Nati a Dublino alla metà
del decennio su iniziativa dei fratelli Ian e Daragh Lynch, i Lankum
sono una delle creature più affascinanti che la musica folk abbia regalato
di recente. Il loro approccio alla materia è tradizionale e rivoluzionario
al tempo stesso, recuperano antiche ballad della cultura irlandese per
offrirgli nuovi significati, nei suoni e nelle atmosfere. Qualcuno li
ha superficialmente accostati per spirito al gesto punk dei connazionali
Pogues, ma state attenti perché The Livelong Day, il secondo
album che la band incide per la Rough Trade, è ben lontano dalla trascinante
energia e festosità che sprigionava il gruppo di Shane McGowan. Qui aleggia
semmai una latente oscurità e anche un certo senso di mistero e tensione,
che contaminano le radici musicali della loro terra con elementi di psichedelia,
di cosiddetta drone music, ripetitiva ed enigmatica, mentre l’utilizzo
delle voci è spesso l’elemento più etereo e cristallino all’interno delle
loro melodie.
Una vera sorpresa, a patto di aprirsi con curiosità a questi brani, che
sono spesso dilatati nella durata, con note e accordi circolari e ossessivi,
come se ci trovassimo davanti a dei giovani Velvet Underground cresciuti
in un quartiere di Dublino invece che a New York. I Lankum sembrano chiederci
un ascolto attento, se siamo disposti a farci trascinare in quei luoghi
segreti, oserei dire sacri, che riescono ad evocare attraverso la loro
musica. Originariamente denominati The Lynched, da un semplice gioco di
parole con i loro cognomi, sigla sotto la quale hanno inciso un paio di
lavori indipendenti, Ian e Daragh hanno poi cambiato nell’attuale Lankum
(in onore di una famosa ballata del cantastorie irlandese John Reilly),
stabilizzandosi nel quartetto con Cormac MacDiarmada e Radie Peat, quest’ultima
anche seconda voce solista. I dieci minuti della cavalcata The
Wild Rover, storico brano della tradizione irish, ci raccontano
parecchio del fascino sinistro di un disco come The Livelong Day.
L’arrangiamento ricreato dai Lankum è un capolavoro, forse già il vertice
dell’album, e ci trascina in un turbine di melodie vocali e di suoni arcaici
dettati dall’uso non convenzionale di Uilleann pipes, harmonion, concertina,
violino e percussioni, quelli che si riveleranno poi gli strumenti più
caratterizzanti del modo di approcciare la materia folk da parte della
band.
Il timbro vocale di Radie Peat, un incantesimo, richiama le grandi protagoniste
del genere, ma ha peculiarità tutte sue, come d’altronde gli stessi Lankum,
che per The Livelong Day mettono in sequenza otto brani, di cui
soltanto due originali e il resto pescato dalla memoria nazionale, con
un meticoloso lavoro di ricerca. Dolcissima e straniante è la melodia
di The Young People, uno dei due episodi
autografi insieme al finale di Haunting the Wren,
quest’ultima una ballata dai rintocchi letargici e dal senso epico, come
buona parte di queste canzoni. Di raccordo troviamo anche alcuni strumentali,
che si stingono in una musica quasi onirica, come accade in Ode to
Lullaby, traccia che si risolve senza soluzione di continuità nella
successiva Bear Creek, vera e propria giga irlandese che monta
di intensità nell’impazzare del violino e della concertina. Katie
Cruel, ancora Radie Peat al canto, è la più sinistra canzone
dell’album, che restituisce veramente qualcosa di arcano, e bene si accosta
allo strumentale The Pride of Petravore, con le sue leggere dissonanze
e l’andatura “mostruosa” e punkeggiante che pare deragliare nel finale.
Ma proprio quando i Lankum sembrano averti stretto alla gola in una morsa,
ecco fare da contraltare la semplicità quasi fanciullesca di certe antiche
melodie, quella che emerge per esempio in The Dark Eyed Gipsy.
L’intero disco è ammantato come da una sorta di flusso di coscienza musicale:
i Lankum restano sospesi fra passato e presente, attualissimi però nel
riappropiarsi del linguaggio folk e in grado di restituircelo ancora vitale.