Festeggiare i
vent’anni di Rootshighway per me ha un doppio significato,
coincidendo con i miei dieci anni di collaborazione
con il sito. Un’esperienza iniziata per caso ai
tempi del forum (poi sostituito dall’invasione di
Facebook…) che mi ha permesso di approfondire artisti
e gruppi che conoscevo poco o per nulla, allargando
conoscenze e passioni musicali, con soddisfazione
della mia anima e profonda insoddisfazione delle
finanze famigliari. Ma se è vero che i miei ascolti
sono sempre più vari, alla fine non c’è nulla che
mi esalti come lo sferragliare delle chitarre! Per
questo ho scelto una band (nucleo che nella musica
odierna, anche rock, è sempre più raro), una vera
band, che dalla fine degli anni Novanta ha tracciato
un percorso glorioso tanto da farla considerare
una delle migliori del panorama contemporaneo, in
qualunque modo lo si voglia definire tra roots,
southern o americana.
Un percorso che, come nella migliori tradizioni,
non è stato rettilineo e privo di asperità, bensì
pieno di curve, con picchi (tanti) e cadute (un
paio), scazzi, litigi, scontri di personalità, affetto…
Perché è questo che forma e rafforza una band! I
Drive-By Truckers sono quanto di meglio abbia
prodotto il rock americano di matrice classica,
ispirato da nomi storici come Rolling Stones e Neil
Young, dal southern rock, dal blues e dal soul.
Da sempre vivono sul rapporto tra due grandi amici,
Patterson Hood e Mike Cooley. Il primo, classe ’64,
nato a Muscle Shoals in Alabama, la città degli
omonimi leggendari studi di registrazione, figlio
di David Hood che ne è stato il bassista; il secondo,
classe ’66, nato a Tuscumbia in Alabama, a pochi
chilometri di distanza. Nell’85 formano gli Adam’s
House Cat, poi suonano in duo come Virgil Kane (un
nome a caso…), poi formano gli Horsepussy infine,
dopo un periodo di separazione, nel ’96 si rivedono
ad Atlanta per la nascita dei Drive-By Truckers.
Un paio di dischi di assestamento, la prima vera
notorietà con l’ambizioso doppio Southern Rock
Opera nel 2001, quindi il passo decisivo, ovvero
l’inserimento di un terzo cantante, chitarrista
e autore nel corso del tour del doppio album.
Costui è il giovane Jason Isbell, da Green Hill,
nell’Alabama rurale al confine con il Tennessee,
che curiosamente contatta Patterson e Mike tramite
David Hood e che prima di entrare nei Truckers lavorava
per i Fame Studios, sempre a Muscle Shoals. Jason
porta nella band anche la moglie Shonna Tucker al
basso, che completa la line-up con il batterista
Brad Morgan. Bisogna aggiungere ancora due componenti
a questo quintetto: il produttore e amico di sempre
David Barbe (già bassista dei Sugar) e il disegnatore
Wes Freed, che colora ogni disco e canzone (nonché
i poster dei concerti) con il suo tratto oscuro
e drammatico, molto southern gotico. A questo nucleo
è legato il momento migliore della band, tra il
2003 e il 2007, con tre album eccellenti: Decoration
Day, The Dirty South, A Blessing
And A Curse oltre alla raccolta di covers e
outtakes The Fine Prints. Seppur di poco
The Dirty South mi sembra il più completo,
con le canzoni e il suono migliore, il disco in
cui raggiungono un equilibrio perfetto la scrittura
narrativa di Patterson, quella dolente e malinconica
di Jason e quella un po’ pigra e amara di Mike.
E’ un concept che raccoglie storie e leggende del
Sud, ispirate perlopiù da personaggi o fatti reali
come Sam Philips (Sun Records), John Henry e lo
sceriffo Buford Pusser (tre canzoni solo legate
alla sua figura). Come sempre Hood è il più loquace:
oltre a raccontare nelle note la genesi del disco,
ne scrive sei tracce (da notare come lui e Cooley
scrivano i testi mentre le musiche sono divise con
gli altri, mentre Jason firma da solo), tra le quali
la dura e aggressiva Puttin’ People On The Moon,
la cadenzata Tornadoes, il rock potente di
The Buford Stick e la spinosa Lookout
Mountain già pubblicata con gli Adam’s House
Cat. I contributi di Cooley sono la cupa e rabbiosa
Where The Devil Don’t Stay (con le chitarre
sferraglianti che amo) che apre splendidamente il
disco, il rock scorrevole e incisivo di Carl
Perkins Cadillac, l’acustica Cottonseed
e il ruvido mid-tempo Daddy’s Cup.
Come Cooley anche Isbell non sbaglia un colpo, sia
quando spinge sull’acceleratore in The Day John
Henry Died e nell’anthem sudista Never Gonna
Change debitore della rabbia chitarristica dei
Crazy Horse, sia (ancora meglio) quando rallenta
ad arte il ritmo nelle magnifiche ballate Danko/Manuel,
degna del titolo che ricorda i due membri di The
Band e Godddamn Lovely Love, che chiude in
modo afflitto e accorato un album sontuoso.