1986 |
John
Mellencamp | Scarecrow
[Mercury] | |
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Quintessenza del rock stradaiolo del decennio, Scarecrow
sancisce l'entrata nel mondo adulto di John Mellencamp: svestiti
momentaneamente i panni del bullo di provincia, il "piccolo bastardo"
del'lndiana alza i pugni e mostra fiere le sue radici in un disco che celebra
il rock delle origini e nello stesso tempo cerca un senso nell'appartenzenza alla
propria terra. Una band al pieno della sua potenza, il drumming portentoso di
Kenny Aronoff, le chitarre assassine di Mike Wanchic e Larry Crane al servizio
di un'anima blue collar che parla del Midwest ferito e getta un guanto di sfida
alle politiche iper-liberiste del periodo. Lo chiameranno heartland rock: dalla
parte della gente, populista si, eppure mai in vendita (FC) Take
#2, prova anche: Uh Huh (Mercury
1983) | -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
1986 |
R.E.M. | Life's
Rich Pageant [IRS] | |
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Per trovare un' identità definitiva, i R.E.M. passarono
nel giro di un anno da un album prodotto da Joe Boyd, padre di tutto il brit-folk
storico, a questo Lifes Rich Pageant, che fu messo nelle mani di
Don Gehman, produttore di John Cougar e uomo dai gusti più rudi e puramente americani.
Peter Buck per le parti di chitarra studiò tutta la sua collezione di vinili di
garage-rock degli anni 60, confessò un' insospettabile passione per l'hard rock
degli anni 70 e fece tesoro di tutta la violenza del punk californiano dei primi
anni 80. Un supporto ideale per le virulente invettive politiche di un grintosissimo
e rauco Michael Stipe, ma anche l'occasione giusta per definire il lato più duro
ed elettrico di una band che saprà maturare ancora, ma non ripeterà mai più un
simile perfetto mix di rabbia e gusto melodico. (NG) Take
#2, prova anche: Murmur (IRS
1983) | -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
1986 |
Stan
Ridgway | The
Big Heat [IRS] | |
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Libero, sciolti i Wall of Voodoo, di sceneggiare short-stories
in solitudine, Ridgway condensa la sua visionarietà in bozzetti noir di
pura letteratura sonora (memorabile il ritratto di reduce dal Vietnam di Camouflage),
mentre la musica ci proietta immagini dal futuro su un fondale di elettronica
mai banale. Il mondo in cui la sua voce nasale ci invita ad entrare, un po' giungla
metropolitana, un po' frontiera western, è una zona d'ombra in cui tutto può accadere:
anche che synth e batterie elettroniche mostrino la loro anima calda mentre le
chitarre elettriche feriscono le carni della canzone, oppure che un violino, un'armonica
o un banjo ne squarcino la pelle sintetica. Aspettando che languide note di tromba
ci riaccompagnino a casa, soli… (YS) Take
#2, prova anche: Mosquitos (Geffen
1989) |
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1986 |
Steve
Earle | Guitar
Town [MCA] | |
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Il paese delle chitarre è la terra dell'abbondanza, la land of
plenty dove anche un tipo scontroso come Stephen Fain Earle (meglio noto come
"Steve") può trovare la sua opportunità di successo ed espressione nonostante
una cronica insofferenza verso le regole precostituite. Ed è proprio nella Guitar
Town con cui Earle esordisce che si ritrovano, tutti insieme, l'hillbilly
operaio animato dalla voglia di ballare, l'individualista coraggioso, il polemista
politico, l'amante raggomitolato sulla lacrima country, il rock'n'roller che non
vuole crescere. Alcuni diranno "troppo country", altri "troppo rock", ma Someday
resta una delle più grandi ballate del decennio. Rock e radici, mescolati con
la rabbia grintosa del diseredato in cerca di riscatto, non impediranno all'album
di arrampicarsi fino al numero 1 delle classifiche country. (GC) Take
#2, prova anche: Exit O
(MCA 1987) |
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1986 |
The
Triffids | In
The Pines [Hot Records] | |
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Solitamente ricordati come una luminosa e in parte incompresa
creatura del desert rock australiano del decennio, i Triffids di In
the Pines arrivano dopo il celebrato capolavoro Born Sandy Devotional,
ambiziosa e dilatata raccolta di epiche ballate. In the Pines è l'esatto contraltare,
il cuore rurale della band dello sfortunato Dave McCormb (morirà tragicamente
qualche anno dopo) che porta allo scoperto l'attaccamento per la più scura tradizione
country e blues americana. Registrato su un otto piste in un vecchio capannone
sperduto fra il nulla delle lande australiane, il disco risuona ancora oggi come
il più sincero prodotto del loro interessante catalogo: un diamante grezzo infarcito
di ballate sghembe (si veda la caciara da saloon di Once
a Day) e sinistri rock delle radici. (FC) Take
#2, prova anche: Born Sandy Devotional
(Hot 1985) |
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1986 |
True
Believers | True
Believers [EMI America] | |
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Durati lo spazio di un secondo, i True Believers sarebbero
potuti diventare una delle forze trainanti della stagione del roots rock. Avevano
tutte le carte in regola: la produzione di Jim Dickinson, una artiglieria di chitarre
capace di stendere il nemico all'istante, almeno due songwriter di razza (Alejandro
Escovedo e Jon Dee Graham). Finirono i loro giorni nel caos, fra contratti
stracciati, dischi incompiuti, beghe interne e sogni di gloria, prendendo strade
soliste comunque colme di soddisfazioni. In principio fu semplicemente True Believers,
omonimo esordio che attualizzava il lascito del punk rock sposandolo con il sibilo
del deserto texano: un rock'n'roll livido dall'animo garage che aveva in bocca
a polvere del West. (FC) | -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
1986 |
Webb
Wilder | It
Came from Nashville [Landslide] | |
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Arriva da Nashville un treno in piena corsa che sbuffa rock'n'roll
scanzonato, con qualche complicazione honky tonk, punte di eccentricità surf e
garage, ma soprattutto uno schieramento di chitarre pronte a far saltare il banco.
