È una di
quelle vicende, la storia dei Souled American, che
sembrano ribaltare la prospettiva del racconto, partendo dai
margini, scartando di lato, iniziando da ciò che non ha avuto
successo ma ha aperto una breccia per una nuova sensibilità,
poi accolta da un’intera generazione di musicisti, persino
in maniera implicita. Destino di un certo linguaggio sonoro
che abbiamo imparato a definire “indie”, abbreviazione abusata
di un’indipendenza che è stata prima di tutto una ricerca
e un modo di vedere la vita, e non una stupida posa o la scelta
calcolata di un suono.
In principio un quartetto dall’anonima provincia dell’Illinois,
i Souled American si scelgono uno dei nomi più suggestivi
che si possano affibbiare a un gruppo, fautori di una concezione
di “american music” che scava davvero nell’anima di un paese
e fra le sue tradizioni musicali, per restituirne un’immagine
frastagliata, cubista, a volte destrutturata da un’animo punk
che ricorda gli esordi disarmonici delle Violent Femmes, altre
dilatata da atmosfere imbabolate che generano una specie di
improbabile connubio fra ambient e folk. Il materiale di partenza
sul quale Chris Grigoroff, Joe Adducci, Scott Tuma e Jamey
Barnard lavorano è proprio quello della roots music, di certa
tradizione country folk bianca che è arrivata a loro dalle
canzoni ascoltate in famiglia, memorie di bivacchi che la
band riscrive secondo una linea sbilenca che all’epoca, seconda
metà degli anni Ottanta, nessuno ha ancora chiaro in testa
dove possa condurre.
Poi arriveranno l’alternative country, gli Uncle Tupelo e
Jeff Tweedy, che nel suo memoir World Within A Song del
2023 cita con affetto i Souled American e in particolare una
canzone, Before Tonight. La trovate, insieme ad altre
diciannove, in questa prima antologia multi-label, debitamente
rimasterizzata, a cura della Omnivore Recordings: Rise
Above It: A Souled American Anthology. Venti episodi
che pescano più o meno democraticamente dai cinque album pubblicati
dal gruppo fra il 1988 dell’esordio con Fe al 1996
del congedo con Notes Campfire, corredati dalle dettagliate
note biografiche di Camden Joy, nonché da tutti i testi e
i crediti. Una prima fotografia d’insieme della band, che
ci auguriamo possa aprire la strada alla riproposizione del
loro intero catalogo, spesso relegato a ricerche da carbonari.
Un destino implicito al concetto stesso dei Souled American,
che pure hanno “goduto”, come spesso si ripete in tali occasioni,
del sostegno della stampa rock più alternativa del tempo,
acquisendo quel ruolo di culto che non si nega mai a chi indica
una visione così fuori sincrono rispetto allo spirito dei
tempi. Accade esattamente questo ai Souled American che
nel 1987 progettano le prime avvisaglie di Fe (dall’abbreviazione
di “feel”, come insegnavano Bob Marley e quel reggea da cui,
curiosamente, partivano le prime esprienze di Grigoroff e
Adducci come musicisti), trovando in Jim Rondinelli, allora
produttore in erba e con scarsa esperienza quanto la band
stessa, e nella divisione americana della Rough Trade di Geoff
Travis, gli unici altrettanto folli da credere nella loro
strampalata idea di rivisitazione del linguaggio folk.
I cinque episodi scelti generosamente
per rappresentare Fe dicono questo e altro,
in quello che può essere oggi considerato un “classico” dimenticato
degli anni Ottanta americani: nei fortissimi accenti twang
del canto (si alternano i citati Grigoroff e Adducci) nel
sobbalzare straniante del basso, spesso portato in prima linea
quanto le chitarre, nel generale impianto di una musica sghemba,
minimalista, evocativa del passato sì, ma mai copia carbone,
piuttosto versione tutta ripensata dagli “scarsi mezzi” dispensati
dal gruppo, dove si ritrovano tracce di quello che di lì a
poco altre realtà come Uncle Tupelo o Palace Brothers avrebbero
accolto a braccia aperte. Manco a dirlo l’album non viene
notato da nessuno, malgrado l’impegno della Rough Trade, che
nello stesso periodo, raccontano le cronache, ha investito
anche sull’omonimo disco di Lucinda Williams.
Altra storia e altri apprezzamenti quelli
ricevuti dalla cantautrice della Louisiana, mentre i Souled
American languono in studio dando alle stampe un immedato
seguito (pochi mesi separano i due lavori) con Flubber.
