Se le frontiere del linguaggio folk hanno allargato verso
l’ignoto i loro confini e se l’orizzonte della musica tradizionale ha
acquisito un nuovo senso del mistero, persino una certa inedita sacralità,
lo si deve molto a questi quattro ragazzi irlandesi, senza tema di smentite
uno dei migliori “incidenti di percorso” che siano accaduti in questi
anni al mondo della cosiddetta musica alternativa.
I Lankum ne fanno parte per biografia personale, approccio e visione,
anche se le loro gambe poggiano sulle spalle dei giganti del passato,
su quel patrimonio di ballate e ancestrali folk song che il loro repertorio
evoca di continuo. Qui però non c’è traccia di agiografia, né tanto meno
di puro gesto conservatore, tutt’altro, perché attraverso quattro album
di studio (gli esordi come The Lynched, quindi il cambio di nome e la
firma per la Rough Trade, con il definitivo decollo artistico) la band
irlandese ha forzato i limiti, ha sfondato barriere invalicabili, mettendo
in comunicazione antico e moderno attraverso canzoni dal tono marziale,
dense e scure, lì dove l’irish tradition viene decostruita in movimenti
circolari di drone music e psichedelia, di irruenza rock mascherata e
pura avanguardia sonora. Stampa e pubblico hanno capito e apprezzato,
nonostante le “difficoltà” di una proposta così estrema e destabilizzante,
e sono arrivati i riconoscimenti, i premi e gli “album dell’anno”. Gli
stessi che hanno probabilmente indotto i Lankum a sfruttare l’onda dell’entusiasmo,
così come a chiudere il cerchio, con una sorta di celebrazione delle conquiste
sin qui raggiunte, grazie al classico disco dal vivo.
Live in Dublin è tutto giocato fra le mura di casa, tratto da
tre spettacoli sold out, tra il 29 e il 31 maggio dello scorso anno, presso
la sala concerti Vicar Street della capitale irlandese. Il pubblico è
dalla loro parte, la musica si fa largo con la stessa vibrante impenetrabilità
e consistenza delle opere di studio. In queste ultime era presente forse
più libertà di sperimentazione, letteralmente abbandonati al magma sonoro,
ma anche nella versione live i Lankum non cedono di un millimetro dal
fascino oscuro che ammanta il loro gesto musicale, offrendo nuove, ardite
prospettive a strumenti come concertina, harmonium, uilleann pipes e tin
whistle.
Solo nove brani nell’edizione digitale (che si accorciano addirittura
a sei in quella stampata su vinile), ma con le dilatazioni tipiche della
band, tra una The Wild Rover che apre
il rito collettivo superando gli undici minuti di durata e una spettrale
Go Dig My Grave, cuore pulsante del
disco, che sfiora i dodici, entrambe sospinte dalla voce magnetica di
Radie Peat, tuono nel tuono all’interno delle bordate sonore dei Lankum.
La parte del leone, gioco forza, la fanno i brani tratti dagli ultimi
due album, i celebrati The Livelong
Day e False
Lankum, ma c’è spazio anche per un inedito (quanto meno su disco)
come The Rocky Road to Dublin, danza tradizionale che la formazione
irlandese rende straniante e onirica con lo stile vocale degli interpreti,
Radie Peat insieme ai fratelli e polistrumentisti Ian e Daragh Lynch,
fondatori dei Lankum, oltre al violinista (ma anche molto altro) Cormac
Mac Diarmada.
Nel percorso selezionato dai tre show del Live in Dublin anche
un paio di intermezzi strumentali, perfettamente incastonati nell'ideaologia
sonora del gruppo, a varcare gli stridori sinistri di The Pride of
Pedravore e l’eternità evocata da Fugue, brani che trasmutano
rispettivamente nell’albeggiante dolcezza folkie di On a Monday Morning
e nella travolgente giga finale di Bear Creek,
istantanea della "potenza folk" che la band è in grado
di sprigionare con la materia musicale a disposizione.