C’è spesso un
remember nei percorsi di David Crosby, a
partire dal titolo della prima insuperabile prova
solista, fino al documentario sulla sua vita girato
da Cameron Crowe, che invece è cosa recente. Una
trama di rimandi al passato con annesse autocritiche
talvolta impietose, come “Non sono stato capace
di conservare le amicizie”. Per uno che ha sperimentato
gli amori di Laurel Canyon e il trapianto di organi,
la sbornia della Summer of love e svariate paternità
lost and found, il cosiddetto “disco del ritorno”
risulta ancor più decisivo. Perché così viene definito
Croz, il lavoro realizzato dopo due
decenni di eclissi creativa. Viene pubblicato nel
gennaio di uno schizofrenico 2014, partito con il
botto dell’uscita discografica e altrettanto terminato
con il Premio Tenco, ma costretto anche a fare i
conti con l’ennesimo infarto e il conseguente annullamento
del tour. Si tratterà tuttavia di un breve stop,
perché dopo soli due mesi il nostro inaffondabile
artista è di nuovo sul palco. E chi si trovava al
Teatro Sociale di Como nel dicembre di quell’anno
ricorderà, dopo un primo quarto d’ora stentoreo,
il rimescolio emozionale che quel concerto procurò.
Croz è un bel disco. Non appartiene alla
categoria dei come back senili, quelli per cui ci
si deve accontentare di un sentore dell’ispirazione
giovanile. No, Croz è vigoroso e assertivo
fin dal ritratto di copertina, quel bel tondo che
la possiede tutta, insieme alle quattro lettere
rosso fuoco del titolo. E anche se l’epidermide
si è ulteriormente assottigliata e la chioma sembra
un cascame di bambagia, i mustacchi si mantengono
robusti come un marchio di fabbrica e lo sguardo,
quello sguardo, riesce ancora a ghignarsela e a
scrutare lontananze dove, chissà, magari vede il
suo Mayan veleggiare in acque caraibiche. Ti chiedi
allora in quale anfratto raduni le sue nostalgie
e i suoi remember. Ascoltando le undici tracce si
direbbe che li affidi alle accordature aperte della
chitarra, quegli accordi che Wayne Shorter definì
“sospesi” perché creano suspense e poesia irrisolta
e hanno il pregio di lasciar viaggiare l’immaginazione.
Vero è che Shorter si riferiva a Joni Mitchell,
ma l’analogia con Crosby è, concediamocelo, legittima.
Così quando ascoltiamo la traccia Holding on
to Nothing è la struggenza delle diteggiature
aperte a trasportarci indietro all’Era dell’Acquario,
di cui Crosby sarebbe l’ultimo eroe, come assicura
Marco Grompi nella sua aggiornata e documentatissima
biografia; questa è la composizione archetipica
del Crosby più intimo, impreziosita dalla tromba
di Wynton Marsalis. Da sola vale il disco. Davanti
a tanta grazia non puoi non domandarti se davvero
l’autore sia la stessa persona che risulta titolare
di una vita pazzesca. E non soltanto per le note
vicende di salute, capaci da sole di smentire la
letteratura scientifica, ma soprattutto per le derive
giudiziarie, il carcere, le armi, le droghe più
fantasiose e distruttive, l’out of control di alcune
fasi, la terra bruciata e le relazioni pure esse
bruciate. Di bruciare relazioni Crosby non perderà
mai l’abitudine e ne darà prova anche nel periodo
di distribuzione di Croz, quando rilascerà
raffiche di dichiarazioni al cianuro verso i colleghi,
da Neil Young a proposito del divorzio da Pegi,
al pard di sempre Graham Nash.
Ancora oggi, quasi ottuagenario, resta l’impenitente
monello che non sa tenersi lontano dai guai. Eppure
si tratta dello stesso uomo capace di affetti imperituri,
a partire dall’indimenticata Christine strappatagli
da un incidente stradale, fino alla moglie Jan alla
quale telefona (come mostra Crowe all’inizio del
film) appena lasciata la loro casa involandosi verso
un nuovo tour, per confidarle semplicemente: “Ogni
volta che parto mi prende una gran tristezza e tornerei
subito a casa. Incrociamo le dita, perché voglio
ritornare anche stavolta”. Sarà per questo che amiamo
David Crosby? Perché contiene moltitudini, come
disse quel tale? Oppure perché nei suoi testi scrive
cose come “Ogni volto è un capolavoro di solitudine”
e ancora “Immergiti in quel minuto”? La prima sta
nel brano di apertura What’s Broken, la seconda
è incastonata nell’evocativa Slice of Time,
che ha dentro il vento di Haight-Ashbury, lo stesso
che attorcigliava le frange del suo giaccone.
Croz è anche il disco della paternità ritrovata,
il primo lavoro solista realizzato insieme al figlio
James Raymond. Lo accompagnano in sostanza tutti
i CPR, manca soltanto Jeff Pevar, sostituito egregiamente
da Shane Fontayne e Marcus Eaton. E’ firmato proprio
dal figlio uno dei capolavori del disco, The
Clearing e c’è del suo anche in Morning Falling,
che curiosamente potrebbe appartenere al repertorio
dei Radiohead. Croz è infine il disco della rinascita
artistica. Da qui in poi, nell’arco di un lustro,
David licenzierà ben quattro raccolte di inediti,
in una compulsione creativa che trova spiegazione
soltanto nella consapevolezza che i giorni si assottigliano
e non vanno sprecati.
E allora cosa augurare a questo adolescente dalle
mani colonizzate da macchie senili, che sembrano
piuttosto i tatuaggi di un hippie stagionato, se
non destinargli l’incoraggiamento che lui stesso
rivolse ai ragazzi di Occupy Wall Street a Zuccotti
Park? Keep going!