Tra i tanti pregiudizi che colpiscono Torino c'è quello di essere una città neanche
triste, ma proprio tetra, luogo ideale per inscenare film horror, notizie di cronaca
nera o per dare corpo a manifestazioni artistiche dedicate alla depressione. Luoghi
comuni ovviamente, nella realtà c'è di che gioire in quella città, ma sarebbe
per noi più facile trovare una forte "torinesità" nella vena "dark" esibita nelle
copertine e nel sound con cui i Dead Cat in a Bag maneggiano ormai da anni
una materia musicale ben poco italiana. Ma l'operazione che Luca "Swanz" Andriolo
e compagni propongono con questo Sad Dolls and Furious Flowers è
una sorta di viaggio a ritroso, che porta a casa riferimenti internazionali evidenti
(il Nick Cave così chiaramente richiamato in Thirsty
o il folk gotico alla Tindersticks ritrovabile nel gioco tra tromba e archi di
Not A Promise) o a volte solo vagheggiati (i Calexico facilmente citabili
ascoltando l'intro Sad Dolls
o i Pogues di Waste), dando a Torino una nuova colonna sonora per
esaltare la sua affascinate sabauda malinconia.
Giunti ormai al terzo
album dopo Lost Bags del 2011 e Late For A Song del 2014, i Dead Cat in a Bag
sono nel frattempo diventati un trio che oltre ad Andriolo (voce, banjo, chitarra,
mandolino, balalaika, melodeon e chumbus) vede impegnati Andrea Bertola (violino,
percussioni, campionamenti, cori) e Scardanelli (fisarmonica, piano, zaino-batteria,
sega musicale, tromba, mandolino, cori), oltre ad alcuni amici a supporto. Il
loro mondo musicale in bianco e nero è fatto di voci che non si dovrebbero sentire
perché trafitte da violini e fisarmoniche demoniache (The
Voice You Shouldn't Hear) o posti che non si dovrebbero visitare perché
immersi in un gothic-country alla 16 Horsepower (The
Place You Shouldn't Go), e brani che spaziano negli stili più disparati,
tra il Jacques Brel cercato in Le Vent, e i Velvet Underground trovati
in una convincente cover di Venus In Furs, fino allo Scott Walker immaginato
nel teatrale duello tra voce e violino di The Clouds.
Il tutto
condizionato sempre dalla vocalità di Andriolo, spesso forzata a cercare sfumature
che citano via via Tom Waits, Hugo Race o il Leonard Cohen ridotto ad un sussurro
dei suoi ultimi dischi. Ma sul tutto regna un pensiero musicale che cerca e trova
quei luoghi dove la tradizione americana ha riscoperto le sue mille anime antiche
e europee, sentieri dove negli anni si sono incrociate band apparentemente lontane
come gli Handsome Family o i Gallon Drunk ad esempio, dove perfino gli scheletri
messicani di Mexican Skeletons finiscono a ballare su un sound che pare
quasi musica balcanica.
Inutile definirli dunque, i Dead Cat in a Bag
sono una delle ormai (fortunatamente) numerose realtà italiane che non hanno dovuto
imparare un suono perché con quello ci sono nati e cresciuti. E si sente.