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1987
Lyle Lovett
 Pontiac  [MCA]

Dietro quell'aspetto buffo e a tratti quasi inquietante, che gli è valso alcune parti nei film di Altman, si è sempre celato un musicista tra i più importanti nell'America dell'ultimo ventennio, forse nessuno come lui (Randy Newman fa storia a sè) è riuscito a coniugare il country di Nashville con cantautorato più fine targato Texas (Guy Clark e Van Zandt per intenderci), oppure con il jazz e lo swing delle big band. Tutto ciò è mirabilmente documentato in questo suo secondo lavoro che resta ad oggi tra i migliori della sua carriera. Vi sono canzoni che sono da manuale per l'incisività delle melodie ma anche altre che colpiscono per l'abilità mostrata nel manovrare gli arrangiamenti, oggi è facile intuire che quelli non erano altro che i prodromi dell'ultimo bellissimo I'ts Not Big, I'ts Large. (GZ)

Take #2, prova anche: Lyle Lovett (Curb 1986)

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1987
John Mellencamp
 The Lonesome Jubilee  [Mercury]

Nonostante il suo blue-collar rock suonasse sempre più adulto e meno radio-friendly disco dopo disco, John Cougar non era ancora riuscito ad evitare di finire, per l'immaginario comune, nella schiera dei "nuovi Bruce Springsteen". Ma quello che fece sentire con The Lonesome Jubilee era indefinibile e lo emancipò definitivamente: non era rock, non era country e non era neanche folk, e oltretutto riusciva a sembrare moderno nonostante lo schieramento di violini, fisarmoniche e mandolini. Il fatto è che non era nemmeno più John Cougar, era John Mellencamp, un ex bulletto del rock che urlando il proprio sdegno per la "reaganomic" aveva ritrovato il suo vero nome e soprattutto un sound, il suo, un'assoluta novità nel 1987, una regola consolidata per tutto il rock americano oggi. (NG)

Take #2, prova anche: Big Daddy (Mercury 1989)


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1987
The Replacements
 Pleased to Meet Me  [Sire]

Pleased To Meet Me, prodotto da Jim Dickinson negli Ardent Studios di Memphis, ratifica la piena consacrazione dei 'Mats al più classico e viscerale rock americano: la sfacciataggine degli Stones di Exile condensata in mezz'ora di grandi canzoni, il power-pop a mitraglia dei primi Big Star sbriciolato in una fiumana di pennate hard e scariche elettriche, un'inedita sezione fiati a macinare grinta r&b con l'aiuto della sei corde di Alex Chilton (altrove omaggiato in un brano eponimo). Le accuse di tradimento sono messe in conto fin dalla copertina. La bellezza delle canzoni, dal sentimento fragile dell'acustica Skyway all'accartocciarsi esistenzialista di The Ledge, dalle fucilate di Alex Chilton e I.O.U. al congedo gonfio di soul di Can't Hardly Wait, non smetterà mai di incantare, commuovere, divertire, esaltare. (GC)

Take #2, prova anche: Tim (Sire 1985)


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1987
Robbie Robertson
 Robbie Robertson  [Geffen]

Nessuno ci aveva creduto al ritiro dalle scene annunciato da Robbie Robertson dopo l'ultimo valzer con la Band. La molla che lo rimise in pista fu la morte dell'amico Richard Manuel, ma l'uomo che lo convinse fu l'emergente Daniel Lanois, che gli portò in studio i protagonisti degli altri capolavori che stava producendo in quell'anno. Gli U2 di Joshua Tree, il Peter Gabriel di So, più le voci dei Bodeans e della fidanzata Maria McKee, i fiati di Gil Evans e i vecchi compari Rick Danko e Garth Hudson, tutti assieme per creare una delle migliori realizzazioni del Lanois-pensiero. In questo Robbie contribuì con una voce profonda e convinta, un tocco di chitarra mai così rude e nove canzoni perfette che parlavano dell'America magica e selvaggia dei pellerosse e di quella cinica ed erosiva degli yankee non dando mai l'impressione di parlar di politica. (NG)

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1987
Ry Cooder
 Get Rhythm  [Warner]

A furia di scavare nel fangoso sottobosco della tradizione, la musica di Ry Cooder stava mostrando un po' la corda. Ry decise così di dedicare anima e corpo solo al più remunerativo lavoro di produttore e soundtrack-maker, non prima però di pubblicare questa definitiva summa di tutto quello che aveva scoperto in vent'anni di onorata carriera. In Get Rhythm c'era Elvis Presley, c'era Johnny Cash, c'era Chuck Berry, c'era la frontiera raccontata attraverso l'immortale Across The Borderline dell'amico John Hiatt, c'era la musica di New Orleans e c'era il blues del Reverendo Davis. C'era il suo suono più aspro ed elettrico, quello che presterà a tanti altri artisti, quello che meglio sfruttava la sua voce spigolosa e sgraziata. E c'era tutta l'America che suona da sempre nei nostri stereo. (NG)

Take #2, prova anche: The Slide Area (Reprise 1982)


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1987
Suzanne Vega
 Solitude Standing  [A&M]

