Alternanza di buio e luce, spesso senza soluzioni
di continuità tra un brano e l’altro, come si trattasse di un unico misterioso
magnete musicale, il quarto album del quartetto irlandese ribadisce l’integrità
artistica e l’inflessibile ricerca sonora che li guida fin dai loro esordi.
Neppure il maggiore successo di pubblico e di critica (un RTE Choice Music
Prize nel 2020, sorta di Grammy d’Irlanda) del precedente The
Livelong Day, di fatto l’album della svolta internazionale
per il gruppo, ha scalfito la superficie granitica del loro suono. Viaggio
onirico e scuro compiuto sul corpo vivo della tradizione folk, quella
dei Lankum è una proposta artistica che spinge la cosiddetta tradizione
ai limiti, ne mette alla prova la resistenza nel tempo e nella storia,
per restituirne un’immagine per nulla artefatta e museale, semmai viva,
disturbante, in continuo conflitto con il presente.
Nelle note di presentazione di False Lankum (anche il titolo
sembra giocare su alcune “contraddizioni” insite nella loro arte sperimentale)
si parla di un superamento o distacco dal passato folk: ci permettiamo
di dissentire, perché l’introduzione con gli otto minuti stranianti di
Go Dig My Grave, rielaborazione di
una antica murder ballad “incentrata sull’emozione del lutto”, come afferma
la stessa voce femminile della band, Radie Peat, è invece la dimostrazione
di un costante rapporto con l’eredità folk, tanto da portare in dote otto
traditional su dieci episodi totali, a comporre la scaletta dell’album.
Quello che interessa ai fratelli Ian e Daragh Lynch, insieme alla citata
Peat e Cormac MacDiarmada è piuttosto ritrovare in quel lascito un senso
di arcano ed eternità che possa rendere la loro musica fuori del tempo.
Ci riescono con un’opera persino più “alienante” e a tratti impenetrabile
della precedente, non facendo sconti a nessuno.
Non bastasse l’incedere di Go Dig My Grave e la sua straniante
coda finale, si aggiungono gli avvicendamenti fra delicatezze acustiche
e drone music, cacofonie sinistre e malinconie folk che compongono l’andatura
austera dell’intero False Lakum, dalla rarefazione di Clear
Away in the Morning, ballata da alba nella radura irlandese, al trascinante
irish reel per concertine e violino di Master
Crowley’s. Due strumentali, Fugue I e II, tengono
alta la tensione e confermano il tono di avanguardia che sprona i Lankum
a impossessarsi con ferocia della memoria musicale su cui proiettano le
loro interpretazioni. I momenti di luminosità a cui si accennava in apertura
servono proprio a stemperare questa “crudeltà” sonora, qui magicamente
riassunti nelle riletture di Newcastle e
Lord Abore and Mary Flynn, tra le più evocative tracce, anche
da un punto di vista vocale, nel rimpallo tra i fratelli Lynch e Radie
Peat, mentre l’altro volto del gruppo è rappresentato dai tre tempi in
cui appare suddivisa la marcia funerea di The
New York Trader, trafitta da uno spiazzante lavorio di strumenti
tradizionali e voci, e più ancora dai soli due episodi originali firmati
dai Lankum, Netta Persus e gli oltre dodici minuti della chiusura
con The Turn, autentico tour de force che si dispiega in un primo
spirituale canto, poi gradualmente sfaldato in una coda rumoristica che
scuote l’ascolto fin quasi a un senso di ripulsa.
Pochissime band attualmente sembrano agire con questa intensità, anche
provocatoria, sulla materia folk. Indispensabili.