Non è mai finito il viaggio
dell’italiano Nero Kane attraverso i misteri della provincia
americana, e se con il precedente Love
In A Dying World, che vi avevamo presentato due
anni fa, il viaggio attraversava i deserti americani anche come
colonna sonora di un interessante cortometraggio, stavolta la
tappa della sua profonda ricerca spirituale, pur partendo comunque
da una tradizione d’oltreoceano, approda nell’Europa antica dei
mistici cristiani (Metchild) e delle cupe atmosfere medievali
che l’inserimento degli archi (il violinista è Nicola Manzan dei
Bologna Violenta) ha portato nella sua musica. In ogni caso la
formula resta quel suo tipico e originalissimo approccio decisamente
psichedelico alla materia folk, qualcosa che ha rimandi all’America
raccontata cinquant’anni fa dai Pearl Before Swine, ma venati
della religiosità pagana dei testi, di vere e proprie preghiere
gospel come Mary Of Silence e Magdalene, e passati
al setaccio poi dall’oscurità del country di Johnny Cash (I
Believe e Lost Was The Road) o dell’arte del racconto
noir in musica creato da Nick Cave e poi da PJ Harvey nel corso
del tempo (Angelene’s Desert). Lo accompagna, come al solito,
la poliedrica Samantha Stella alla voce e alle tastiere, che,
oltre ad essere l’autrice di alcuni dei testi, è anche la regista
dei suoi suggestivi video, sempre in bilico tra sacro e profano.
Lo è ad esempio anche il bianco e nero scelto per il lancio del
nuovo singolo Lord Won’t Come In, dichiarato omaggio al
regista Bela Tarr. In ogni caso ancora una volta un prodotto multimediale
che andrebbe apprezzato anche nelle loro performances dal vivo.
Il disco, prodotto da Matt Bordin, è distribuito anche nelle versioni
in vinile (Nasoni Records) e musicassetta (Anacortes Records).
Giovane e poliedrico (ha al suo attivo anche
un libro di poesie), il trentino Odla approda alla Snowdonia
(l’etichetta dei Maisie) beneficiando della loro passione per
i progetti musicali nati con spirito letterario (e spesso accompagnanti
da veri e propri libri) per il suo primo album Oltre il
Cielo Alberato. Si tratta di un concept che prova a tracciare
una linea parallela tra la storia personale dell’artista, fatta
di tutte le problematiche in cui può facilmente incappare un ventisettenne
italiano di oggi (depressione, delusioni amorose, frustrazione
da lavoro precario e poca fiducia nel futuro) e la vita (questa
invece immaginaria) di Hassan, bambino in perenne fuga dalla guerra,
per cui la speranza rappresenta non più un lusso, ma una necessità.
Nessun intento politico o polemico però nel confronto, ma solo
una ricerca di un tratto comune esistenziale da esprimere nei
versi di undici brani che si rifanno a quella nuova tradizione
di cantautorato italiano con De Andrè e Fossati nel cuore, comunque
figlia della storia scena indipendente italiana di questi anni
2000. Il suono, realizzato in collaborazione con il produttore
roveretano V.Edo, è scarno e acustico, ma non mancano i diversivi
come la quasi-tarantella di I Pescatori di Lete, impreziosita
dal mandolino siciliano di Davide Prezzo. Diviso tra pezzi lenti
e oscuri come Il Sogno di Una Madre ad altri anche più
scanzonati e cantabili come Al Fuoco di Luna, Odla lavora
bene anche sugli arrangiamenti, da quelli più da folk psichedelico
anni 60 come All’Alba Una Terra a quelli con taglio più
da canzone popolare (San Giuseppe da Copertino), anche
se ovunque la base resta il suo arpeggio alla Leonard Cohen prima
maniera.
