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1971
Elvis Presley
 Elvis Country  [RCA]

Frutto di alcune febbricitanti sessioni tenutesi a più riprese negli studi di Nashville fra il giugno del 1970 e l'autunno successivo, Elvis Country non è un disco assemblato senza criterio dalla RCA, bensì una delle ultime dimostrazioni della vitalità che guidava The king agli albori del decennio, condizione testimoniata anche dalle sue performance dal vivo. Sarà purtroppo anche uno degli ultimi ruggiti, prima di declinare nella farsa e nell'autodistruzione. Un ritorno alle origini, che pescando dai suoi ricordi rivive il percorso delle sue radici di uomo del Sud, capace di passare da brani di Ernest Tubb e Bill Monroe al più contemporaneo (e ancora relativamente sconosciuto) Willie Nelson di Funny How Time Slips Away. Il suono è per la maggior parte diretto e impastato di hillbilly music, complice anche una band dove spiccano le chitarre di James Burton e il piano di David Briggs, esaltando finalmente l'anima rurale del ragazzo di Tupelo, Mississippi. (FC)

http://www.youtube.com/watch?v=e8L5jjOacVA (Video)

Take #2, prova anche: He Touched Me (RCA 1972)


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1971
Flaming Groovies
 Teenage Head  [Kama Sutra]

Per alcuni indissolubilmente legati al power pop dalle memorie sixties di Shake Some Action (il loro come back artistico del 1976), i Flaming Groovies più sporchi e testardamente rock sono in realtà da ricercare all'alba del decennio, quando Teenage Head scardina i viaggi onirici della baia di San Francisco riportando il rock'n'roll alla sua essenza più pura, ovvero sia nelle cantine. Qualcuno rumoreggia che gli Stones considerassero l'album in questione persino migliore di Sticky Fingers: mito o leggenda, Teenage Head è uno sfacciato revival dell'epopea della Sun records e della Chess passato al setaccio di un garage rock irriverente. I riff di Chuck Berry si mescolano al country blues più lascivo dando libero sfogo al canto sguaiato di Ron Loney e compagni: una sessione irripetibile per il gruppo, che insieme all'ospite Jim Dickinson (suo il piano in tre episodi) inscena un baccanale in piena regola (FC)

http://youtu.be/qIgB5Hmkugc (Video)

Take #2, prova anche: Shake Some Action (Sire 1976)


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1971
Gene Clark
 Gene Clark (White Light)  [A&M]

Ci aveva provato con un primo disco solista in cui, in anticipo anche su Gram Parsons, il country si affacciava tra beat e psichedelia, poi con l'avventura Dillard & Clark. Ma nella percezione dei più era rimasto "il primo cantante dei Byrds", quello legato ancora all'immaginario dei capelli a caschetto. Lui continuò per la sua strada e questo disco di ballate agre, dall'aroma inconfondibilmente rurale, prova che Gene Clark era un autore di primo livello: With Tomorrow e Spanish Guitar lo dimostrano senza mezzi termini. Prodotto da Jesse Ed Davis (superbo e dimenticato chitarrista), il disco scivolò via inosservato in quel 1971 occupato a scrutare musicalmente in altre direzioni, ma con il tempo è diventato un riverito breviario del songwriting più vicino alla radici agresti della canzone americana. (YS)

http://youtu.be/gzHZ-CqjKw0 (Video)

Take #2, prova anche: No Other (Asylum 1974)


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1971
Hound Dog Taylor
& The Houserockers
 Hound Dog Taylor & The Houserockers  [Alligator]

Lo scheletrico Theodore Roosvelt Taylor sorride dalla copertina di questo piccolo gioiello del blues elettrificato e il "levriero", dall'aspetto alla corsa del glissato (su un'elettrica più unica che rara) si diverte e non si prende mai sul serio. Col suo torrido punk blues, dal 1942 in cui arrivò a Chicago a questo disco prodotto da Bruce Iglauer (tra i pretesti di fondazione dell'Alligator Records, perché la Delmark di Bob Koester si era rifiutata di pubblicarglielo), dai juke-joint a Maxwell Street. Con Brewer Phillips all'altra chitarra (entrambi dal Mississippi) e il batterista Ted Harvey di Chicago, gli House Rockers rispecchiano senza fronzoli l'elettrificazione non ancora controllabile del suono del Delta, testimoni di Elmore James e precursori di R.L. Burnside e Jon Spencer Blues Explosion. (MF)

http://www.youtube.com/watch?v=KX9UG8rqRRQ (Video)

Take #2, prova anche: Natural Boogie (Alligator 1973)


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1971
J. Geils Band
 The Morning After  [Atlantic]

Per sempre gli "Stones americani" - un legame mai rinengato e semmai fomentato dall'amicizia di Peter Wolf con i glimmer twins - questi teppisti del rock'n'roll da Boston, Mass. (la definizione calza anche per l'influenza che avranno sui Del Fuegos...) sono la quintessenza di uno stile black, selvaggio, essenzialmente votato alla performance dal vivo. The Morning After si avvicina pericolosamente ai loro infuocati concerti con un rhythm'n'blues elettrico, torrido e smargiasso: due le hit che avranno fortuna, I Don't Need You No more e Looking for a Love, ma c'è anche il tour de force per l'armonica di Magic Dick (strumento solista principale, a differenza del clichè chitarrisico) in Whammer Jammer e soprattutto una Cry One More Time dal timbro soul che conquisterà anche Gram Parsons. (FC)

http://www.youtube.com/watch?v=iRezwP_znTc (Video)

