Torna al precedente
La prossima scelta
Home page
info@rootshighway.it

   



The White Stripes
Elephant
[2003]

La scelta di: Matteo Fratti


“... ragionando sull’assenza di rock nel mondo, proprio in quell’istante sono usciti fuori gli Strokes e i White Stripes, e d’un tratto il rock è ritornato di attualità”. - Beck, Rolling Stone, aprile 2003 -

Penso che se qualcuno dovesse aver “qualcosa” contro gli White Stripes, è perché a un certo punto della loro carriera sorrise loro un certo successo commerciale, di cui hanno potuto godere finché il loro ufficiale scioglimento non venisse annunciato nel 2011, quando dichiararono alle masse di non far più nuovi album, solo inediti e live della loro storia. Motivi? “Una miriade di ragioni …” – disse Meg White – “… ma principalmente per conservare tutto ciò che di bello e speciale appartiene alla band, che merita di rimanere così” - . Proprio per questo un Ryan Adams invidioso, per esempio, apostrofò come “ragazzina” del combo non l’esile batterista di quel che in effetti era un duo, ma piuttosto il suo chitarrista e performer Jack White, in risposta ai legittimi reclami di quest’ultimo perché Adams, ai propri concerti, ne cantava i brani cambiandogli le parole.

Ebbene, in sostanza anche un certo contesto di allora sembrava già rendersi conto che se un disco come Elephant forse non sarebbe mai stato dimenticato, non era fuoco di paglia che il favore del grande pubblico avrebbe consumato altrettanto velocemente. - “Elephant potrebbe essere il miglior disco rock che sia mai stato registrato” – confessò piuttosto lo stesso Adams, rincarando: - “Quel figlio di puttana conosce il rock’n’roll come lo zucchero conosce il gelato”-. E bella scelta - incalzeremmo noi - della strana coppia di Detroit, di separarsi solo pochi anni dopo il vertice più alto della loro carriera. Una dinamica che probabilmente sarebbe stata ormai ben nota alle soglie del nuovo millennio, assodata in quei processi artistici seri dove lo scioglimento, al momento giusto, potrebbe sancirne l’immortalità. Altrimenti l’oblio. Col senno di poi, quei due della Motor City pare abbiano deciso per il verso giusto, e se ciò che dei dischi dopo Elephant forse abbiamo dimenticato, di sicuro non ci siamo scordati questo e quelli che vennero prima, rintracciati a ritroso da una grande parabola ascendente.

Già la scelta di vederli, anni dopo il boom del 2003, quel 7 giugno del 2007 all’Idroscalo di Milano, recava in sé un che di nostalgico a ricordare che forse, la storia, era già stata fatta. Posso dire oggi di aver ragione. Se quel concerto probabilmente non lo ritenni memorabile però, lo furono quei tempi che tanto mi richiama la canzone I Just Don’t Know What To Do With Myself che è la quarta del disco e che neppure è dei White Stripes, perché era di Burt Bacharach, e quel settembre in cui le foglie cadevano (e come se cadevano, dovevo spazzarle dalle strade agli obblighi del Servizio Civile) nell’imminenza di un autunno altrettanto vero come le stagioni, ancor per poco stagioni. Nel presente, come non mai me ne ricordo, e ripeto - “…quando cade una foglia le dico sempre addio” - come diceva Kerouac. E ciao ciao bei soldatini.

Elephant
era uscito nell’aprile di quell’anno, che neppure me n’ero accorto, a un passo dall’agognata laurea, fiero di portare nelle aule accademiche una tesi sul Blues. E basti ascoltare Ball and Biscuit per capirne già il nesso, che quando un amico che ammirava i miei affetti quell’estate mi diede i loro primi dischi, ancora non sapevo che erano i White Stripes nella canzone di un ipnotico video in tv, riff martellante e slide tagliente, proprio quella Seven Nation Army che di Elephant ne è la hit e traccia d’apertura. Ma scoprire che i giovani “fratelli” White avevano dedicato il loro primo omonimo album del 1999 ( …“white-stripes” appunto, come famose caramelle americane alla menta..) a Son House, padre del Delta-Blues, morto a Detroit nel 1988 (ma che rifacevano anche un’aggressiva reinterpretazione della johnsoniana Stop Breakin’ Down già degli Stones in Exile… o di una certa St. James Infirmary Blues) solo bastò all’acquisto di quella novità, congegnata ad arte tra un rock delle ruggini della Città dei Motori e il suo più remoto passato, dispensato in piccole caramelle di blues.

Così, l’Elefante “ruggisce” ancora, in quello spirito che trascina il punk rock della loro metropoli fin nelle torbide acque del Mississippi, accortamente condensato non solo nel più esplicito Detroit-sound di cose come Black Math o Girl, You Have No Faith In Medicine, ma anche nella più accurata ricerca estetica dei colori bianco – rosso - nero o di una registrazione londinese “a togliere”, minimale ma ricercata, apogeo di quello che molti avrebbero definito “low-fi” nel tramite con ciò che già fu di Jon Spencer o Black Keys, ma ancor prima, col precursore blues Hound Dog Taylor. E che in I Want To Be The Boy ... o in You’ve Got Her In Your Pocket lo sublima un po’ nel lato più pop, per un disco vario e generoso, intramontabile per essenzialità e stile.


    



Prosegui, la scelta di: Yuri Susanna