Meno grezzo e immediato, comincia a far fluire la dimensione
per così dire più onirica e “intontita” dei Souled American,
che lavorano a contatto con Brian Deck, altro produttore destinato
a fare storia nel mondo indipendente (da Iron & Wine ai Califone,
e questi ultimi devono davvero molto alle intuizioni dei nostri
protagonisti) e qui alle prese con la nuova sensibilità portata
in dote dalla band, fra un’ironica Mar'boro Man, l’accordion
un po’ esangue di una letargica ballata cajun quale Wind
to Dry, mentre l’armonica di Grigoroff sottolinea i piccoli
deragliamenti e le alienate armonie vocali della band in Why,
Are You. Al disco fa seguito forse il periodo più “felice”
dei Souled American, con i primi riconoscimenti e la possibilità
di partire in tour insieme ai Camper Van Beethoven, anime
affini, pur da un’altra prospettiva sonora, nel ribaltare
il tavolo della tradizione e farlo collidere con la crescente
sensibilità indie rock.
In mezzo però ci si mette la bancarotta della Rough Trade,
etichetta sull’orlo del fallimento che ha creduto in loro,
ma che adesso non ha più soldi e idee per sostenerli: fanno
ancora in tempo a concepire il classico album della maturità
- il sempre più dilatato e narcolettico Around the Horn,
dal quale sono qui raccolti quattro episodi emblematici dello
slittamento sonoro in atto - prima di cominciare a sfaldarsi
anche nella formazione, perdendo il contributo, già molto
ridimensionato, del batterista Jamey Barnard. Riorganizzato
il trio, saldamente nelle mani della coppia di autori e voci
Grigoroff-Addicci, i Souled American, dimenticati, o forse
meglio, mai davvero scoperti, trovano riparo nell’ennesima
ricognizione delle radici: Sonny è il classico
disco di compromesso, con gli ultimi scampoli di investimenti
offerti dalla Rough Trade prima di chiudere i battenti, che
però nella scelta di dedicare metà della scaletta alle cover
è anche rivelatore dello stile e dell’approccio del gruppo
alla materia. Da lì l’antologia coglie intelligentemente i
due traditional Little Bessie e Rock That Cradle
Lucy, spettrali e spiazzanti, oltre a una sfilacciata
Blue Eyes Cryin’ In the Rain (classico che fu anche
di Willie Nelson) che non facciamo fatica a pensare possano
avere catturato le attenzioni di un Bonnie Prince Billy alle
prime armi.
Disillusi e senza contratto, entrati
in quegli anni Novanta che in verità sembrano cominciare a
fare tesoro delle loro intuizioni - dal nuovo folk alle letargie
del cosiddetto slowcore di Red House Painters e Songs:Ohia
- i Souled American sono costretti a cercarsi una nuova casa
in Europa, precisamente in Germania. Una minuscola etichetta
di Amburgo offre rifugio alla band, senza possibilità concrete
di promozione, pubblicando nel disinteresse generale gli ultimi
due album, Frozen (1994) e Notes Campfire
(1996), il secondo dei quali porta curiosamente il
titolo della canzone che apriva il loro esordio Fe,
come a chiudere una sorta di cerchio. L’antologia della Omnivore
sceglie soltanto due brani a testa da quei lavori, certamente
cogliendo una band in ritirata, ma niente affatto involuta,
anche nella sua stessa struttura: i Souled American, infatti,
sono praticamente ridotti a un duo, con l’abbandono anche
del chitarrista Scott Tuma (che avrebbe avviato un’apprezzata
carriera solista), concependo una musica sempre più rarefatta,
ambientale, sebbene non recisa dalle sue radici folk, che
da Will Oldham ai Lambchop è penetrata silenziosamente e non
riconosciuta nel linguaggio americano di questi decenni.
La citata Before Tonight di cui si innamorerà Jeff
Tweedy, proviene proprio da queste ultime session, prima che
i Souled American facciano ritorno a quella oscurità da cui
erano sbucati quindici anni prima, oggetti non identificati
di un’indolente provincia americana, campagna dell’Illinois,
della quale Rise Above It: A Souled American Anthology
raccoglie scampoli di originalità e spiazzamento, come nella
migliore tradizione di chi ha mostrato la via, ma non è mai
stato riconosciuto per il suo ruolo di antesignano.