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Nero Kane
Of Knowledge and Revelation
[Subsound Records 2022]


File Under: Spiritual Trip

nerokane.com

di Nicola Gervasini

Continua l’epica avventura di Nero Kane nel suo immaginario dark-western che già vi avevamo presentato con gli album precedenti (Love In A Dying World del 2018 e Tales of Faith and Lunacy del 2022) Al solito accompagnato dalle tastiere di Samantha Stella (regista anche dei suoi video), il nuovo disco è stato registrato con la collaborazione di Matteo Bordin, unico musicista aggiunto per ricreare il loro tipico suono southern-gothic che unisce la lezione dark/new wave a quella del gothic-country. Dopo un incipit con la citazione dei versi tratti da The Flowing Light of the Godhead del mistico del 1200 Mechthild Von Magdeburg, dai cui versi deriva anche il titolo dell’album, il disco si butta subito nel desertico onirico del singolo Lady Of Sorrow, seguita dalla spiritata declamazione di Burn the Faith, affidata alla voce di Samantha Stella. Lo spirito non cambia anche in Vale of The Rest, stavolta cantata a due voci, basata sull’impasto di chitarre e tastiere, con testi che scavano nell’anima a cercare quei demoni e angeli che popolano anche The Pale Kingdom (di nuovo con la Stella alla prima voce, in un gioco di alternanza utile ad evitare il rischio di ripetitività che una musica così priva di ritmo può inevitabilmente incontrare). Fino a metà, infatti, l’album getta l’ascoltatore in una dimensione lugubremente sognante, finché The End, The Beginning, The Eternal non trova anche una bella melodia pur non cambiando toni, come anche il dialogo su tappeto di organo di Lacrimi Si Sfinti, sorta di finale lirico prima di due strumentali (o quasi) come The River Of Light e Sola Gratia, che insistono sulle atmosfere sonore a loro care. Con Of Knowledge and Revelation Nero Kane sembra non voler introdurre elementi di novità alla sua personalissima formula espressiva, ma i passi avanti in termini di maturità anche in sede di produzione sono evidenti.


 


Dead Cat in a Bag
We've Been Through
[Gusstaff Records 2022]


File Under: dark folk

deadcatinabag.org

di Nicola Gervasini

Nuovo album per i Dead Cat in a Bag, creatura discografica di Luca "Swanz" Andriolo che già avevamo apprezzato nel 2018 con il precedente album Sad Dolls and Furious Flowers, e oggi nome che rappresenta un trio completato da Scardanelli e Andrea Bertola, tutti impegnati autosufficienti polistrumentisti. We’Ve Been Through prosegue l’idea di dark-folk della band, profondamente debitore di alcuni nomi che facilmente vengono in mente in alcune occasioni come Tom Waits (l’iniziale The Cat Is Dead) o David Eugene Edwards (16 Horsepower, Woven Hand) in Evil Plan, ma di fatto ormai un personale mix di suoni e influenze. Between Day and Night, per esempio, ha un incedere suggestivo quasi da soundtrack (tanto che ricorda un po’ i lavori di Angelo Badalamenti più che il da loro citato Morricone), il tradizionale Wayfaring Stranger diventa quasi un blues in una versione davvero particolare, così come l’altra cover di Hunter’s Lullaby di Leonard Cohen (poteva mancare?) assume dei toni gotici, così come From Here piacerebbe molto a Nick Cave. Nel finale Fiddller, The Ship is Sinking, aumenta il ritmo con il suo mood balcanico, prima dell’ispirata chiusura della title-track con la bella tromba di Enrico Farnedi in evidenza. Notevole anche il duetto con la voce di Alessandra K Soro (vocalist impegnata solitamente nel mondo del jazz) di Duet For Nothing, e non è la sola collaborazione visto che la lista dei session-men è lunga e prevede nomi altisonanti come Gianni Moroccolo (Litfiba, CSI) e Liam McKahey dei Cousteau, al quale viene affidata la parte vocale di Lost Friends, fino ai tanti amici italiani presenti (tra gli altri, Michele Anelli, Andrea Tarquini, il sax di Giuseppe Gulisano) in quello che lo stesso Swanz definisce un disco corale, in cui pesa molto anche la mano del produttore Carlo Barbagallo, anche chitarrista aggiunto della band. Un gran bel ritorno.


