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anthem rock di
Fabio Cerbone (25/07/2012)
"If
you want to hang with us, you've got to grow with us. That's the deal". È questa
consapevolezza di sé, dalle dirette parole di Brian Fallon, a rendere i Gaslight
Anthem una di quelle rock'n'roll band che trasformano se stessi e i propri
seguaci in una sorta di tribù, tracciando un confine preciso tra chi vuole restare
dentro il loro sogno e chi invece ne verrà automaticamente escluso. Che è un po'
come ribadire che il loro approccio resta inevitabilmente romantico e di vecchia
scuola, tra quel turbinio di emozioni e sentimentalismo da strada maestra che
li ha contraddistinti a partire dal grande successo di The
'59 Sound. Croce e deliza di Brian Fallon e soci, questo atteggiamento
è la chiave della loro travolgente immagine di ultimi giustizieri del rock'n'roll
tutto cuore e passione, ma dall'altra parte è anche la zavorra che li trattiene
all'interno di una serie di cliché, schiavi di un immaginario e di un suono che
Handwritten non fa che perpetrare all'infinito.
L'esordio
importante su Mercury, oltre a sancire definitivamente il salto nell'olimpo del
mainstream rock internazionale, è infatti la dimostrazione che nonostante tutte
le dichiarazioni possibili (lo stesso Fallon che si ostina a ribadire quanto The
'59 Sound sia un capitolo chiuso e come ora sia giunto il momento di trovare qualcosa
di altrettanto valido, ma differente…) i Gaslight Anthem continuano a rotolarsi
nello stesso terreno, magari amplificando a dismisura la coralità della loro musica,
attraverso la roboante produzione di Brendan O'Brien. In fondo la mano
di quest'ultimo non sposta radicalmente il senso delle nuove canzoni, lasciandole
semmai scorazzare in libertà nel solito crogiuolo di chitarre punk, sferzante
grungy e iconografia springsteeniana (l'acustica National
Anthem, che avrebbe fatto un figurone fra le umide ballate dark del
progetto Elsie
a firma Horrible Crows), tra sogno americano, speranze e ribellione. Certo, tutto
o quasi in Handwritten suona adesso più enfatico, ambizioso, pronto per l'assalto
al grande pubblico, ma la radice di un singolo come 45,
i plateali cori che accompagnano la title track (e non solo, di cosiddetti singalong
se ne contano davvero troppi nel disco e tutti al limite della banalità), lo scorazzare
di Howl e Desire
scaturiscono tutte da un ceppo comune, quello che era sembrato già stiracchiare
la formula nel pur interessante American
Slang (disco però nel tempo rivelatosi più interlocutorio
del previsto).
Alla resa dei conti quello che non funziona più in Handwritten
è esattamente il punto di forza iniziale della band: il gesto rock ostentato,
la grandeur appassionata, che oggi li avvicina persino ai Pearl Jam (amore mai
nascosto, peraltro) in Keepsake e Too
Much Blood, sorta di coda lunga dell'era grunge, sono caratteristiche
che sigillano i Gaslight Anthem in una teca immutabile. È quell'idea di restare
gli ultimi custodi di una non meglio precisata innocenza rock, quando in verità
tale innocenza si è forse perduta per sempre. Fallon interpreta con il proverbiale
ardore le tensioni della sua generazione, questa volta guardando più dentro
se stesso e copiando meno il gesto altrui, ma la sensazione è che tutto sia stato
già detto e scritto nei dischi precedenti.
NB: Un'edizione deluxe approda
sul mercato con tre bonus tracks, sintomatiche forse della sintesi fra classic
rock americano ed educazione "alternativa" della band. Due infatti le cover illuminanti
scelte per questo piccolo omaggio dei Gaslight Anthem: una irosa, ma tutto sommato
scolastica, Sliver dal repertorio dei Nirvana
e una ossequiosa rivisitazione in chiave elettrica di You
Got Lucky di Tom Petty, sfrondata dei sintetizzatori anni 80.