Webb Wilder è un personaggio da fumetto, musicista e conduttore radiofonico,
occhialini alla Elvis Costello e look da detective prestato al roots rock americano
più fedele alla linea. It Came from Nashville, con la complicità
del produttore e sparring partner RS Field, diventa un piccolo caso, mai realmente
ripetuto dalla pur dignitosa produzione successiva. È la mescolanza di ironia
dissacrante e seriosa competenza musicale a rendere il disco qualcosa di più di
un semplice divertissment. (FC) Take
#2, prova anche: Hybrid Vigor (Island
1989) | -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
1987 |
Dave
Alvin | Every
Night About This Time [Demon] | |
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Il primo album della carriera solista dell'ex Blasters, che in
America è stato distribuito dalla Epic sotto il nome di Romeo's Escape, ha immediatamente
sancito che Dave aveva un ruolo di notevole peso specifico all'interno della band
ed il rifacimento di alcuni classici appunto dei Blasters nulla toglie alla sua
consacrazione. Infatti, sono proprio le nuove canzoni, ad iniziare da Every
Night About This Time, straordinaria ballata spezzacuore, ma anche
la drammatica Brother (on the line) e l'iniziale
Fourth Of July a stabilire il posizionamento
di Dave Alvin nel firmamento dei grandi della musica Americana, autore
di musica senza tempo e senza spazio da lasciare alle nuove generazioni. (GZ) |
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1987 |
Dumptruck | For
the Country [Big Time] | |
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Kirk Swan e Seth Tiven, due ragazzi del Massachussetts accomunati
dall'amore per Johnny Thunders, diventano una specie di risposta East Coast al
college-pop di REM e Db's. Ma con i loro Dumptruck sembrano non riuscire
a trascendere il pur appassionato sostegno della critica. Sicché, al terzo album,
Swan molla (suonerà poi con Steve Wynn) e Tiven, assoldato un nuovo chitarrista
selvatico, irruento e stradaiolo come Kevin Salem (farà grandi cose da solista
nei primi '90), se ne va in Scozia a registrare un piccolo capolavoro di angoscia
esistenziale e graffiante r'n'r. Non se ne accorge nessuno, eppure Friends,
50 Miles, Island,
Brush Me Back e Dead
Weight, ancorché canto del cigno di una band durata troppo poco e gravata
di troppe sfortune, vibrano ancora di splendida amarezza rootsy. (GC) Take
#2, prova anche: Positively Dumptruck
(Big Time 1987) |
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1987 |
John
Hiatt | Bring
the Family [A&M] | |
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Prendete un supergruppo formato da Jim Keltner alla batteria,
Nick Lowe al basso e Ry Cooder alla chitarra e aggiungetegli una delle più belle
voci da "nero bianco" del rock. Non basta? Prendete allora una manciata di canzoni
che spaziano per ogni sentimento dell'animo umano, dalla tristezza all'ironia.
Aggiungete un po' di ispirazione divina, insomma un tocco di quel mistero che
distingue i bei dischi dai capolavori. Mischiate tutto insieme ed avrete un prodotto
memorabile: Bring the Family. La magia in questo caso è riuscita
al sudista John Hiatt, che realizza il disco di una vita e ci regala quaranta
minuti di musica che riescono a comprendere una gamma di sensazioni come pochi
altri nella storia del rock americano. (GG) Take
#2, prova anche: Riding with the King
(Geffen 1983) | |