     


Acid Jack Flashed
The Devil’s Charm
[Acid Jack Flashed 2022]


File Under: Pop Song ‘69

facebook.com/acidjackflashed

di Nicola Gervasini

Giacomo Premoli, in arte Acid Jack Flashed, è uno di quei personaggi che anima ormai da anni la scena indipendente italiana, scrivendo e producendo musica da Varese fin dagli anni Novanta (uno dei suoi primi esordi sul palco fu in apertura di un concerto di Willie Nile e Eric Andersen), anche se è solo negli anni dieci che ha iniziato una produzione discografica più che regolare. Il suo nuovo album The Devil’s Charm esce in auto-produzione e distribuzione, scelta dettata anche dal fatto che purtroppo oggi sono poche le etichette che possono garantire un vero e proficuo salto di qualità in termini di promozione. Per cui al grido di “chi fa da sé, fa per tre”, o anzi di “meglio due che una folla”, visto che il disco è interamente suonato e prodotto assieme al fido compare Daniele Danza, “partner in crime” in una credibilissima rivisitazione di un suono psichedelico puramente sixties, una operazione se vogliamo nostalgica, che fa però tesoro di parecchie lezioni anche di band di anni successivi (per esempio Creeps o Fleshtones). I brani poi erano già stati registrati più di vent’anni fa per un album autoprodotto che Premoli ha giustamente ritenuto degno di una versione più aggiornata. Il psycho-blues della title-track che apre è già più che esplicativo dello stile con il suo piano un po’ mefistofelico e chitarre acide in libertà, ma già la successiva Strange Girl With Sad Eyes evoca il pop più lisergico degli anni 60 con il suo campionario di Mellotron e Harpsichord, o i toni più garage alla 13th Floor Elevators di Promises, le orchestrazioni di Cold Cold Winter. I numeri da primissimi Pink Floyd di The Space Lovers come un novello Robyn Hitchcock (che apprezzerebbe la leggera Good To Be Alright) Acid Jack Flashed sguazza in tutti i suoni che hanno reso grande la primissima stagione del rock e che in fin dei conti non hanno mai smesso di indicare la via a tutto quello che verrà dopo.


 


Andrea Giannoni
At Home Again
[Andrea Giannoni 2022]


File Under: deep blues

facebook.com/andrea.giannoni.3

di Marco Denti

Il blues scritto sulla pelle, echi che vengono dal profondo nella notte, e si trasformano in canzoni dense e vitali, sporche e genuine, proprio come è la vita, e come è la natura di Andrea Giannoni. La pressione di At Home Again resta inalterata per tutto il corso dei dieci brani, sia quando attorno alla voce e alle armoniche di Andrea Giannoni si mobilitano piano e organo (Henry Carpaneto), tromba (Andrea “Lips” Paganetto) e chitarre (Davide “Youngblood” Serini), sia quando il sound si fa via via più rarefatto. I suoni sono sempre densi e avvolgenti, come intensi e potenti sono i blues di Andrea Giannoni, compresi quelli scritti in simbiosi con Monica Faridone, una componente fondamentale di At Home Again. Non sono di meno gli strumentali (Take It Easy o Born In A Wrong Place) che sono altrettanto sanguigni, anche senza il tormento delle parole, che poi costituiscono l’elemento trascinante e stridente che si manifesta in tutta la sua forza in Little Boy of Mine, una sorta di gospel spiritato, per sola voce e armonica, nella scarna This Girl Like The Blues e più di tutto in Black Angel, presente sia nello snodo iniziale e che nella versione conclusiva, quasi a chiudere un cerchio e a completare un rito, un esorcismo per tutti i “fantasmi” che inseguono Andrea Giannoni e, per estensione, ogni bluesman che si rispetti. L’unica concessione al personalissimo flusso di coscienza è I’m So Lonesome I Could Cry, omaggio a un altro grande spettro, quello di Hank Williams che infatti è cantata da Bobby Soul, un’eccezione che, in sé, conferma l’essenza spiritata di At Home Again.

 


<Credits>