Guy Davis
è, dall’alto dei suoi 72 due anni di cui molti passati a
suonare, un guardiano della memoria del blues tradizionale,
una “leggenda” del genere, al pari di Erib Bibb, Keb Mo’
o Taj Mahal, e quest’anno celebra l’uscita del suo nuovo
disco The Legend of Sugarbelly per la MC Records.
Tredici brani in cui il musicista oscilla tra inediti e
versioni di classici blues di giganti come Leadbelly, Reverend
Gary Davis e Blind Lemon Jefferson. In questo lavoro il
chitarrista newyorkese ci parla, come un troubador d’altri
tempi, di storie di amori perduti, di distillatori di whiskey
illegale, di peccato e redenzione. Ovviamente c’è anche
il rapporto con la religione (come in Twelve Gates to
the City di Gary Davis) e c’è tanto, tanto gospel.
Il disco è essenziale, minimali gli arrangiamenti, come
un disco blues del passato. In alcuni brani Guy Davis si
accompagna semplicemente con banjo, mandolino, armonica
o chitarra, mentre in altri ci sono musicisti come Professor
Louie (organo), Mark Murphy (basso) e Chris James (mandolino
e banjo). Ma nulla più. The Legend of Sugarbelly arriva
subito dopo aver composto la musica per la pièce di Broadway
nominata al Tony Award, Purlie Victorious, e, sebbene
non si tratti della colonna sonora dell'opera, il disco
contiene alcune canzoni dello spettacolo, come Early
In the Morning, un gospel di sicuro impatto live
(ma un po’ stucchevole su disco). Per le cronache, Purlie
Victorious è un’opera scritta dal padre di Davis, il
defunto attore Ossie Davis.
La scaletta del disco inizia con un brano originale, Sugarbelly,
per voce e banjo, un brano classico di matrice blues prebellica.
Kokomo Alley, sempre di Davis, è un brano più ritmato
e allegro che richiama al classico Kokomo Blues.
Sam Chatmon, membro del leggendario gruppo dei Mississippi
Sheiks, è l’autore di un’altra cover inserita nel disco,
Who’s Gonna Love you Tonight (It’s Alright), dove
Davis si cimenta con virtuosismi di armonica blues. Tra
traditional (la lieve Little David, Play On Your
Harp), cover (come Black Snake Moan di Blind
Lemon Jefferson, Laura di Leadbelly, la citata Twelve
Gates to the City di Reverend Gary Davis) e brani originali
(l’appalachiana Firefly, la più arrembante
Long Gone Riley Brown, il ragtime di Come
Gitchu Some, la conclusiva Don’t Know Where I’m Bound),
il disco scorre facilmente verso la fine lasciando in bocca
quel buon sapore delle cose semplici ma genuine e sane.
Guy Davis, un po’ come il nostro beneamato Eric Bibb, è
un monumento vivente al blues, più in generale alla
musica tradizionale in chiave moderna ma sempre rispettosa
delle radici, a quella musica del “diavolo” (anche se a
volte si tratta di un diavolo redento) dalla quale poi sono
nati tanti meravigliosi ed eterogenei rami dei cui frutti
ancora oggi continuiamo a saziarci a piene mani.