Loudon
Wainwright III Haven't
Got the Blues (Yet) [2014]
La scelta di:
Gianni Zuretti
Quando il direttore,
per festeggiare i vent’anni di Rootshighway, mi
ha chiesto di proporre una recensione di un disco
che mi fosse rimasto impresso nel nuovo millennio,
tra i primi a cui ho pensato c'è stato proprio questo
album dell’artista del North Carolina. Questo lavoro
l’ho ascoltato tanto e periodicamente ripreso proprio
per la sua peculiarità, ma andiamo per gradi. Loudon
Wainwrigth III appare sempre più come il Devoto-Oli
dell’American Music, infatti questo Haven’t Got
The Blues (Yet) del 2014 (ventitreesimo album
di studio, realizzati in quarantaquattro anni di
onesta e coerente carriera), si presenta come un
dizionario ma anche una grammatica tascabile intrisi
del songwriting afferente alla “nostra” musica,
un prontuario da tenere a portata di mano per i
momenti di smarrimento.
Loudon ha uno script corrosivo, non ha mai fatto
sconti, né a se stesso né alla società di cui fa
parte, le sue liriche sulfuree anche in questo caso
si prendono gioco dei mali che stritolano l’essere
umano, dal disfacimento fisico e psichico come la
depressione, il bere, la morte, ma anche di quelli
che attanagliano la società ed il mondo globale.
Sul fronte musicale si accennava alla sua grande
capacità di mescolare le carte da mazzi diversi
e servire una mano senza due carte uguali; così
accade in queste quattordici canzoni per quattordici
generi musicali, declinati con una abilità straordinaria,
al punto che alla fine producono la netta sensazione
di aver ascoltato un disco omogeneo. Usando ancora
la metafora delle carte, l’artista ce le serve diverse
tra loro ma tutte appartenenti allo stesso seme,
insomma, una scala reale. In una intervista dell’epoca
Wainwright III ricordava che molti anni addietro
“un insegnante mi disse che bisognava imparare a
scrivere di ogni cosa, anche di un pezzo di gesso”,
e credo che il nostro lo abbia preso in parola.
Si parte e l’inizio è folgorante con il R’n’R anni
‘50 alla Lieber & Stoller di Brand New Dance,
segue Spaced, tra una Klezmer polka e il
jazz di Sidney Bechet, poi un pezzo delicato e sognante,
In A Hurry, da folksinger a là Phil Ochs,
poi è la volta dell’amato blues, troviamo molto
Dave Van Ronk style in Depression Blues,
seguito dal folk-country-jazz di The Morgue,
mentre Harmless è una folk song che ci porta
dritti al Greenwich dei ’60. In Man & Dog,
con grande sense of humor, Loudon ci racconta, in
una country folk song esilarante, come in una città
odierna quello che dovrebbe essere il migliore amico
dell’uomo diventa un vero problema quando deve uscire
per i suoi servizi. C’è spazio anche per una irish
style song, Harlan County, in cui duetta
la figlia Martha, e per una Christmas Song molto
particolare fin dal titolo, che appare più che esplicativo,
la jazzata I’ll Be Killing You This Christmas.
E canzone dopo canzone l’enciclopedia prosegue sino
alla fine, con almeno altri due momenti di gran
classe: Good & Nature, e la title-track.
La voce di Wainwright è distintiva, molto duttile,
non stanca per un istante e tutto il disco è ricco
di suoni, con i fiati al posto giusto ed ogni genere
di strumento usato con impressionante giustezza.
Loudon Wainwright, capostipite della famiglia più
musicale d’America, è un artigiano “complesso” della
canzone, e imperterrito prosegue per la sua strada,
una route che disegna curve e rettifili diretti
verso territori dove vige la riappacificazione con
la buona musica. Ancora non ho i blues (per ora),
questo lo affermava lui, non so se per noi, con
l’intatto amore per il blues ai tempi del corona
virus, è possibile affermare la stessa cosa.