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Guy Davis
The Legend of Sugarbelly
[Mc Records 2024]

Sulla rete: guydavis.com

File Under: roots of the blues


di Pie Cantoni (30/08/2024)

Guy Davis è, dall’alto dei suoi 72 due anni di cui molti passati a suonare, un guardiano della memoria del blues tradizionale, una “leggenda” del genere, al pari di Erib Bibb, Keb Mo’ o Taj Mahal, e quest’anno celebra l’uscita del suo nuovo disco The Legend of Sugarbelly per la MC Records. Tredici brani in cui il musicista oscilla tra inediti e versioni di classici blues di giganti come Leadbelly, Reverend Gary Davis e Blind Lemon Jefferson. In questo lavoro il chitarrista newyorkese ci parla, come un troubador d’altri tempi, di storie di amori perduti, di distillatori di whiskey illegale, di peccato e redenzione. Ovviamente c’è anche il rapporto con la religione (come in Twelve Gates to the City di Gary Davis) e c’è tanto, tanto gospel.

Il disco è essenziale, minimali gli arrangiamenti, come un disco blues del passato. In alcuni brani Guy Davis si accompagna semplicemente con banjo, mandolino, armonica o chitarra, mentre in altri ci sono musicisti come Professor Louie (organo), Mark Murphy (basso) e Chris James (mandolino e banjo). Ma nulla più. The Legend of Sugarbelly arriva subito dopo aver composto la musica per la pièce di Broadway nominata al Tony Award, Purlie Victorious, e, sebbene non si tratti della colonna sonora dell'opera, il disco contiene alcune canzoni dello spettacolo, come Early In the Morning, un gospel di sicuro impatto live (ma un po’ stucchevole su disco). Per le cronache, Purlie Victorious è un’opera scritta dal padre di Davis, il defunto attore Ossie Davis.

La scaletta del disco inizia con un brano originale, Sugarbelly, per voce e banjo, un brano classico di matrice blues prebellica. Kokomo Alley, sempre di Davis, è un brano più ritmato e allegro che richiama al classico Kokomo Blues. Sam Chatmon, membro del leggendario gruppo dei Mississippi Sheiks, è l’autore di un’altra cover inserita nel disco, Who’s Gonna Love you Tonight (It’s Alright), dove Davis si cimenta con virtuosismi di armonica blues. Tra traditional (la lieve Little David, Play On Your Harp), cover (come Black Snake Moan di Blind Lemon Jefferson, Laura di Leadbelly, la citata Twelve Gates to the City di Reverend Gary Davis) e brani originali (l’appalachiana Firefly, la più arrembante Long Gone Riley Brown, il ragtime di Come Gitchu Some, la conclusiva Don’t Know Where I’m Bound), il disco scorre facilmente verso la fine lasciando in bocca quel buon sapore delle cose semplici ma genuine e sane.

Guy Davis, un po’ come il nostro beneamato Eric Bibb, è un monumento vivente al blues, più in generale alla musica tradizionale in chiave moderna ma sempre rispettosa delle radici, a quella musica del “diavolo” (anche se a volte si tratta di un diavolo redento) dalla quale poi sono nati tanti meravigliosi ed eterogenei rami dei cui frutti ancora oggi continuiamo a saziarci a piene mani.