Roberto
Menabò The
Mountain Sessions
Blues & Guitar Excursions [Roberto
Menabò 2020]
Un volto gentile, che esprime
empatia, seduto lì tra i monti dell’Appennino emiliano, dove Roberto
Menabò insegue i suoi blues come si trovasse in una seduta
di field recordings degli anni Trenta, nell’America tutta sabbia
e polvere della Grande Depressione. Ricercatore, divulgatore di
storie di blues prima ancora che musicista colto e tecnicamente
preparato, Menabò incide quando sente l’esigenza di esprimere
dei sentimenti, e poco importa che siano passati dieci anni dal
precedente album, Il profumo del vinile. Nel frattempo
si è dedicato alla stesura di piccoli libri preziosi, come “Il
blues ha una mamma bianca” o “Mesdames a 78 giri”, sulle tracce
di musicisti dimenticati, di aneddoti più che di pedanti ricognizioni
critiche. E così è anche il suono che ci arriva da questo nuovo
The Mountain Sessions: Blues & Guitar Excursions,
sette brani cantati, cover che pescano nella memoria di vinili
gracchianti, e che si intervallano a strumentali composti dallo
stesso Menabò. Niente di convenzionale, e dunque niente Robert
Johnson o Son House, perché le varie Tom Cat Blues, Worried
Blues, Shaggy Dog Blues arrivano dal repertorio di
Cliff Carlisle, Frank Hutchison, Buddy Boy Hawkins, bianchi e
neri uno accanto all’altro, segreti di quel folk blues che Roberto
Menabò restituisce con un passo educato e solitario, una voce
che non sarà dura e rauca come richiedono i luoghi comuni del
genere, ma possiede il garbo di uno dei suoi eroi, Mississippi
John Hurt (da lì arriva certamente il classico Stack O’Lee),
e bene si sposa con la fluida tecnica in rigoroso fingerpicking
acustico, “primitive guitar” come la definisce lo stesso Menabò,
innamorato delle suggestioni antiche che può evocare questo stile.
Gli strumentali in tal senso sono del tutto rivelatori: l’amore
per i treni (e come altrimenti?) richiamato in Il Settebello
della Direttissima e nell’incalzante L’ultima littorina,
mentre titoli come Spuma bianca e juke box o Il ponte
romano sulla Dora (Menabò è di origini piemontesi) sembrano
dischiudere memorie e luoghi con il solo potere delle note.
The
Fullertones Stay
Electric [Il
popolo del blues/ Fullertones 2020]
Stay Electric, dichiarazione
di intenti per questo quartetto toscano, fin dal titolo e dall’omonima
canzone, in bilico fra le evidenti radici blues alla base della
loro scrittura musicale e le pulsioni rock che trascinano gli
arrangiamenti. Terreno scivoloso e anche ben arato quello in cui
si avventurano, rock blues muscoloso e dalle chiare derivazioni
“settantesche”, che sembra avere già detto molto, ma nel quale
la differenza possono farla l’attitudine, il sound, l’immediatezza.
The Fullertones ne catturano qualche scampolo lungo il
percorso e portano a casa un discreto risultato, pur senza allontanarsi
troppo dalle regole del genere, che prevedono una ritmica incalzante
e qualche volta dalle trame funk, ma soprattutto una coppia di
chitarre pronte a sciogliere le briglie. Nati nel 2017 dall’incontro
fra la voce di Francesco Bellia e la chitarra di Lou Leonardi
(principale solista nonché autore nel gruppo, con una lunga militanza
nei Lou & The Blues tra festival e collaborazioni internazionali),
si completano con il basso di Lorenzo Alderighi (un’esperienza
nei Diaframma) e la batteria di Matteo D’Alessandro. Un periodo
di rodaggio, qualche cover per trovare un’identità, l’esperienza
dal vivo, ed oggi i nove brani originali di Stay Electric,
che morde fin dal principio con Fairyland e la compattezza
di Wise Up, hard blues a forte trazione rock sulla scia
di band come i Gov’t Mule, per citare i migliori discepoli di
questo sound apparsi in questi anni, e che lavora bene anche sull’amalgama
delle voci. Deal With the Devil si attiene alla formula
e ricorda la Walkin’ Blues che fecero gli Hindu love Gods
di Warren Zevon, mentre Sheep Dogs e Can You Hear Me
o il finale funkeggiante di I Believe hanno un sapore texano
e boogie, sebbene gli epsiodi più interessanti per il futuro dei
Fullertones paiono semmai quelli psichedelici e dilatati di Way
Down e Two Steps o della stessa Stay Electric,
classic rock dal passo stradaiolo.