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Tom Petty and The Heartbreakers
Long After Dark
(Deluxe Edition, 2Cd + Blue Ray)

[Geffen/ Universal 2024]

Sulla rete: tompetty.com

File Under: Aristocrazia classic-rock


di Gianfranco Callieri (14/10/2024)

"Tom Petty e gli Heartbreakers suonano una tipologia di rock senza pretese accuratamente confezionato": così scriveva Fred Schruers (era il gennaio del 1983) nelle prime righe della recensione di Long After Dark pubblicata sull’edizione americana di Rolling Stone. L’espressione meat-and-potatoes rock adoperata, allora, da costui, merita di essere ricordata non solo in quanto intraducibile (dovrebbe indicare "l’essenza" delle cose, però con un tono vagamente riduttivo), ma perché rappresenta quanto di più lontano possa darsi rispetto al rock & roll di Tom Petty con o senza gli Heartbreakers (soprattutto con), che della loro enciclopedica conoscenza della musica popolare, del loro sconfinato virtuosismo e della loro capacità di rimescolare epoche e stili seppero fare un’arte. Certo, un’arte accessibile e mai respingente, comprensibile al grande pubblico, quasi sempre accattivante anche per chi non avrebbe saputo decostruirne l’eccelsa fattura. Ma non per questo meno raffinata, meno visionaria o meno preziosa.

Ciò nonostante, molti album di Petty e degli Spezzacuori vengono oggi ascritti al canone inferiore di una discografia fatalmente sottovalutata dagli esegeti del rinnovamento sebbene portata in palmo di mano dagli addetti ai lavori. Discografia nella quale, peraltro, prima della maturità rootsy del solista Wildflowers (1994) o del granitico intreccio tra Beatles e Nirvana del sofferto Echo (1999), molti tendono a segnalare appunto Long After Dark (1982), o il controverso Southern Accents (1985), oppure ancora lo scanzonato passo byrdsiano del fortunatissimo Full Moon Fever (1989), nella classifica degli episodi minori, magari baciati dalla popolarità eppure deficitari in termini di peso specifico. Almeno per quanto riguarda il trittico supervisionato con smalto meravigliosamente "classico" da Jimmy Iovine (già in cabina di regia per Bruce Springsteen, Patti Smith, Dire Straits, Stevie Nicks etc.) e comprendente, oltre al citato Long After Dark, l’inarrivabile Damn The Torpedoes (1979) e il cupo Hard Promises (1981), questo giudizio andrebbe completamente ribaltato, e i dischi inseriti nel tentativo di Petty e del suo produttore di trasportare l’entusiasmo adolescenziale del rock and roll delle origini, ma anche la sua malinconia così spesso trasfigurata nei racconti (metaforici) sulla "fine dell’estate" appartenuti ai Beach Boys come a Janis Joplin, all’interno del decennio che più di ogni altro sembrava volerne sterilizzare le remote emozioni attraverso una forzata robotizzazione di suoni e apparenze.

Long After Dark (Deluxe Expanded Edition) Long After Dark (Double Vinyl Deluxe Edition)

Beninteso, questa non è e non vorrebbe essere la solita requisitoria sull’artificiosità degli ’80 (dieci anni forieri di tanta, ottima musica benché indubbiamente problematici sotto molti aspetti), bensì la semplice constatazione di come Iovine e l'artista della Florida, cresciuti immergendosi nella cultura pop dei ’60 e recuperandone in fretta gli antecedenti, cercassero di aggiornarne gli schemi con un taglio personale, tentando di conservarne lo spirito pur rinfrescandone la forma. E infatti, dopo la sbornia mainstream dello scintillante Damn The Torpedoes e la celebrazione di Buffalo Springfield e altri gruppi dell’area californiana articolata nella scontrosa scaletta di Hard Promises, quest’ultimo segnato dal gesto punk con cui il suo artefice si oppose all’incremento del prezzo di listino - il cosiddetto superstar-pricing - caldeggiato dalla distributrice MCA, in Long After Dark apparvero per la prima volta i sintetizzatori, maneggiati con grande cura dal fidato tastierista Benmont Tench e usati per conferire alle canzoni un’atmosfera distopica, da apocalisse incombente, confermata anche dalla dimensione visiva steampunk del (lungo) video girato per promuovere You Got Lucky (in rotazione costante sulla neonata MTV).

Non solo, perché l’immaginario post-apocalittico, simboleggiante una fase aurorale del r’n’r a rischio di scomparire, ritornò anche nell’immediatamente successivo Heartbreakers Beach Party (1983), esordio dietro la macchina da presa, in 16mm, dell’ex-giornalista Cameron Crowe, andato in onda su MTV ma giudicato troppo strano e sperimentale, nei suoi toni da fanta-western alla John Carpenter, per la programmazione dell’emittente. Da allora il docu-film non si è più visto, le bobine originarie ritenute smarrite. Restaurato a sorpresa quest’anno, con 19 minuti di contenuti aggiuntivi, sarà disponibile in sala e su piattaforma a partire dalla fine ottobre; nel frattempo, proprio Crowe, lo stesso Iovine e il critico David Fricke si sono occupati delle liner-notes dell’edizione deluxe di Long After Dark, che anche in questa tripla ristampa - il disco originario, un gemello di inediti e rarità, un Blu-ray con missaggi in Dolby Atmos e alta risoluzione dei precedenti contenuti - si conferma tra le opere più sottovalutate, nonché tra quelle meglio invecchiate, nella produzione discografica di Tom Petty.

