La vita del lavoratore
itinerante è tutto fuorché avventurosa e interessante.
Spesso se dico a qualcuno che devo andare in una
città per lavoro, quello mi risponde subito “ah,
che fortuna, allora vai a vedere questo o quel monumento.”.
Come se fosse una vacanza. Io invece so che i viaggi
di lavoro sono sempre calcolati al minuto per risparmiare
sui costi, che spesso sono con colleghi, e quindi
non posso liberarmi come vorrei. Ma quell’8 maggio
del 2007 mi trovai a Roma, con tutto un pomeriggio
e una serata da passare in solitaria, e così ebbi
effettivamente la possibilità di fare un po’ il
turista. E, per la serata, dato un veloce sguardo
a internet (in hotel, gli smartphone ancora non
esistevano, anche se pare incredibile a dirsi oggi),
vidi che al Piper, luogo che immediatamente mi ispirava
ricordi dei gloriosi anni 60 e delle minigonne di
Patty Pravo, era di scena Cat Power.
The Greatest, il suo settimo album,
era uscito più di un anno prima, ed era stato per
me una piacevole scoperta di un'autrice che non
avevo avuto la fortuna di incontrare prima. Ero
andato a recuperare i suoi dischi precedenti, ed
effettivamente quello era un disco che riusciva
a farle compiere un deciso salto di qualità, rendendo
la sua musica forse più inquadrata in schemi classici,
e quindi più prevedibile (come lamenterà qualche
fan della prima ora, innamorato dell’essenzialità
acustica dei primi lavori), ma decisamente più matura.
Quella sera però sul palco del Piper rimasi scioccato
nel constatare come Chan “Cat Power” Marshall era
ai tempi qualcosa di più di una semplice cantautrice,
era un’anima fragile che sul palco liberava tutte
le sue insicurezze in una performance solo apparentemente
incerta, ma proprio per questo emotivamente fortissima,
oltretutto splendidamente supportata da una ottima
band classicamente battezzata Dirty Delta Blues
Band. Era come se a scuola la ragazzina sempre taciturna
e timida là nell’angolo si fosse fatta improvvisamente
violenza da sola, per prodigarsi in una esibizione
artistica impressionante per intensità e capacità
di mettere a nudo ogni singolo sentimento della
propria anima. Cat Power le canzoni non le cantava,
neanche le interpretava, semplicemente le faceva
esplodere con movimenti tremanti e l’incapacità
di guardarci negli occhi, quasi avesse paura del
nostro giudizio.
Quella sera presentò The Greatest, e anche
qualche rilettura che sarebbe poi finita sul successivo
cover-record Jukebox, e diede a qualche suo
vecchio brano una nuova veste, che l’uso massiccio
dell’organo Hammond rendeva forse la cosa più vicina
all’idea di musica che aveva avuto Laura Nyro 35
anni prima di lei. Cat aveva voluto registrare The
Greatest a Memphis, usando una serie di session-men
locali che portarono in dote un sound decisamente
demodè (dove altro si sentiva un assolo di sax come
quello di Willie in un disco indipendente
del 2006?), ma molto vicino a certo soul-rock degli
anni 90. Ma lei ci mise anche una lista di brani
in cui si stracciava le vesti per mostrare tutto
quello che aveva sotto, e non è un caso che fosse
anche il suo primo disco completamente autografo.
La title-track raccontava di un crollo emotivo,
rappresentato da un diluvio che faceva scendere
dal piedistallo di “la migliore” di tutti la protagonista.
E dopo arrivavano la timidezza con cui viveva le
tenerezze dell’amore in Could We, la visione
di sé stessa come un figliol prodigo che esce dall’alcolismo
di Lived In Bars, e ancora una volta le certezze
che crollano per la fragilità dei rapporti amorosi
di Islands (“vorrei governare le isole e
il mare, ma se tu non torni, dormirò in eterno”).
Laddove Joni Mitchell aveva insegnato al mondo femminile
ad esprimere i propri sentimenti senza filtri e
senza dover usare stereotipi maschili, Cat Power,
seppur meno brava a giocare con le parole, andò
oltre, e trasformò la confessione in una vera e
propria dichiarazione di resa incondizionata, con
il tema dell’orgoglio personale che crolla davanti
alla paura di perdere l’amato che faceva da filo
conduttore. E se la copertina, decisamente maschile,
se non proprio “machista” con la simbolica collanina
con i guantoni da pugile degna di un gangsta-rapper,
è una dichiarazione di guerra e di voglia di combattere,
le canzoni sono invece un'unica richiesta (anche
disperata in Where is My Love?) di pace con
l’altro sesso (in Empty Shell arriva a perdonare
il tradimento dell’uomo che l’ha appena abbandonata).
“La luna non è solo bella, è anche tanto lontana”,
il verso che inizia The Moon, sembra dire
tutto sul suo stato d’animo, stupefatto per la bellezza
dell’amore, ma anche rassegnato a non saperne godere
a fondo. Forse solo a causa dell’incapacità a comunicarlo
correttamente (Love and Communication), o
forse solo per quell’odio che si ha dentro, ben
descritto dal brano Hate, dove la frase “non
ci sono leggi o regole per liberare la tua vita
dalle catene”, suona come una auto-condanna per
la propria propensione all’auto-punizione.
The Greatest resta una splendida seduta di
analisi, dalla quale la stessa Cat Power faticherà
a riprendersi.