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1971
New Riders of the
Purple Sage
 New Riders of the Purple Sage  [Columbia]

Il terreno dove il country-rock si unisce alla psichedelia californiana. Troppo facile definire questo disco come una sorta di side-project dei Grateful Dead, anche se in effetti i tre quinti dei componenti originali della band provenivano proprio dalla seminale band di San Francisco. Tuttavia, il leader John Dawson aveva una personalità sufficientemente spiccata per non risultare schiacciato da Jerry Garcia e soci, che proprio negli stessi mesi erano nel pieno della loro fase di riscoperta delle radici della musica americana. Un cactus in copertina, il simbolo del gruppo, ed una musica sabbiosa, con la pedal steel di Garcia in bell'evidenza ed un pugno di composizioni roots di altissimo livello che, se pur strizzavano l'occhio ai due summenzionati album dei Dead, brillavano di luce propria, andando a costituire un corpus a cui molti altri si sarebbero in seguito ispirati. (GG)

http://www.youtube.com/watch?v=YJdq0OcRK3o (Video)

Take #2, prova anche: The Adventures of Panama Red (Columbia 1973)


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1971
Ry Cooder
 Into the Purple Valley  [Reprise]

Ry Cooder era già un ricercato session-man ai tempi di Into The Purple Valley: con gli Stones, coi Little Feat, con Eric Clapton. Ma il suo personale lavoro di ricerca musicale inizia col suo disco omonimo, nel 1970, e tocca vertici d'abile personalizzazione del canzoniere popolare americano in quest'album. Ecco allora che Billy The Kid o Taxes On The Farmer Feeds Us All convivono con Leadbelly (On Monday), Johnny Cash (Hey Porter) o Woody Guthrie (Vigilante Man), ma rivivono decisamente in Cooder e nella produzione (anche) di Jim Dickinson, nel repertorio folk e tradizionale di eccellente coralità strumentale, ben congegnata, mai pedante o accademica. Di grande stile. (MF)

http://www.youtube.com/watch?v=x4KmbUCwkyE (Video)

Take #2, prova anche: Boomer's Story (Reprise 1972)


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1971
Tom T. Hall
 In Search of a Song  [Mercury]

Canzoni come fotografie. Sfuggenti e misteriose. Parole come short-stories. Inarrivabili per acume narrativo e senso del dettaglio. Perennemente In Search Of A Song, "in cerca di una canzone", all'inizio degli anni '70 Tom T. Hall si aggira tra i campi del suo Kentucky, che batte palmo a palmo in automobile, accompagnato da un fotografo, attraverso strade secondarie e vecchi sentieri, per cercare volti, storie e paesaggi. L'album che si ritrova tra le mani, il quinto di una carriera passata a scrivere successi per conto terzi, è un diario di viaggio austero e toccante, un carnet di leggende dimenticate dal tempo, amori sfioriti, morti sul lavoro, musicisti e bevitori. Il montanaro di Kentucky, February 27, 1971, da cui Hall si reca per parlare dei ragazzi di campagna fuggiti verso le città, gli dice "Penso che qui, dopotutto, non ci sia nessuna canzone". Naturalmente è il brano più memorabile di un album dove ogni inezia, consegnandosi alla storia del country-folk, diventa racconto. (GC)

http://www.youtube.com/watch?v=Wr4y2_BqHYg (Video)

Take #2, prova anche: The Rhymer and Other Five and Dimers (Mercury 1973)


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1971
Tony Joe White
 Tony Joe White  [Warner]

Registrato nei famosi Ardent Studio di Memphis, con il suo terzo e omonimo album, Tony Joe White (il vero fox of the swamp) ci regala una manciata di ballate introspettive e ipnotiche ricche di pathos e bagnate di southern soul e appiccicoso swamp blues. Anche se qualcuno gli rimprovera una certa staticità e somiglianza nelle composizioni, TJW rimane un grande swamper che riesce sempre a commuoverti con la sua voce baritonale a volte triste, ma spesso dolce e diretta come una lama di rasoio. Come non essere rapiti dai ritmi asciutti di Black Panther Swamp, dalla delicatezza di Five Summers for Jimmy, dai fiati di Voodoo Village, dalla memorabile I Just Walked Away o da una The Change capace ancora oggi di metterti i brividi addosso. (EM)

http://youtu.be/4AWqV7O_P7Y (Video)

Take #2, prova anche: The Train I'm On (Warner 1972)


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1972
Big Star
 #1 Records  [Ardent]

Cosa si può dire, che già non sia stato detto o scritto, su un disco che ha venduto milioni di copie, spedendo in vetta alle classifiche dei singoli chicche di power-pop come Don't Lie to Me e In the Street (accompagnata sul retro dal jingle jangle di When My Baby's Beside Me)? Come? Non è andata così?! Questo disco - che ha preso le melodie della British Invasion, le ha tirate fuori dai garage degli anni '60 e le ha avvolte in una veste nuova, cucita su sogni e angosce dei teenager dei primi '70 - ha venduto in realtà poche migliaia di copie, e ha dovuto attendere l'avvicendamento di una generazione per vedere riconosciuta la propria dirompente carica virale (chiedete a R.E.M. e Replacements). Una storia, quella di Alex Chilton e Chris Bell, che dimostra come il dio del rock non esista. O, se esiste, quanto sia crudele con i suoi figli migliori. (YS)

http://www.youtube.com/watch?v=fAtb65Z_bkA (Video)