Primo album degli Spezzacuori dove il basso di Ron Blair (presente in un solo brano) viene sostituito con quello di Howie Epstein, tra l’altro di rara efficienza nell’infondere alle armonie vocali del gruppo un’espressività tipicamente folk-rock, Long After Dark suona ancora secco, essenziale, a tratti nostalgico e soprattutto disilluso, incentrato com’è non tanto su racconti o narrazioni, ma sul ritratto di sensazioni, impressioni e modi di sentire. Gli stessi del cantante e compositore, venuto dai bassifondi del Sud e da una situazione familiare disastrosa, aggrappatosi alla musica come a una promessa taumaturgica di guarigione, e all’età di 32 anni occupato a fronteggiare il disincanto della vita di coppia e le frustrazioni della vita quotidiana, due temi ricorrenti nei pezzi più avviliti (A Wasted Life), incupiti (Straight Into Darkness), inquietanti (You Got Lucky).

Straight Into Darkness Between Two Worlds (French TV)

Nonostante la propensione all’enfasi e agli inni del passato recente si sia trasformata nel sibilante ringhiare di dieci brani in cui le sfumature prevalgono sulla pura energia, Long After Dark è pur sempre un (grande) disco rock, inaugurato dal ruggito di A One Story Town, concluso dal romanticismo springsteeniano di A Wasted Life e con in mezzo una serie di episodi assolutamente rimarchevoli. Bellissimo, per esempio, è il connubio tra Byrds e Fleetwood Mac della sferragliante Straight Into Darkness, indimenticabile il loop di batteria creato da Stan Lynch per rendere più minaccioso il clima sonoro di You Got Lucky, da antologia il la cavalcata pop’n’roll di Change Of Heart, superbo il tiro stonesiano di We Stand A Chance, perfettamente in parte la new-wave dal cuore umano di Finding Out, sanguinario il groviglio di chitarre intorno al quale si sviluppa la drammatica Between Two Worlds.

A convincere, come detto, è soprattutto l’impressione, restituita attraverso canzoni non rassegnate né raggomitolate su loro stesse, di una sensibilità ferita, non solo quella del Petty adulto e alle prese con le incertezze della maturità, ma anche quella dell’ascoltatore onnivoro, consapevole di come la fibra nervosa del r’n’r - il suo sangue - corra il rischio di decomporsi se non alimentata dal country, dal blues, dal folk e dal gospel che, unendosi, ne avevano permesso la nascita. Non a caso sono le stagioni in cui Petty e gli Spezzacuori infarciscono di brani altrui (dai sempiterni Isley Brothers di Shout fino a Richard Berry, Byrds, Ray Charles, Troggs, Bobby Troup, Buddy Holly, Chuck Berry, Dave Clark Five, Gram Parsons etc.) le setlist delle proprie esibizioni, quasi insistessero sulla necessità di riscoprire, condividere e alimentare un patrimonio collettivo.

Ecco, allora, che il secondo CD della ristampa di Long After Dark si apre proprio con una rilettura, proposta ai telespettatori della TV francese, della Stories We Could Tell di John Sebastian, una dichiarazione d’amore per l’arioso e melodico folk-rock della California a cavallo dei ’60 e ’70 (riapparirà anche, in versione un po’ troppo levigata, sul primo album dal vivo "ufficiale" dei nostri, Pack Up The Plantation: Live! del 1985) interpretata alla grande. Prevedo l’obiezione (sensata) circa l’assenza di sorprese vere e proprie: in effetti, chi già possieda il cofanetto Playback (1995), la monumentale The Live Anthology (2009) o anche solo la versione doppia di An American Treasure (2018), potrebbe avvertire la sensazione di rivangare un repertorio più o meno già noto.

E anche se la realtà è all’incirca questa (soprattutto per quanto riguarda outtakes notissime quali la pur splendida Turning Point o la travolgente Keeping Me Alive, presentata però in una versione live), come non dimenticare ogni perplessità, nonostante tutto, davanti allo spumeggiante countreggiare di Never Be You (la porterà in classifica Roseanne Cash tre anni più tardi, ma solo dopo averla registrata per Streets Of Fire, "favola rock" diretta da Walter Hill nel 1984), al proto-reggae di Don’t Make Me Walk The Line, al fuoco e alle fiamme di una Ways To Be Wicked poi donata ai Lone Justice, all’arrangiamento alternativo (molto più lirico e solenne) di Between Two Worlds, alle rasoiate rockinrolliste della feroce One On One o al beat schiacciasassi di una Wild Thing intrisa di spirito garagista?

Il fatto è che Tom Petty, scomparso nell’ottobre del 2017 a causa di un’overdose di analgesici, benzodiazepine e antidepressivi, ci manca, guardiamo oggi al suo perenne stato di grazia come a un miracolo irripetibile e la sua assenza ci fa sembrare meno ricca e affascinante anche la scena contemporanea. Il cui spettacolo non proprio consolante, in ogni caso, ci porta a constatare questo: edizione deluxe o meno, se uscisse, adesso, un lavoro della caratura di Long After Dark, ognuno di noi si spellerebbe le mani per gli applausi e si sperticherebbe in temerarie capriole. "Minore" ditelo a qualcun altro.