Dell'animo dicotomico
di Brian Fallon, già leader e deus ex-machina dei Gaslight Anthem, se ne
erano già accorti in tanti. Basti pensare al suo aspetto fisico: faccia da bravo
ragazzo e corpo ricoperto di tatuaggi da duro. Perciò, come egli stesso ha avuto
modo di affermare, non bisogna stupirsi della cupezza di questo nuovo disco, che
segna l'esordio della sigla The Horrible Crowes. È semplicemente l'altra
faccia della medaglia. Lasciato per un attimo da parte il romanticismo e la melodica
irruenza degli album dei Gaslight Anthem (fra i quali almeno uno, The 59's Sound,
pur col suo bagaglio citazionista ed il suo piglio che potrebbe sembrare eccessivamente
sognatore, dovrebbe comparire in ogni collezione che si rispetti), Fallon congeda
per un istante la sua band - che tuttavia fa capolino qua e là lungo tutto lo
scorrere del disco - imbarcando come nuovo compagno di viaggio il chitarrista
e roadie Ian Perkins e sfoderando una scrittura scura e soulful come non
mai. E il risultato è un disco livido e aggrovigliato, sempre in bilico fra sferzanti
distorsioni e meditabonde elegie.
All'ascolto, non è difficile comprendere
il perché Brian Fallon abbia voluto tenere separato, anche nominalmente, questo
suo nuovo progetto da quello targato Gaslight Anthem, nonostante il blocco dei
musicisti (con l'aggiunta di Perkins, appunto) sia più o meno il medesimo. È una
lotta contro i propri fantasmi quella che il leader ingaggia lungo tutto lo scorrere
dell'album, una lotta interiore che pervade tutte le dodici canzoni e che tocca
il proprio climax nel ruggito delle chitarre elettriche di
Mary Ann, con la voce di Fallon che debutta urlando "Guarda fuori,
l'uragano sta arrivando/L'acqua è avvelenata e tutti ti mostrano i denti", per
poi sciogliersi nell'hard gospel del bridge che, nonostante quel "Jesus gonna
be here soon" rubato a Tom Waits, pare solo l'eco di una promessa non mantenuta.
Ma
è tutto il disco ad essere attraversato da una linea scura, con il leader che
sfodera una scrittura molto più scheletrica che in passato (Sugar
e Behold the Hurricane recano non poche affinità
con i lavori dei National, con i quali Fallon condivide l'amore viscerale per
Springsteen e Cohen), salvo poi talvolta intarsiare le sue canzoni di soul (I
Witnessed a Crime) fino ad arrivare alle coloriture quasi sinfoniche
di Go tell Everybody e Blood
Loss. Ma è con il terzetto che allinea Ladykiller
(un pezzo che cita i migliori U2 senza tuttavia risultare emulativo né pleonastico),
Crush (stupenda cavalcata rock) e la già
citata Mary Ann che il disco tocca le sue vette più alte, con la voce che, lungi
dall'essere tecnicamente perfetta, si sfalda, grida, ruggisce e sembra consumarsi
in ogni singolo pezzo e ciononostante riesce a toccare corde emotive impensabili.
Chissà ora cosa passerà nella mente di Brian Fallon, che nell'ultimo anno si è
tolto la soddisfazione di duettare con Springsteen e di assurgere al ruolo di
rocker di culto. Chissà se questo progetto, chiuso il tour che comincia in questi
giorni, passerà in archivio o se Elsie avrà un successore. Nel frattempo,
pur continuando a seguire le irrequietezze del leader, meglio godersi questo disco
anche se, attenzione, non è opera per tutte le stagioni. (Gabriele Gatto)