:: ClassicHighway menù
 
Seleziona una rubrica:


Ristampe/ Antologie



Bob Mosley
Bob Mosley


Cracker
Alternative History: A Crascker Retrospective


Say ZuZu
Bull

Little Richard
Settin' the Woods on Fire

Thom Chacon; Dirk Hamilton; Robert Gordon

Tom Petty and The Heartbreakers
Long After Dark

Richard Meyer
Bitter Moon

Justin Townes Earle
All In: Unreleased & Rarities

10,000 Maniacs
MTV Unplugged

Bill Morrissey
Live Free Or Die

Joe Ely
Fighting the Rain

John Hammond
Birthday Blues Bash

Lee Fardon
Mayday. The Live Recording

Giant Sand
Chors Of Enchantment (25th Anniversary)

David Wiffen
Timeless Songs

Scott Fagan
South Atlantic Blues

Session Americana
The Rattle and the Clatter

Dave Evans
Elephantasia

Bob Dylan
The Complete Budokan 1978

Bernie Marsden
Big Boy Blues & Green

The Blasters
Mandatory
The Best of Blasters

The Chills
Kaleidoscope World + Brave Words

Mike Cooper
Life and Death In Paradise Milan Live Acoustic 2018

Say ZuZu
Every Mile

Neil Young
Chrome Dreams

Drive-By Truckers
The Complete Dirty South

Gary Moore
The Sanctuary Years

Neutral Milk Hotel
On Avery Island (Deluxe)

Bob Weir
Ace (50th Anniversary)

Tom Petty & The Heartbreakers
Live at the Fillmore 1997

Pearls Before Swine
The Wizard of Is

Hazel Dickens & Alice Gerrard
Pioneering Women of Bluegrass

Kris Kristofferson
Live at Gilley's

Tony Joe White
The Beginning

Terry Allen
Smokin' The Dummy/ Bloodlines

Keith Richards
Main Offender (30th Anniversary)

The Dream Syndicate
What Can I Say? No Regrets...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Home page


ClassicHighway   best of, ristampe, classici
Condividi

 

 

Souled American
Rise Above It. A Souled American Anthology
[Omnivore Recordings 2025]

Sulla rete: omnivorerecordings.com

File Under: americana freaks


di Fabio Cerbone (24/02/2025)

È una di quelle vicende, la storia dei Souled American, che sembrano ribaltare la prospettiva del racconto, partendo dai margini, scartando di lato, iniziando da ciò che non ha avuto successo ma ha aperto una breccia per una nuova sensibilità, poi accolta da un’intera generazione di musicisti, persino in maniera implicita. Destino di un certo linguaggio sonoro che abbiamo imparato a definire “indie”, abbreviazione abusata di un’indipendenza che è stata prima di tutto una ricerca e un modo di vedere la vita, e non una stupida posa o la scelta calcolata di un suono.

In principio un quartetto dall’anonima provincia dell’Illinois, i Souled American si scelgono uno dei nomi più suggestivi che si possano affibbiare a un gruppo, fautori di una concezione di “american music” che scava davvero nell’anima di un paese e fra le sue tradizioni musicali, per restituirne un’immagine frastagliata, cubista, a volte destrutturata da un’animo punk che ricorda gli esordi disarmonici delle Violent Femmes, altre dilatata da atmosfere imbabolate che generano una specie di improbabile connubio fra ambient e folk. Il materiale di partenza sul quale Chris Grigoroff, Joe Adducci, Scott Tuma e Jamey Barnard lavorano è proprio quello della roots music, di certa tradizione country folk bianca che è arrivata a loro dalle canzoni ascoltate in famiglia, memorie di bivacchi che la band riscrive secondo una linea sbilenca che all’epoca, seconda metà degli anni Ottanta, nessuno ha ancora chiaro in testa dove possa condurre.

Poi arriveranno l’alternative country, gli Uncle Tupelo e Jeff Tweedy, che nel suo memoir World Within A Song del 2023 cita con affetto i Souled American e in particolare una canzone, Before Tonight. La trovate, insieme ad altre diciannove, in questa prima antologia multi-label, debitamente rimasterizzata, a cura della Omnivore Recordings: Rise Above It: A Souled American Anthology. Venti episodi che pescano più o meno democraticamente dai cinque album pubblicati dal gruppo fra il 1988 dell’esordio con Fe al 1996 del congedo con Notes Campfire, corredati dalle dettagliate note biografiche di Camden Joy, nonché da tutti i testi e i crediti. Una prima fotografia d’insieme della band, che ci auguriamo possa aprire la strada alla riproposizione del loro intero catalogo, spesso relegato a ricerche da carbonari.

Un destino implicito al concetto stesso dei Souled American, che pure hanno “goduto”, come spesso si ripete in tali occasioni, del sostegno della stampa rock più alternativa del tempo, acquisendo quel ruolo di culto che non si nega mai a chi indica una visione così fuori sincrono rispetto allo spirito dei tempi. Accade esattamente questo ai Souled American che nel 1987 progettano le prime avvisaglie di Fe (dall’abbreviazione di “feel”, come insegnavano Bob Marley e quel reggea da cui, curiosamente, partivano le prime esprienze di Grigoroff e Adducci come musicisti), trovando in Jim Rondinelli, allora produttore in erba e con scarsa esperienza quanto la band stessa, e nella divisione americana della Rough Trade di Geoff Travis, gli unici altrettanto folli da credere nella loro strampalata idea di rivisitazione del linguaggio folk.

