The
Gaslight Anthem
American Standard
[Side
One Dummy/ Rude records 2010]
E' tutto vero, quel che avete letto su questo disco. E' meno spontaneo, meno
irruento, meno contagioso e, diciamolo pure, meno riuscito dei due che l'hanno
preceduto e che hanno fatto dei Gaslight Anthem del New Jersey una specie
di great white wonder per tutti i romantici del rock'n'roll. Se il debutto
Sink Or Swim (2007) era stato una scarica irresistibile di energia punk, namedropping
e furori giovanili, e The
'59 Sound ne aveva trasformato le caratteristiche in un romanzo lirico,
cinematografico e springsteeniano sui ricordi e sugli amori di una gioventù alle
prese con un tracollo emotivo, con l'abbandono alla nostalgia e col rifiuto di
una realtà di ordinario e quotidiano squallore, American Slang
è l'album con cui Brian Fallon (voce e chitarra), Alex Levine (basso), Ben Horowitz
(tamburi) e Alex Rosamilia (chitarra) fanno i conti con quanto realizzato sino
ad oggi, talvolta rivistandolo e talvolta autocitandosi, talvolta sorpassandolo
e talvolta rifugiandosi in vecchie certezze. Del resto, American Slang non poteva
e non doveva essere un lavoro denso di morte e rimpianti com'era stato The '59
Sound, disco letteralmente imbevuto di un tale carico di malinconia da sfiorare
dolori irrespirabili.
Quello si concludeva con gli adolescenti tristi
e penosamente innocenti della maestosa rock-ballad elettrica The Backseat, questo
si apre col ringhiare stonesiano della title-track, dove i nostri si rivolgono
al passato con rabbia inusitata, e rincara la dose con la tempesta punk-rock di
una travolgente Old Haunts ("vecchie conoscenze")
che invita a "non cantare le canzoni sui vecchi tempi / quei giorni sono passati
e dovresti lasciarli andar via". Ed è giusto così, in fondo: è giusto tentare
qualche esperimento sulla scia dell'epos atmosferico che fu degli U2 (ci sono
le sei corde effettate della title-track, ma pure il gospel ambientale della conclusiva,
bellissima We Did It When We Where Young)
o persino strizzare l'occhio a Paul Simon nella deliziosa The
Diamond Church Street Choir, doo-wop venato di reggae che tra uno schiocco
di dita e l'altro si trasforma nella "solita", imprescindibile baraonda rockista.
American Slang, insomma, è quello che i professionisti della critica
definirebbero, a ragione, un disco di passaggio. Io, che se mi qualificassi professionista
insulterei l'intera categoria, posso permettermi il lusso di trovarlo in ogni
caso irresistibile, poiché davvero non sono in grado di respingere l'assalto urticante
della stupenda Orphans (in pratica, Billy
Joel suonato da una J. Geils Band particolarmente sbronza) e la fede nel rock'n'roll
di un cantante che ha ancora il coraggio di gridare nel microfono versi come "ti
ho dato il fuoco della mia gioventù e il trionfo dei miei nemici / ti ho dato
tutto il sangue e la verità delle ferite che mi hanno lasciato addosso" senza
scoppiare a ridere. Ascoltate il rock'n'roll a rotta di collo di Stay
Lucky da qualche parte tra Bruce Springsteen e i Social Distortion.
Il volume di fuoco di una Boxer che incrocia
Tom Petty e i Clash. Il sentimentalismo arruffato e stradaiolo della sublime The
Queen Of Lower Chelsea. Ascoltatele, e magari sarete d'accordo con
me: American Slang è un disco importante, per i Gaslight Anthem,
perchè d'ora in poi dovranno decidere se abbracciare in modo definitivo il rock
americano più classico (che qui fa capolino diverse volte) o recuperare la febbrile
grinta punk e la tracimante velocità degli esordi (che qui non sono certo scomparse,
anzi).
American Slang è un disco importante, per noi, perché ci permette
di avere di nuovo tra i piedi la rock'n'roll band più trascinante, selvaggia e
adorabile degli ultimi dieci anni. Garantito. (Gianfranco Callieri)