Take #2, prova anche: J. Geils Band (Atlantic 1970)


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1971
J.J. Cale
 Naturally  [Shelter]

Se mai qualcuno avesse coniato il termine “laid-back sound”, quasi sicuramente potrebbe averlo fatto per J.J. Cale. Il marchio di fabbrica dello schivo personaggio, musicalmente cresciuto tra Nashville e Tulsa, emerge già dall’esordio di Naturally, e dall’esperienza personale degli anni precedenti col compagno di scuola Leon Russell e il bassista Carl Radle (poi coi Derek & The Dominos). Saranno i due a veicolare il provino di After Midnight nelle mani giuste, quando Clapton ne riconoscerà lo stile particolare, confermandone il talento. Lontano dalle scene, Cale non comunicherà mai attraverso l’immagine, ma con una musica di qualità, fatta di un blues’ n’roll caro ai più già da quest’album, quello di Call Me The Breeze o Magnolia, e della stessa After Midnight. (MF)

http://www.youtube.com/watch?v=21PHsqnG-qI (Video)

Take #2, prova anche: Okie (Shelter 1974)


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1971
John Hartford
 Aero-Plain  [Warner]

"Senza Aero-plain, e la band che vi suona, il new-grass non sarebbe mai nato". Queste parole di Sam Bush, una delle figure di spicco della scena tradizionalista americana, rendono l'idea dell'importanza seminale che questo disco riveste nell'intero panorama musicale di impronta roots. Registrato con una formazione essenziale ma stellare, con Vassar Clements, Tut Taylor e Norman Blake ad alternarsi fra i vari strumenti, Hartford confeziona con questo disco un capolavoro che riesce a sintetizzare il bluegrass più classico filtrandolo con un piglio più rock e modernista. Il disco, all'epoca, fu parecchio osteggiato dalla critica più oltranzista (ed ottusa), tuttavia il tempo ha dato ragione a John Hartford ed alla sua ciurma: pur senza averne la controprova, siamo sicuri che senza di lui il successo planetario di "O brother, where art thou?" non sarebbe mai stato possibile. E scusate se è poco. (GG)

http://www.youtube.com/watch?v=rN0iOkMNZqQ (Video)

Take #2, prova anche: Morning Bugle (Warner 1972)


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1971
John Prine
 John Prine  [Atlantic]

La scoperta di uno dei migliori songwriter nei secoli dopo la venuta di Bob Dylan: originale, con un senso vivido per l'immagine, per le storie e per le piccole magie delle parole. Per non dire di come John Prine è stato capace di dare una vita e un'anima a personaggi indimenticabili, primo tra tutti quel Sam Stone della canzone ominima, che aprì la lunga e interminabile strada del ritorno ai veterani del Vietnam. Vale la pena di ricordare, tra i gioielli del suo esordio, anche Illegal Smile e Paradise, quest'ultima incisa con il collega e amico Steve Goodman, bravo e sfortunato. Un classico del songwriting americano. (MD)

http://www.youtube.com/watch?v=eXqFFfVpnhQ (Video)

Take #2, prova anche: Sweet Revenge (Atlantic 1973)


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1971
Joni Mitchell
 Blue  [Reprise]

Non era facile nel 1971 per una donna riuscire a raccontare tutta la propria fragilità e debolezza in amore con piena libertà espressiva, soprattutto nel sessista mondo rock. Eppure Blue rivelò le tribolazioni amorose di una Joni Mitchell rimbalzata tra mille uomini, seguiti, riveriti e abbandonati a causa di un'inquietudine di vivere incomprensibile per le corde emotive maschili. Blue resta il "disco femmina" per antonomasia, perché privo di ogni machismo anche nell'utilizzo di un folk pianistico delicato e non ancora debordante verso il jazz che sarà nei dischi successivi. E' qui che vorrebbe arrivare il 99% delle cantautrici moderne, ed è qui che hanno provato a finire anche molti colleghi maschi, primo tra tutti il Dylan a cuore aperto di Blood On The Tracks, che a queste canzoni deve tantissimo. (NG)

http://www.youtube.com/watch?v=-q4foLKDlcE (Video)

Take #2, prova anche:  Court and Spark (Asylum 1974)


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1971
Merle Haggard
 Hag  [Capitol]

Indiscutibilmente l'artista country più importante emerso al di fuori di Nashville nei 60s, Merle Haggard prosegue nel decennio successivo una carriera stimolante e coraggiosa, che sa scrollarsi di dosso anche i successi e le polemiche di un brano immortale, ma scomodo, come Okie From Muskogee. Non resta imprigionato in un clichè dunque il buon Hag, che nel disco omonimo recupera il lato più gentile e riflessivo della sua penna: ne risulta un album maturo, uno dei più personali della sua lunga carriera, con ballate splendide quali Shelly's Winter Love e If You've Got Time e un tono generale più profondo e disilluso (Jesus, Take a Hold), che lo confermano al tempo come l'unico degno compare, per autorità e preparazione, di Johnny Cash. (DA)

http://www.youtube.com/watch?v=2xeCOhRkx2c (Video)

Take #2, prova anche: Someday We'll Look Back (Capitol 1971)



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