certo, date l’insofferenza e la trascuratezza con cui Paul Westerberg - il «San Paolo» di Minneapolis (come lo definiva Jeremy Gluck dei Barracudas in un adorante articolo uscito in concomitanza con la pubblicazione del secondo Eventually [1996] e confezionato in forma di lunga «lettera ai filistei») un tempo alla guida dei mai troppo apprezzati Replacements - avrebbe in seguito gestito le proprie traiettorie soliste, parcellizzatesi in una serie di mosse sempre più estemporanee e incomprensibili, con album e canzoni vomitati all’impronta, decine di inediti caricati in rete senza preavviso e infine, da undici stagioni a questa parte, un’afasia pressoché assoluta (contraddetta da un unico brano nel 2017 affiorato su SoundCloud), si poteva supporre che l’artista avesse già presagito la trasformazione del suo vecchio gruppo — la singola e più autolesionista formazione a cavallo tra r’n’r e indie, retaggio punk e tentazioni classiche, di tutti gli ’80 — in sigla destinata a garantirgli, dal punto di vista dei diritti d’autore, la libertà assoluta della quale ha disposto, abusandone pure, in lungo e in largo.

Ma nel 2002, quando la californiana Vagrant (allora casa discografica di modeste celebrità emo quali Dashboard Confessional o Get Up Kids) annunciò l’imminente disponibilità di Stereo/ Mono, nuovo, doppio lavoro di Westerberg tra l’altro circondato da un alone di totale incertezza, drizzammo le orecchie in tanti. Agli albori del commercio on-line, e con la reperibilità ancora difficoltosa dei titoli cosiddetti «di importazione» (la Universal italiana, allora distributrice della Vagrant, fu a dir poco granitica nell’ignorare l’evento), del disco si favoleggiò per mesi: qualcuno lo diceva diviso in due, con una seconda parte attribuita all’alter-ego Grandpaboy (nel ’97 già protagonista di un extended e nel 2013 di nuovo adoperato per un album targato Fat Possum), altri tutto accreditato al solo Westerberg, altri ancora sdoppiato su due supporti diversi. Nel momento in cui chi scrive l’ebbe in mano, Stereo/ Mono fu doppio, appunto, con una prima copertina intestata a Westerberg e un’altra, interna e complementare, a Grandpaboy, e così è sempre rimasto (almeno nelle edizioni in cui ho avuto il piacere di imbattermi).

L’esperienza del suo ascolto, tuttavia, non fu meno scioccante, dirompente o viscerale, perché «St. Paul», dopo un decennio trascorso cercando di rifarsi una verginità da cantautore nobile, accessibile seppur pensoso, rockista sebbene intellettuale, ne usava le scalette per sbriciolare le convenzioni sin lì assecondate e riportare a casa un’attitudine sporca e febbricitante, così grezza, selvatica e primordiale da risultare estranea a qualsiasi categoria avessimo (o avremmo) conosciuto. Ancorché approssimativo sotto il profilo tecnico, Stereo/ Mono non era, infatti, lo-fi nel senso in cui lo erano stati, pochi anni prima, altri colleghi intenti a rivendicare il primato dell’ispirazione sulla ricercatezza dei metodi coi quali registrarla; si trattava, al contrario, della fotografia sonora di una frazione di tempo, della duplicazione nuda e cruda di una batteria di canzoni dagli arrangiamenti scheletrici, nonché affidati a un’incisione istantanea in cui errori, sfasature, stonature e addirittura l’esaurirsi del nastro d’incisione rientravano nella cornice del progetto in quanto funzionali all’espressione di un umore, di una sensazione, di uno scoppio incontaminato di creatività.

Con una prima dimensione (Stereo) più cantautorale e intimista, quantunque conclusa da un’assordante rilettura (in chiave di traccia fantasma) dei britannici Flesh For Lulu di Postcards From Paradise (piccolo culto gotico dei primi ’80 sulla scia di Virgin Prunes e Rose Of Avalanche), e una seconda (Mono) più garagista, elettrica e scomposta, stracolma di riff alla Bob Mould, distorsioni urticanti, tamburi pestoni, ritmi ipnotici e ruvide cadenze blues (tutti escogitati dal titolare medesimo, nascosto dietro i più strampalati pseudonimi, nella cantina di casa propria), Paul Westerberg consegnava alle stampe la sua opera meno mediatrice e più spontanea di sempre, lontanissima da qualsiasi tendenza del periodo (o di tutti gli altri periodi) e proprio per questo indimenticabile.

Non occorre appartenere alla chiesa di Westerberg o dei ‘Mats per riconoscere in Stereo/ Mono qualità oggi irreperibili, se non come vizio intellettuale, nella stragrande maggioranza di quanto circola in radio, in rete o su qualsiasi altro canale di comunicazione possiate suggerire. I suoi brani, come quelli di Chuck Berry nei ’50 o dei Ramones vent’anni dopo, resteranno testimonianze uniche e irripetibili della bellezza degli istanti, dell’innocenza e dell’irruenza di un linguaggio così puro da affidarsi soltanto alla propria autenticità, dell’estetica del perenne, talvolta zoppicante e nondimeno eccezionale divenire. Se in un remoto futuro vorrete spiegare a qualcuno perché, nel rock and roll, l’istintività abbia sempre avuto più importanza della pianificazione, fategli ascoltare il Paul Westerberg di Stereo/ Mono. Capirà.


    



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