Non fu solo l'aver azzeccato uno di quei singoli che conoscono anche i muri come Luka, non fu solo l'aver aperto la porta al mondo discografico ad una schiera di nuove giovani cantautrici, non fu nemmeno il fatto che una esile e timida ragazza senza gli attributi tipici della vamp anni 80 divenne improvvisamente una star. Fu soprattutto che grazie a Solitude Standing ancora oggi intere generazioni di ragazze in tutto il mondo trovano la forza e la convinzione di imbracciare una chitarra e scrivere canzoni. Poco importa che non sarà nemmeno il disco migliore di Suzanne Vega e che la produzione di Lenny Kaye (chitarrista del Patti Smith Group) fosse anche parecchio furbetta. Contò il miracolo di aver riportato in cima alle charts la leggerezza e la semplicità di una folk-song, e non fu davvero poca cosa. (NG)

Take #2, prova anche: Suzanne Vega (A&M 1985)


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1987
Tav Falco's
Panther Burns
 The World We Knew  [New Rose]

Strano tipo, Gustavo Antonio Falco (in arte Tav) di Philadelphia: negli anni '80 strapazzava radici country, blues e rockabilly con l'ottica svalvolata di Cramps o Gun Club, senza però dimenticarsi mai di insaporire i preparati attraverso una saggia speziatura d'ironia ed esotismo. The World We Knew segue di diversi anni il folgorante esordio Behind The Magnolia Curtain (1981) ed è, nel complesso, il suo lavoro più rootsy e countreggiante, soprattutto in virtù degli interventi alla sei corde di Alex Chilton e Jim Dickinson. Se riuscite a immaginarvi un fumoso cabaret post-bellico dove Robert Johnson accompagna i poemi crepuscolari di Guido Gozzano, o dove il principe DeCurtis ripassa con cura la gommina di Charlie Feathers, mentre Jimmy Reed spazza tra i tavolini, avrete un'idea piuttosto attendibile dei contenuti del disco. (GC)

Take #2, prova anche: Behind the Magnolia Curtain (Rough Trade 1981)


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1987
Thin White Rope
 Moonhead  [Frontier]

Non ci basta lo spazio per elencare i motivi validi per ritenere i Thin White Rope una band fondamentale e ancora oggi incredibilmente influente. Il californiano Guy Kyser li fondò quasi per scherzo, scegliendo come nome l'espressione usata da William Borroughs per descrivere l'eiaculazione e riunendo altri pazzi che come lui mal digerivano la musica solare della loro terra, prediligendo le chitarre garage-rock degli anni 60, la psichedelia di San Francisco mischiata con echi del primo hard-rock più gotico, lo spleen dei Dark e della New Wave degli 80 e persino la granitica freddezza del kraut-rock tedesco dei 70. Un impasto di roots-rock acido e "desertico" che raggiunse con Moonhead, un'altra pietra miliare del Paisley Underground, la massima perfezione stilistica, una qualità che resterà comunque pressochè intatta fino all'abbandono delle scene del 1992. (NG)

Take #2, prova anche: In the Spanish Cave (Frontier 1988)


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1987
Warren Zevon
 Sentimental Hygene  [Virgin]

Vengono in mente pochi altri artisti oltre Warren Zevon in grado di smuovere nomi così altisonanti in proprio soccorso. La pletora di ospiti presenti nell'estremo saluto di The Wind aveva infatti già un precedente in Sentimental Hygiene, dove Neil Young, Bob Dylan, i R.E.M., Don Henley, Brian Setzer, Flea, George Clinton (per non citare i tanti chitarristi illustri presenti) festeggiavano il ritorno di questo sfortunato eroe dalla "Detox Mansion" dove si era ripulito dall'alcool. Il merito di Zevon fu quello di non sprecare tanta grazia coinvolgendo tutti in un disco che rilanciava a gran voce la forza dei songwriters di stampo classico, con il produttore Niko Bolas bravo a cucire addosso a dieci ottime canzoni un sound aspro e radiofonico al tempo stesso. Purtroppo ad accorgersi del gran risultato continuarono ad essere solo gli addetti ai lavori. (NG)

Take #2, prova anche: The Envoy (Asylum 1982)

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1987
The X
 See How We Are  [Elektra]

L'album del ritorno, della riscoperta (a modo loro) delle radici… dopo anni vissuti sul lato selvaggio, a urlare il proprio romanticismo punk e a sporcare con un rock'n'roll gonfio di decibel l'immagine solare della California dei dirty eighties, John Doe ed Exene Cervenka riportano tutto a casa e confezionano un album di roots-rock in cui il vero valore aggiunto sono le canzoni, forse mai di qualità così alta in un disco degli X. Fondamentale l'apporto di Dave Alvin, allora transfuga dai Blasters e, insieme al nuovo chitarrista Tony Gilkyson, valore aggiunto alla band. E' lui a portare in dote quella 4th of July che, insieme alla title track, segna l'ingresso del gruppo in territori in cui un heartland rock mellencampiano convive con gli ultimi retaggi delle cavalcate punk dei tempi che furono. (YS)

Take #2, prova anche: More Fun in the New World (Elektra 1983)

 


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