Lucinda
Williams Down
Where the Spirits Meets the Bone [2014]
La scelta di:
Davide Albini
Una delle caratteristiche
indiscutibili del genere Americana, e più in generale
di tutto il mondo della canzone roots d’autore,
è la presenza importante, direi a volte quasi preminente,
delle figure femminili. Una buona volta non c’è
bisogno di pareggiare i conti con presunte “quote
rosa”, ma semplicemente occorre riconoscere che
l’altra metà del cielo nel folk americano si difende
bene, combatte ad armi pari, qualche volta prevale
nettamente. Le candidate che avrei potuto scegliere
erano diverse, da Gillian Welch a Mary Gauthier,
fino a figure più di confine come Neko Case o Jolie
Holland, ma se l’idea resta quella di un’artista
significativa, essenziale direi, per questi ultimi
venti anni, anche di RootsHighway, allora sarà scontato
ma torno sempre a Lucinda Williams. La quale
in verità è giro dai primi anni Ottanta, ha la stoffa
della veterana e anche un po’ il carattere di una
che non si arrende, che graffia e rivendica il suo
ruolo. La sua produzione è una montagna da scalare
per qualsiasi collega più o meno giovane, un punto
di riferimento, forse persino ingombrante, ma la
forza e l’ambizione di alcuni suoi album parlano
da sole.
Nell’età della saggezza, diciamo così, in quella
maturazione nata dopo il trionfo di Car Wheels
on a Gravel Road, che l’ha resa una “venerata
maestra”, c’è una sequenza di album invidiabili
che Lucinda ha inannellato a partire dal 2000 in
avanti e se la preferenza personale ricade su Down
Where the Spirit Meets the Bone è perché
si tratta di un doppio, pieno zeppo di chitarre
e umori blues rock sudisti, che sprigionano tutta
l’eredità musicale e poetica della Williams, figlia
di un professore e poeta (da cui trae ispirazione
proprio il titolo, una poesia del padre Miller)
e bambina che ha avuto la fortuna di conoscere la
grande scrittrice Flannery O’Connor. Mi piace pensare
che quell’incontro abbia avuto una qualche influenza
nascosta sul suo modo di comporre, sempre a cuore
aperto, con le ferite dell’anima in evidenza, con
quella voce che nel tempo si è increspata ancora
di più, tutta un brontolare e sospirare che ci trasmette
la sofferenza americana più profonda.
Down Where the Spirit Meets the Bone sbaraglia
gli altri candidati anche perché è capace di definire
un'intera carriera, il gesto di un'artista irriducibile,
che ha faticato parecchio prima di essere riconosciuta
e stimata dai colleghi stessi. La traccia acustica
in apertura, Compassion, scarna e ossuta,
sembra trarci in inganno. Il tradimento è nel suono,
poiché tutto quello che arriva dopo non assume le
sembianze di una raccolta folk: la compassione che
Lucinda reclama è per il mondo e la sua crudeltà,
mettendo insieme canzoni che da una parte hanno
un forte carattere narrativo (East Side of Town)
e dall'altra la solita dolorosa, malinconica espressività
(su tutte il capolavoro elettrico Foolishness)
che deriva dall'intimo dell'artista. Per ribadire
questi concetti, che accompagnano da sempre il suo
songwriting (come tutti i grandi autori, mi sento
di dire che Lucinda scrive in fondo sempre la stessa
canzone), qualcuno potrà pensare che non c’era bisogno
di pubblicare venti brani, per la bellezza di cento
e passa minuti di durata, ma Down Where the Spirit
Meets the Bone segna anche l'esordio ufficiale
della sua etichetta - Highway 20 Records - e tale
indipendenza andava celebrata, come una valvola
di sfogo.
Ben venga, se l’esito è poi questo flusso di jam
chitarristiche, di code strumentali, con una libertà
di esecuzione che richiama un live più che
un disco di studio. Persino il registro vocale della
Williams, limitato quanto volete, non è stato mai
utilizzato così intensamente, un saliscendi di mormorii,
fremiti e confessioni. Tutto è avvolto in una calda
ambientazione sudista, dove il country soul dell'autrice
della Louisiana si sfilaccia in un'improvvisazione
continua, con paludosi swamp blues (Protection,
Something Wicked This Wat Comes, West
Memphis, quest’ultima con la chitarra e l'armonica
del compianto Tony Joe White), sberle southern rock
(non posso non scegliere il riff assassino di Everything
But the Truth), e ancora tenere ballate roots
(It's Gonna Rain, dove compare anche la seconda
voce di Jakob Dylan) e fiammeggianti folk rock (Walk
On, classica con i profumi sixties della sua
melodia).
Un successo annunciato, visto che Lucinda si è barricata
in studio con Greg Leisz, la sezione ritmica di
Pete Thomas e Davey Faragher (dalla band i Costello),
Ian McLaglan (organista e leggenda ex Faces) e una
serie impressionante di chitarristi (oltre al fido
Doug Pettibone, ci sono Bill Frisell, lo stesso
Greg Leisz, Stuart Mathis e Val McCallum), roba
da fare invidia al più celebrato dei rocker americani.
L'intero progetto poteva in ogni caso sfuggire di
mano, diventare insomma una parodia di se stesso:
non accade mai, datemi retta, anche quando Cold
Day In Hell e la ballata country This Old
Heartache sembrano rifare il verso alla Williams
che conosciamo da una vita. Poi arrivano i nove
minuti di Magnolia: una cover stellare che
neppure la buonanima di JJ Cale avrebbe mai potuto
immaginare in questa versione strascicata, sospesa,
magnifica, come l’intero contenuto di Down Where
the Spirit Meets the Bone.