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rights songs for 2000s
di Fabio Cerbone (01/03/2019)
Quattro artiste, quattro
donne orgogliose delle loro origini e del significato che tutto ciò si
porta appresso: cantano per le sorelle che non hanno avuto voce e speranza,
donne schiave che alla condizione di oppressione hanno dovuto sommare
quella di genere. Rapite, violate, private dei loro affetti più intimi
e della stessa dignità femminile, la loro storia è stata emerginata da
sempre, anche all’interno del discorso civile americano. Songs of
Our Native Daughters è un incontro cercato e costruito con lucidità
artistica da Rhiannon Giddens, Leyla McCalla, Allison Russell e Amythyst
Kiah, un’occasione unica per esprimere sentimenti che aspettavano di essere
messi in musica e che hanno consegnato una nuova identità alle stesse
protagoniste.
Questa consapevolezza anima le intenzioni di tredici ballate per lo più
scritte di proprio pugno, ma che possiedono un cuore antico, ispirate
da stralci di poesia, canti ancestrali, figure dimenticate del folklore,
composte in gran parte basandosi sul ruolo fondamentale del banjo (tutte
e quattro lo padroneggiano), come a riverdicarne le origini africane.
Il disco, non a caso, porta il sigillo della Smithsonian Folkways e si
inserisce in una serie di registrazioni definite “African American Legacy
Recordings”, sottolineandone la valenza culturale, che tuttavia non deve
essere giudicata come una pedante lezione di storia. Qui battono una musica
viva, una preparazione indiscutibile e un incantesimo che si genera dall’intreccio
delle singole autrici: Rhiannon
Giddens e Leyla
McCalla si sono già frequentate nei Carolina Chocolate Drops,
prima di intraprendere le carriere soliste, Allison Russell arriva dal
recente successo con i Birds
of Chicago ed è stata animatrice delle Po’ Girl, Amythyst Kiah
è invece la più giovane e sorprendente (fermatevi ad ascoltarla nel moto
di ingiustizia di Blood and Bones, quando canta “One brother white,
the other black One brother loved, the other strapped”) e ne sentiremo
ancora parlare.
È quest’ultima ad introdurre il racconto attraverso il timbro r&b caloroso
di Black Myself, tra gli episodi più
elettrici di un lavoro altrimenti votato ad una dimensione folk blues,
roots nel gesto e nel portamento (Lavi Difisil di Leyla McCalla,
in un mix di lingua creola e inglese). È già un mezzo miracolo quando
le voci si muovono all’unisono e con forza rivendicano I’m black myself,
versi ispirati dall’artista di hill country blues Sid Hemphill. Il ponte
è gettato verso l’attualità del movimento "Black Lives Matter",
perché sia chiaro a tutti che Songs of Our Native Daughters fa emergere
la brutalità dell’esperienza storica dello schiavismo (Quasheba,
Quasheba, schiava proveniente dal Ghana e antenata della famiglia
di Allison Russell), ma vuole servire qui e oggi, per riaffermare che
la “questione razziale” non è risolta, e men che meno dal punto di vista,
persino più discriminato, delle donne. La danza di Moon Meets the Sun
cambia registro e si muove su linee che sembrano evocare direttamente
Mama Africa (che ritorna nella scelta dell’unica cover presente, Slave
Driver di Bob Marley), mentre Barbados è una colonna
sonora per voce recitata, banjo e percussioni che incontra le parole del
poeta inglese William Cowper.
Dirk Powell, già collaboratore della Giddens, accarezza l’espressività
delle quattro artiste aggiungendo poche essenziali colorazioni, una sezione
ritmica quando occorre, qualche timido intervento alla chitarra elettrica
e poco più: la produzione curata nel suo studio di Breaux Bridge in Louisiana
dunque risalta soprattutto il canto e punta i riflettori sul banjo. Il
tono si fa rurale nella filastrocca di Better
Git Yer Learnin’, derivata da un antico spartito per i cosiddetti
“minstrel shows” di metà Ottocento, così come nell’angelica I Knew
I Could Fly, dedicata alla figura di Etta Baker, esponente del Piedmont
blues che incise soltanto da donna matura, dopo che per una vita il marito
le impedì di esibirsi; e altrettanto bucolica si eleva la melodia per
fiddle e banjo di Polly Ann’s Hammer,
rilettura della leggenda di John Henry vista con gli occhi della moglie.
Mama’s Cryin’ Long è puro motivo da campo di lavoro, solamente
le voci e il battito delle mani a disotterrare la tragedia di una madre
schiava, raccontata dalla prospettiva del figlioletto: stuprata dal padrone,
ha però reagito uccidendolo con un coltello.
E nonostante tutto questo dolore, questa esclusione, c’è ancora luce,
e gioia, e dignità: Music and Joy, appunto, per Giddens, McCalla,
Russell e Kiah, che sentono di non essere più sole (You’re
Not Alone l’accesa ballata di chiusura) di fronte all’opera
di resilienza a opposizione delle loro "native daughters".