Take #2, prova anche: Radio City (Ardent 1972)


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1972
Bonnie Raitt
 Give It Up [Warner]

Nel 1971 che una donna bianca potesse fare dischi di blues, osando pure accollarsi gli assoli di chitarra, era cosa decisamente inusuale. Abituati alle blues-singers manipolate da altri autori e case discografiche, il mondo del rock americano inizialmente non seppe bene come inquadrare Bonnie Raitt, una timida ragazzina dalla voce esile ma decisa, che dopo un esordio già convincente e maturo, infilò con Give It Up l'opera della vita. Dedicate ai Vietcong in pieno climax della guerra del Vietnam, queste canzoni non erano solo blues, erano un viaggio da New Orleans alla West Coast visto per la prima volta al femminile, dove anime lontane come Jackson Browne (Under Falling Sky) Chris Smither (Love Me Like A Man, divenuta un classico) e la sua slow-songs più bella di sempre (Nothing Seems To Matter) convivevano perfettamente. (NG)

http://www.youtube.com/watch?v=AEnMfy1nEew (Video)

Take #2, prova anche: Takin' My Time (Warner 1973)


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1972
Dr. John
 Gumbo  [Atlantic]

Tra i pochi visi pallidi ammessi nella comunità musicale afroamericana di New Orleans (e per motivi ben poco artistici) con Gumbo Dr. John riuscì nella magia di resuscitare antichissimi rituali e grandi fantasmi, dal ragtime a Fats Domino, rendendoli ancora una volta innovativi e coinvolgenti in un trascinante meltin' pot, per una volta concreto, e solo grazie alla musica. Ai margini di Gumbo, ringraziava Peter Wolf per aver suggerito di incidere Iko Iko (miglior soffiata non poteva esserci) posta proprio come apertura di un disco che a distanza di mezzo secolo suona ancora cosmopolita, brillante, geniale e senza tempo. (MD)

http://www.youtube.com/watch?v=vx1KhaEc_8I (Video)

Take #2, prova anche: In the Right Place (Atco 1973)


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1972
Eric Andersen
 Blue River  [Columbia]

Veterano del folk movement dei sixties (alle cui istanze libertarie aveva dedicato Thirsty Boots), Eric Andersen rischiava nel nuovo decennio di apparire un fossile del Greenwich Village, proprio nel momento in cui la vena introspettiva da lui precorsa si affacciava ai piani alti delle charts con James Taylor, Jackson Browne e altri. Una trasferta a Nashville con il produttore Norman Putnam mise in chiaro che Andersen aveva invece ancora molto da dire. Ne uscì un disco in cui la musica accompagna con grazia le composizioni, cullate dalla sua vocalità intima. Le canzoni di Blue River sono riflessioni mature e tormentate sulle umane relazioni e la circolarità della vita ("Love, is it really love at all, or something that I heard love called?" è la questione che apre il disco), accompagnate da calde sonorità intrise di gospel che scorrono placide come il fiume del titolo. (YS)

http://www.youtube.com/watch?v=DGJwWjm01w0 (Video)

Take #2, prova anche: Eric Andersen (Warner 1970)


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1972
Hot Tuna
 Burgers  [Grunt]

Mentre Marty Balin, Paul Kantner e Grace Slick nei Jefferson Airplane passavano il tempo a fare proclami di amore hippy e a decantare viaggi lisergici, Jorma Kaukonen e il bassista Jack Cassidy non avevano mai smesso di perdersi nei meandri di noiose partiture di blues acustico del Reverendo Gary Davis. La differenza fu evidente quando le strade si separarono, e gli Hot Tuna attraversarono gli anni settanta passando dal blues acustico a quello elettrico con risultati alterni e, viste le aspettative, anche deludenti. Ma Burgers resta l'opera del perfetto equilibrio tra le due anime, con Kaukonen a suo agio sia come rocker che come bluesman, e una serie di brani che funzionavano alla radio così come sulla strada dove erano nati, e dove rimarranno nello spirito. (NG)

http://www.youtube.com/watch?v=ExRaRnV3aJE (Video)

Take #2, prova anche: First Pull Up, Then Pull Down (RCA 1971)


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1972
James Luther Dickinson
 Dixie Fried  [Atlantic]

Uno dei lost record per eccellenza dei 70s, Dixie Fried è la carta di identità di un musicista che ha scritto la storia del rock'n'roll guardandola dai bassifondi, eppure sempre al centro dell'azione: Jim Dickinson arriva dai party con gli Stones, dalle session con l'Atlantic ai Muscle Shoals, dalle mille partecipazioni (l'elenco è infinito) in dischi altrui, ma alla fine si rifugia in un magma sudista chiamato appunto Dixie Fried in onore della sua vecchia band, i Dixie Flyers. È la sua personale lettura di Memphis, del rock'n'roll cittadino e delle sue radici: sarabanda di suoni e amici (tra i tanti anche Dr. John) che si rendono complici di un country rock sudista sopra le righe, tanto quanto l'interpretazione sguaiata dello stesso Dickinson. Intona odi ubriache in Wine e riti voodoo in O How She Dances, scortica ballate come Louise, riprende classici (Casey Jones, John Brown di Bob Dylan) rivoltandoli come un calzino: alla fine ne risulta un disco caotico ed eccitato che emana lampi di genialità assoluta. (FC)

http://www.youtube.com/watch?v=Wz247Owag7Q (Video)


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