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The Dream Syndicate
How Did I Find Myself Here?
[2017]

La scelta di: Domenico Grio


Era il 1984, mi trovavo a casa di un amico che strimpellava il basso ed aveva un bel po’ di 33 giri “strani”. La cosa mi incuriosì parecchio, al punto che mi feci prestare qualcuno di questi dischi. Il primo a finire sul piatto fu, neanche a dirlo, The Medicine Show dei Dream Syndicate. Non sarà difficile capire come, per un ragazzino di 14 anni che aveva come punto di riferimento Buona Fortuna dei Pooh ed altre cosette che per pudore è meglio non citare, l’esperimento abbia avuto lo stesso impatto della scoperta del fuoco per l’Homo Erectus. Era come scendere da un Ciao e saltare in sella ad un Kawasaki GPZ. I neuroni che salutano, escono a fare il giro dell’isolato e tornano con qualche problema di adattamento e le sinapsi che, più o meno durante lo sferzante effluvio elettrico di John Coltrane Stereo Blues, accendono i reattori e spacciano dopamina manco fossero dei corrieri del cartello di Medelin. Tutto quello che sarebbe accaduto dopo, inevitabilmente, altro non è che la mia vita scandita dalla musica. Un susseguirsi di forti emozioni e grandi incontri, tra cui proprio quello con Steve Wynn, conosciuto a Roma, in occasione del suo 35° compleanno, grazie al “maestro” Giancarlo Susanna (per chi non lo sapesse, uno dei più grandi giornalisti musicali, purtroppo scomparso da qualche tempo).

Ventidue anni dopo arriva, straordinario ed inaspettato, How Did I Find Myself Here?, erede di Ghost Stories e magnifico seguito di Live at Raji’s, monumentale lascito testamentario datato 1989, e la speranza diventa quella di rivivere in prima fila un pezzettino di quel vecchio “sogno” spezzato sul più bello. Allora succede che la realtà superi la fantasia. Così a novembre del 2018 Steve e Chris Cacavas vengono a suonare in Calabria e, come d’incanto, li ritrovo nel mio salotto, tra i miei dischi, accompagnati dal road manager che altri non è che lo stesso giovanotto che 34 anni prima mi aveva prestato quel piccolo, misterioso ed avvincente capolavoro in vinile. Cerchio chiuso. Detto ciò, nella speranza che mi si voglia perdonare questa digressione autobiografica (semel in anno licet insanire), in conflitto con ogni protocollo di buona scrittura giornalistica (Giancarlo, dovunque tu sia, perdonami), non mi resta che dismettere i panni del fan adolescenziale e vestire nuovamente quelli dell’irreprensibile recensore (mi pare si dica così).

How Did I Find Myself Here? è il migliore album dell’ultimo ventennio? Forse sì, molto più probabilmente no ma la questione in realtà non è da considerare in questi termini. Quello che hanno realizzato i Dream Syndicate dando alle stampe questo disco, è qualcosa che non ha precedenti nell’epopea della musica rock, almeno non nei termini in cui questa mitica band californiana si è rimessa in gioco. Nessun gruppo, morto e sepolto da decenni, è infatti mai riuscito a tornare dagli inferi con un progetto così convincente e affascinante, in grado di disintegrare il tempo e riprendere il discorso esattamente nel medesimo punto dove si era interrotto. Ma i pregi di questo lavoro sono da ricercare anche nella sua enorme valenza storica. Il disco ha ridato vita con inusitata potenza a quell’ensemble e, al contempo, è riuscito a rivalutare un’intera stagione, apponendo l’imprimatur di eccellenza alla saga del Paisley Underground e, persino, a buona parte dei tanto vituperati anni ’80. I Dream Syndicate sono tornati e non da comparse, piuttosto per riprendersi quel posto che 30 anni fa occupavano di diritto e che adesso hanno acquisito per manifesta superiorità. Il che si traduce nella consequenziale considerazione che quelle idee fossero già eccezionalmente valide all’epoca e che quei musicisti, mai spariti di scena, fossero di una stoffa speciale.

È anche vero che il segreto della riuscita di questa riapparizione discografica vada ricercato nell’intelligente e graduale ricollocazione della band. Steve, aiutato da Denis Duck, altro superstite dell’originaria formazione, da Mark Walton, già nella line up fine anni ottanta, da Jason Victor, chitarrista dei Miracle Three e da Chris Cacavas, storico tastierista dei Green on Red, a tutti gli effetti quinto effettivo del gruppo, ha fatto tutto senza spinte ansiogene. Prima riassaporando il gusto di suonare dal vivo assieme, poi spostando l’accento sull’aspetto romantico e in ultimo, riusciti i precedenti step, ragionando al nuovo album in studio, le cui canzoni, nel frattempo, erano già in fase avanzata di scrittura.

L’apertura del disco è affidata a Filter Me Through You e, per quelli che hanno vissuto in diretta quegli anni di revival psichedelico, è un vero tuffo al cuore. L’elemento temporale è istantaneamente abbattuto ed il sound dirompente ed acidulo, figlio degli ardori sixties e delle virulenze punk, dell’art rock dei Velvet Underground e dei San Francisco Nuggets, si riappropria con prepotenza degli spazi che il prematuro scioglimento della band gli aveva negato. Si ricomincia dalla fine o forse persino da dove si era iniziato, contemperando gli umori del passo d’addio con le spinte più graffianti di The Days of Wine and Roses. E queste sensazioni non mutano con lo scorrere dei brani, vengono piuttosto puntellate da passaggi nostalgici (Glide), dal debordare delle chitarre su profili distorti e psicotici (Out Of My Head e The Circle) che richiamano anche le esperienze soliste del Wynn fine anni ’90, dal raffinato fluire di passaggi onirici (Kendra’s Dream, scritta da Steve e Kendra Smith) e di strutture ritmiche fortemente evocative dei classici (80 West).

L’anello di congiunzione tra i Dream Syndicate del XX secolo e quelli del terzo millennio, che avranno modo di presentarsi in pompa magna con il successivo These Times, potrebbe essere la title track, una lunga escursione dagli eterogenei e freschi impasti sonori, moderatamente taglienti e spigolosi e magistralmente guarniti dalle parti riservate a Chris Cacavas, il quale continua a maneggiare il pianoforte con fine gusto musicale.

How Did I Find Myself Here? è stato per RH, come per altri giornali specializzati, disco dell’anno ma ciò può anche valere poco, quel che conta davvero è che ci abbia riconsegnato, in stato di grazia, una delle rock band più importanti della storia americana. Un album coraggioso, unico, direi fondamentale, destinato a divenire una perla da riporre nel forziere delle nostre cheap thrills o, per i più giovani, il biglietto di sola andata per un entusiasmante viaggio intertemporale a bordo di una carrozza vietata a trapper, teen idol e “popparoli” di ogni stato e grado.


    



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