I cinque episodi scelti generosamente per rappresentare Fe dicono questo e altro, in quello che può essere oggi considerato un “classico” dimenticato degli anni Ottanta americani: nei fortissimi accenti twang del canto (si alternano i citati Grigoroff e Adducci) nel sobbalzare straniante del basso, spesso portato in prima linea quanto le chitarre, nel generale impianto di una musica sghemba, minimalista, evocativa del passato sì, ma mai copia carbone, piuttosto versione tutta ripensata dagli “scarsi mezzi” dispensati dal gruppo, dove si ritrovano tracce di quello che di lì a poco altre realtà come Uncle Tupelo o Palace Brothers avrebbero accolto a braccia aperte. Manco a dirlo l’album non viene notato da nessuno, malgrado l’impegno della Rough Trade, che nello stesso periodo, raccontano le cronache, ha investito anche sull’omonimo disco di Lucinda Williams.

Altra storia e altri apprezzamenti quelli ricevuti dalla cantautrice della Louisiana, mentre i Souled American languono in studio dando alle stampe un immedato seguito (pochi mesi separano i due lavori) con Flubber. Meno grezzo e immediato, comincia a far fluire la dimensione per così dire più onirica e “intontita” dei Souled American, che lavorano a contatto con Brian Deck, altro produttore destinato a fare storia nel mondo indipendente (da Iron & Wine ai Califone, e questi ultimi devono davvero molto alle intuizioni dei nostri protagonisti) e qui alle prese con la nuova sensibilità portata in dote dalla band, fra un’ironica Mar'boro Man, l’accordion un po’ esangue di una letargica ballata cajun quale Wind to Dry, mentre l’armonica di Grigoroff sottolinea i piccoli deragliamenti e le alienate armonie vocali della band in Why, Are You. Al disco fa seguito forse il periodo più “felice” dei Souled American, con i primi riconoscimenti e la possibilità di partire in tour insieme ai Camper Van Beethoven, anime affini, pur da un’altra prospettiva sonora, nel ribaltare il tavolo della tradizione e farlo collidere con la crescente sensibilità indie rock.

In mezzo però ci si mette la bancarotta della Rough Trade, etichetta sull’orlo del fallimento che ha creduto in loro, ma che adesso non ha più soldi e idee per sostenerli: fanno ancora in tempo a concepire il classico album della maturità - il sempre più dilatato e narcolettico Around the Horn, dal quale sono qui raccolti quattro episodi emblematici dello slittamento sonoro in atto - prima di cominciare a sfaldarsi anche nella formazione, perdendo il contributo, già molto ridimensionato, del batterista Jamey Barnard. Riorganizzato il trio, saldamente nelle mani della coppia di autori e voci Grigoroff-Addicci, i Souled American, dimenticati, o forse meglio, mai davvero scoperti, trovano riparo nell’ennesima ricognizione delle radici: Sonny è il classico disco di compromesso, con gli ultimi scampoli di investimenti offerti dalla Rough Trade prima di chiudere i battenti, che però nella scelta di dedicare metà della scaletta alle cover è anche rivelatore dello stile e dell’approccio del gruppo alla materia. Da lì l’antologia coglie intelligentemente i due traditional Little Bessie e Rock That Cradle Lucy, spettrali e spiazzanti, oltre a una sfilacciata Blue Eyes Cryin’ In the Rain (classico che fu anche di Willie Nelson) che non facciamo fatica a pensare possano avere catturato le attenzioni di un Bonnie Prince Billy alle prime armi.

Disillusi e senza contratto, entrati in quegli anni Novanta che in verità sembrano cominciare a fare tesoro delle loro intuizioni - dal nuovo folk alle letargie del cosiddetto slowcore di Red House Painters e Songs:Ohia - i Souled American sono costretti a cercarsi una nuova casa in Europa, precisamente in Germania. Una minuscola etichetta di Amburgo offre rifugio alla band, senza possibilità concrete di promozione, pubblicando nel disinteresse generale gli ultimi due album, Frozen (1994) e Notes Campfire (1996), il secondo dei quali porta curiosamente il titolo della canzone che apriva il loro esordio Fe, come a chiudere una sorta di cerchio. L’antologia della Omnivore sceglie soltanto due brani a testa da quei lavori, certamente cogliendo una band in ritirata, ma niente affatto involuta, anche nella sua stessa struttura: i Souled American, infatti, sono praticamente ridotti a un duo, con l’abbandono anche del chitarrista Scott Tuma (che avrebbe avviato un’apprezzata carriera solista), concependo una musica sempre più rarefatta, ambientale, sebbene non recisa dalle sue radici folk, che da Will Oldham ai Lambchop è penetrata silenziosamente e non riconosciuta nel linguaggio americano di questi decenni.

La citata Before Tonight di cui si innamorerà Jeff Tweedy, proviene proprio da queste ultime session, prima che i Souled American facciano ritorno a quella oscurità da cui erano sbucati quindici anni prima, oggetti non identificati di un’indolente provincia americana, campagna dell’Illinois, della quale Rise Above It: A Souled American Anthology raccoglie scampoli di originalità e spiazzamento, come nella migliore tradizione di chi ha mostrato la via, ma non è mai stato riconosciuto per il suo ruolo di antesignano
.