Abile nel “rimodellare”
tratti personali e leggenda - Peter Guralnick, nell’imperdibile
libro Sweet Soul Music, ne tratteggia colori
e sfumature -, Solomon Burke (1936 - 2007)
è stato uno dei più grandi e influenti interpreti
soul-gospel e dintorni. Un po’ di storia. Nei primi
’50 si fa strada a Philadelphia (dove nasce), in
chiesa e in programmi radio, guadagnandosi il soprannome
di “wonder boy preacher” Dopo alcune incisioni di
modesto rilievo, approda all’Atlantic e, nel ’61,
si affaccia alle classifiche r&b con Just Out
Of Reach, cover di un brano country. Negli studi
di New York incrocia il grande compositore/produttore
Bert Berns: a partire da Cry To Me (’62),
la collaborazione frutta una serie di brani pregevoli.
L’anno dopo, alcuni suoi 45 entrano nelle “charts
r&b”: tra questi If You Need Me (che Wilson
Pickett aveva già proposto, inutilmente, a Jerry
Wexler…), il cui retro è la strepitosa You Can
Make It If You Try, concentrato gospel-soul-blues;
Everybody Needs Somebody To Love (’64) rimane
un po’ in ombra (diverrà popolarissima negli ’80
grazie ai Blues Brothers), così come la dolente,
autobiografica The Price.
L’esplosione del fenomeno soul gli crea problemi
di concorrenza: Otis Redding, Wilson Pickett, James
Brown, Joe Tex, tra gli altri, ottengono risultati
di vendita migliori, frenandone l’ambizione di venire
riconosciuto come “King of Soul”. Ci proverà a pretendere
il titolo con King Solomon (immaginario biblico?),
penultimo LP (’68) per l’Atlantic, che contiene
un paio di gioielli quali Take Me e Baby
Please Come Home (ripresa anche dai Led Zeppelin).
Lasciata l’etichetta newyorkese, nel ’69, a Muscle
Shoals incide il capolavoro Proud Mary, album
che, oltre all’omonima song dei Creedance Clearwater
Revival, contiene altre cover di rango. Per alcuni
anni si mantiene a galla seguendo le tendenze del
momento, anche la disco (con la Chess…), in veste
“crooner sornione”. Negli ’80 ritrova le sue radici
gospel con la Savoy e, sino a fine ‘900, si fa apprezzare
per qualche “passaggio” r&b e pop (Rounder e altre),
e in qualche concerto (da noi, soprattutto a Porretta
Terme). Nel 2002, quando sembra non poter più offrire
gli standard qualitativi del passato, Burke ritorna
alla grande con l’album Don’t Give Up On Me,
grazie a un produttore (Joe Henry), autori e a musicisti
di rango, che gravitano in “aree” cantautorali rock
e pop.
Tre anni dopo (eccoci finalmente) conferma l’ottimo
stato di salute, pescando ancora nel repertorio
di singers-songwriters prestigiosi, tra questi Bob
Dylan e Van Morrison, già chiamati in causa nella
precedente opera. Make Do With What You Got
è prodotto da Don Was, che vanta esperienza in campo
rock e black: brillante regia che fotografa l’anima
del grande soulman, con arrangiamenti, musicisti
e coristi di rilievo. Qualche passaggio di mestiere,
ma i dieci brani consegnano uno dei migliori prodotti
del “soul preacher” afroamericano, con punte qualitative
elevate. Apre I Need Your Love In My Life
(Coco Montoya), solido rock, dalle coloriture latino-funky-blues:
uno scaldamuscoli che prepara all’exploit dell’artista
di Philadelphia; seguono il pregevole, introspettivo
mid-tempo What Good Am I? (Dylan) - una “tensione
climatica” a cui Solomon dà vaghe sfumature gospel
-, e il riflessivo, pacato It Makes No Difference
(Robbie Robertson).
Al più canonico, interlocutorio Let Somebody
Love Me, si fa preferire lo slow blues-soul
After All These Years (co-firmato dallo stesso
Burke), che fa risalire “l’intensità immaginifica”:
segnato dalla tensione autobiografica, sottolineata
da un’efficace struttura strumentale, in quasi impercettibile
crescendo. La successiva Fading Footsteps
ha una più consueta cadenza country, forte di qualche
impennata vocale. Altro gioiellino è la slow ballad
At The Crossroads, scritta per lui da Van
Morrison, suo dichiarato ammiratore (e agli inizi
della carriera solista, anche lui aveva avuto a
che fare con Berns): un marchio interpretativo che,
oltretutto, va a confermare alcune eccellenti “similitudini
soul” tra i due. I Got The Blues è il capolavoro
dell’album, e lega il nostro a quei Rolling Stones
che ai loro esordi incisero Cry To Me e Everybody
Needs Somebody. Una splendida song, firmata
Jagger-Richards (da Sticky Fingers, LP del ’71,
in parte registrato a Muscle Shoals…). L’attacco
è quello lancinante, viscerale dell’hammond di Rudy
Copeland: clima introduttivo perfetto per la formidabile
tensione interpretativa espressa da Solomon, ben
supportato anche dagli altri musicisti e dal coro,
con passaggi imperdibili, che lo riportano al meglio
dei ’60-’70; un’intensità emozionale che potrebbe
durare ancora vari minuti, e fa scattare l’impulso
di ripeterne immediatamente l’ascolto.
La drammaticità si stempera coi colori e i toni
funky di stampo “fatalista-neworleansiano” offerti
da Made Do With What You Got (Dr. John).
In chiusura arriva l’eccellente Wealth Won’t
Save Your Soul: amara constatazione, in forma
di ballad a tempo di valzer lento, che arriva dal
grande Hank Williams, e ha l’efficacia strutturale
per evidenziare altre sfumature interpretative dell’artista
afroamericano. E’ tutto, e a conti fatti, è l’ultima
grande testimonianza della sua arte.
p.s. Tanti gli album, usciti da vent’anni a questa
parte, meritevoli di grande attenzione. Almeno dieci-venti
meriterebbero spazio. La “sofferenza di scelta”,
oltre a Don’t Give Up On Me, ha portato a
sacrificare anche un paio di gioielli di Mavis Staples
(soprattutto!), opere di Leyla McCalla, Bettye Lavette,
Allen Toussaint e...