Erano passati
anni da quando, per l’ultima volta, l’avevamo sentito
nel tentativo di ritagliarsi una carriera mainstream,
e benché Suicaine Gratifaction (1999) fosse
un disco magnifico, personale, meditativo e sentito,
della sua esistenza si erano accorti giusto i (soliti)
quattro gatti. Certo, date l’insofferenza e la trascuratezza
con cui Paul Westerberg - il «San Paolo»
di Minneapolis (come lo definiva Jeremy Gluck dei
Barracudas in un adorante articolo uscito in concomitanza
con la pubblicazione del secondo Eventually
[1996] e confezionato in forma di lunga «lettera
ai filistei») un tempo alla guida dei mai troppo
apprezzati Replacements - avrebbe in seguito gestito
le proprie traiettorie soliste, parcellizzatesi
in una serie di mosse sempre più estemporanee e
incomprensibili, con album e canzoni vomitati all’impronta,
decine di inediti caricati in rete senza preavviso
e infine, da undici stagioni a questa parte, un’afasia
pressoché assoluta (contraddetta da un unico brano
nel 2017 affiorato su SoundCloud), si poteva supporre
che l’artista avesse già presagito la trasformazione
del suo vecchio gruppo — la singola e più autolesionista
formazione a cavallo tra r’n’r e indie, retaggio
punk e tentazioni classiche, di tutti gli ’80 —
in sigla destinata a garantirgli, dal punto di vista
dei diritti d’autore, la libertà assoluta della
quale ha disposto, abusandone pure, in lungo e in
largo.
Ma nel 2002, quando la californiana Vagrant (allora
casa discografica di modeste celebrità emo quali
Dashboard Confessional o Get Up Kids) annunciò l’imminente
disponibilità di Stereo/ Mono, nuovo,
doppio lavoro di Westerberg tra l’altro circondato
da un alone di totale incertezza, drizzammo le orecchie
in tanti. Agli albori del commercio on-line, e con
la reperibilità ancora difficoltosa dei titoli cosiddetti
«di importazione» (la Universal italiana, allora
distributrice della Vagrant, fu a dir poco granitica
nell’ignorare l’evento), del disco si favoleggiò
per mesi: qualcuno lo diceva diviso in due, con
una seconda parte attribuita all’alter-ego Grandpaboy
(nel ’97 già protagonista di un extended e nel 2013
di nuovo adoperato per un album targato Fat Possum),
altri tutto accreditato al solo Westerberg, altri
ancora sdoppiato su due supporti diversi. Nel momento
in cui chi scrive l’ebbe in mano, Stereo/ Mono
fu doppio, appunto, con una prima copertina intestata
a Westerberg e un’altra, interna e complementare,
a Grandpaboy, e così è sempre rimasto (almeno nelle
edizioni in cui ho avuto il piacere di imbattermi).
L’esperienza del suo ascolto, tuttavia, non fu meno
scioccante, dirompente o viscerale, perché «St.
Paul», dopo un decennio trascorso cercando di rifarsi
una verginità da cantautore nobile, accessibile
seppur pensoso, rockista sebbene intellettuale,
ne usava le scalette per sbriciolare le convenzioni
sin lì assecondate e riportare a casa un’attitudine
sporca e febbricitante, così grezza, selvatica e
primordiale da risultare estranea a qualsiasi categoria
avessimo (o avremmo) conosciuto. Ancorché approssimativo
sotto il profilo tecnico, Stereo/ Mono non
era, infatti, lo-fi nel senso in cui lo erano stati,
pochi anni prima, altri colleghi intenti a rivendicare
il primato dell’ispirazione sulla ricercatezza dei
metodi coi quali registrarla; si trattava, al contrario,
della fotografia sonora di una frazione di tempo,
della duplicazione nuda e cruda di una batteria
di canzoni dagli arrangiamenti scheletrici, nonché
affidati a un’incisione istantanea in cui errori,
sfasature, stonature e addirittura l’esaurirsi del
nastro d’incisione rientravano nella cornice del
progetto in quanto funzionali all’espressione di
un umore, di una sensazione, di uno scoppio incontaminato
di creatività.
Con una prima dimensione (Stereo) più cantautorale
e intimista, quantunque conclusa da un’assordante
rilettura (in chiave di traccia fantasma) dei britannici
Flesh For Lulu di Postcards From Paradise
(piccolo culto gotico dei primi ’80 sulla scia di
Virgin Prunes e Rose Of Avalanche), e una seconda
(Mono) più garagista, elettrica e scomposta,
stracolma di riff alla Bob Mould, distorsioni urticanti,
tamburi pestoni, ritmi ipnotici e ruvide cadenze
blues (tutti escogitati dal titolare medesimo, nascosto
dietro i più strampalati pseudonimi, nella cantina
di casa propria), Paul Westerberg consegnava
alle stampe la sua opera meno mediatrice e più spontanea
di sempre, lontanissima da qualsiasi tendenza del
periodo (o di tutti gli altri periodi) e proprio
per questo indimenticabile.
Non occorre appartenere alla chiesa di Westerberg
o dei ‘Mats per riconoscere in Stereo/ Mono
qualità oggi irreperibili, se non come vizio intellettuale,
nella stragrande maggioranza di quanto circola in
radio, in rete o su qualsiasi altro canale di comunicazione
possiate suggerire. I suoi brani, come quelli di
Chuck Berry nei ’50 o dei Ramones vent’anni dopo,
resteranno testimonianze uniche e irripetibili della
bellezza degli istanti, dell’innocenza e dell’irruenza
di un linguaggio così puro da affidarsi soltanto
alla propria autenticità, dell’estetica del perenne,
talvolta zoppicante e nondimeno eccezionale divenire.
Se in un remoto futuro vorrete spiegare a qualcuno
perché, nel rock and roll, l’istintività abbia sempre
avuto più importanza della pianificazione, fategli
ascoltare il Paul Westerberg di Stereo/ Mono.
Capirà.