Proviamo a contestualizzare.
Tempo: un momento qualunque lungo la parabola apatica
degli anni zero (2004? facciamo 2004). Spazio: interno
giorno, ufficio. L’impiegato stacca gli occhi dallo
schermo del terminale, si leva le cuffie, risponde
alla domanda del collega della postazione accanto,
senza nascondere un certo fastidio. E’ solo un attimo.
Ora ha nuovamente indosso le cuffie, lo sguardo
puntato allo schermo. Lavorare per una grande azienda
nell’epoca d’oro del file sharing. Con la possibilità
di gestire il firewall. E’ come lasciare a un bambino
la chiave della pasticceria, a un adolescente la
password di Pornhub o a Keith Richards libero acceso
al magazzino della Jack Daniel’s. Dovete sapere
che l’impiegato condivide con la dolce Jane di Lou
Reed il fatto di avere avuto la vita salvata dal
rock and roll. E mica una volta sola. Ora il suo
sogno proibito ha i contorni della realtà quotidiana:
può ascoltare tutto quello che vuole quando vuole,
praticamente ogni album che desidera è a un clic
di distanza. Otto ore più pausa pranzo di ascolto
bulimico e maniaco-ossessivo, certo ci sono le riunioni
e altre stupide incombenze, ma servono solo a giustificare
l’accredito dello stipendio a fine mese. La medaglia
ha il suo rovescio, però. Chiamiamolo “rischio di
indigestione”. Tonnellate di file accumulate, mentre
la caccia ai vinyl rip di oscuri album di cantautori
californiani anni ’60 o di band new wave neozelandesi
anni ’80 sta cominciando a diventare, come dire,
fine a se stessa. Il gusto dell’accumulo ha preso
il posto di quello dell’ascolto. C’è l’esigenza
di essere salvati, di nuovo.
E’ in questo contesto
che la redenzione si manifesta provvidamente attraverso
un talentuoso songwriter di Chicago, alle prese
proprio in quel periodo con il difficile disco post-consacrazione
e con una dipendenza da antidepressivi. Naturalmente
conoscevo già bene l’opera di Jeff Tweedy:
mi ero entusiasmato come tutti per gli Uncle Tupelo,
scoperti ai tempi di Anodyne e poi ripercorsi
à rebours. Avevo quindi seguito dall’inizio l’avventura
Wilco, apprezzando assai la fase alt.country
ma non disdegnando neppure la svolta beatlesiana
di Summerteeth. Poi c’era stato il capitolo
Yankee Hotel Foxtrot. Disco che avevo più
ammirato che amato. Capivo perché fosse stato osannato
dalla critica e avesse aperto ai Wilco la strada
per la consacrazione definitiva. Lo capivo, ma non
ero riuscito davvero ad abbracciare con trasporto
quel suo sperimentalismo in precisa sintonia con
i tempi. Mi era sembrato troppo perfetto per lasciarsi
amare. Motivo per cui, quando ho letto di sfuggita
la mezza stroncatura che Pitchfork riservava al
successore A Ghost is Born(6.6, se
la memoria non mi inganna) la mia curiosità si è
accesa. Le parole spese sulle pagine di Rootshighway
mi hanno poi confermato nell’idea che A Ghost
is Born potesse essere l’occasione di una riconciliazione.
E’ stato più di questo. Dal minuto 2’02” di At
Least That’s What You Said, quando una serie
di rasoiate di chitarra interrompe i languori pianistici
che avevano accompagnato fin lì la voce di Tweedy,
un brivido che dalla base del collo ha percorso
la mia spina dorsale mi ha ricordato perché la musica
ti può davvero salvare, in certe situazioni. Ti
fa sentire vivo, semplicemente.
Ancora oggi, non
c’è un minuto di questo disco che mi suoni fuori
posto. Non è certo un disco perfetto, anzi. E’ il
tentativo di riportare lo sperimentalismo di YHF
a un livello più organico, certo meno controllato,
e a sonorità più immediatamente rock (e il classicismo
del successivo Sky Blue Sky confermerà questa
direzione): un tentativo che non evita passi falsi
e rischi. Ma ci si innamora più facilmente delle
imperfezioni, e così è successo a me. Anche la sequenza
dei brani ha un suo senso esatto che aggiunge valore
alle canzoni, retaggio di un tempo in cui i dischi
chiedevano di essere ascoltati nella loro interezza
e non si ragionava in termini di playlist. Pensate
alla facilità pop della conclusiva The Late Greats:
quanto guadagna in termini di incisività quel suo
chorus ruffiano, palesandosi dopo l’estenuante orgia
elettrocacofonica di Less Than You Think?
sintesi di metronomicità krautrock, spleen esistenziale
da folksinger, esuberanza power pop, pennellate
bucoliche e chiaroscuri autunnali degni dei Big
Star di Sister Lovers, A Ghost is Born
è il disco in cui il più stimolante gruppo rock
degli ultimi venticinque anni (mi perdonino i fan
dei Radiohead) mette la sua anima a nudo. Abbastanza
per indurti a disintossicarti dal consumo nocivo
di musica e tornare ad assaporarla come quando si
era adolescenti, vale a dire gustando ogni nota
come fosse l’ultima (o la prima mai sentita, che
è lo stesso).
Post scriptum:
l’impiegato si è licenziato, ora fa un lavoro che
lo gratifica, continua a comprare dischi (vinili,
di preferenza) e collabora con Rootshighway da una
decina di anni. Una specie di lieto fine, insomma.