Un doppio disco
che ai tempi di un'industria discografica con il
bastone del comando (e dunque un'epoca che quasi
facciamo fatica a ricordarci...) sarebbe potuto
uscire in versione singola, tagliuzzato e ricondotto
nei ranghi da più miti consigli. Una soluzione
che la proverbiale prolificità e la folle confusione
che si annida da sempre nella testa e nel cuore
del suo autore non ha minimamente preso in considerazione.
Per fortuna! Ne è uscito il compendio della sua
arte: imprecisa, febbricitante, generosa.
Avevo una scommessa aperta con Ryan Adams,
da quando il suo debutto solista, Heartbreaker,
si lasciava alle spalle la breve, bellissima parabola
dei Whiskeytown, frutto maturo dell’alternative
country. Era l’autunno del 2000, collaboravo con
un portale di e-commerce della grande editoria,
evaporato in pochi mesi dopo quella gaudente bolla
che fu la marcia della "new economy".
Entrai un giorno trionfante in redazione e dissi
a un caro amico, che mi aveva coinvolto in quell’avventura:
ascolta questo disco, e mettiamolo subito in vetrina
sul sito, perché questo ragazzo farà strada. Sapete,
qualcosa del tipo “ho visto il futuro del rock’n’roll”,
soltanto circoscritto alla stupida vanità di uno
scribacchino che si era inventato da qualche mese
uno scalcagnato blog musicale per conto proprio,
chiamandolo RootsHighway. Poi arrivarono Gold
e sorattutto quella canzone, New York, con
il simbolico video, suo malgrado, delle Torri Gemelle
alle spalle... E Ryan Adams si era trasformato di
botto nel nuovo ambasciatore dell’american rock’n’roll.
Ci è voluto però ancora qualche anno, e una band
nuova di zecca, The Cardinals, grazie ai quali condividere
l’idea di un suono che sarebbe diventato mediazione
e sintesi del concetto di classic rock americano.
Aspetto niente affatto secondario, che riassume
lo spirito "settantesco" eppure mai nostalgico che
pervade ogni nota di Cold Roses, quello
che nel 2005 fu il ritorno a casa, artistico e sonoro,
di Ryan Adams, l'accogliente abbraccio nelle trame
rinnovate della tradizione, fra quelle suggestioni
country rock progressive e quelle scie di cosmica
americana, che una volta ci fecero inginocchiare
in preghiera davanti ai santini dei Whiskeytown
o del suddetto esordio solista Heartbreaker.
Personaggio incontrollabile (nello stesso anno avrà
l’ardire di pubblicare altri due lavori, il languore
country di Jacksonville City Nights e il
folk minimale di 29), un teppistello che
maneggia la storia del rock assecondando i suoi
capricci, Ryan Adams avrà pure le sue colpe, vero
genio o autentico bluff decidete voi, ma francamente,
dietro l’immacolata fotografia delle sue radici
di musicista in questo Cold Roses, vibrano
soltanto canzoni maledettamente belle, rotonde,
che compongono un quadro assai più complesso di
quello che si vuol far credere.
Perchè Ryan Adams le canzoni le ha sempre sapute
scrivere, ammettiamolo, a volte con l’arte di un
fine cesellatore, altre inseguendo il più puro motto
di istinto, compresi sprechi e fallimenti, aprendo
spazi di memoria, agganci a un passato che rappresenta
l'alfabeto stesso dell'american music, quel suo
costante misurarsi con l’eredità delle sue roots.
A metà del guado, tra le livide suggestioni da ballate
al neon e il rock newyorchese di quell’opera da
rivalutare che fu Love is Hell, e l’equilibrato
sposalizio tra pop e Americana di Gold, Cold
Roses è un monumento all'arte della ballata
rock urbana, con appendici folk più marcate, ciononostante
sempre nuove all'ascolto. I Cardinals sembrano proprio
la band adatta a far scattare la scintilla: un combo
essenziale per le scorribande del leader, qui più
che mai in spolvero vocale, e la produzione di Tom
Schick che non fa rimpiangere quell’Ethan Johns
anima gemella del nostro agli esordi, ma semmai
opta per un suono ancora più corposo e luccicante,
ordito che intreccia un arazzo di acustico ed elettrico.
Ryan Adams è in preda a romanticismo e spleen, che
gli sgorgano naturali, di struggimenti d'amore che
lo rendono particolarmente giudizioso, soprattutto
nel primo round di questo doppio album, dove ricorre
spesso alle luci soffuse: Magnolia Mountain
e Mockingbird scaricano tuoni elettrici e
persino un pizzico di psichedelia figlia dei Grateful
Dead bucolici, su un tappeto che ha la forma della
ballata infusa di soul, ma il resto è tutto una
successione di irresistibili ganci folk rock (una
Cherry Lane che è classica al primo istante),
di melodie dolcissime (Sweet Illusion, When
Will You Come Back Home) e apertamente fragili
(Now That You're Gone, la pianistica How
Do You Keep Love Alive), interrotte solo in
un’occasione dallo sbottare di Beautiful Sorta,
solita genuflessione al suo mentore Paul Westerberg
(Replacements e oltre).
La seconda ripresa risulterà ancora più trascinante,
perchè semplicemente compiuta nel riassumere la
cifra stilistica di Ryan Adams e ciò che lo ha reso
negli ultimi vent’anni uno dei pochi, grandi classici
emersi dalla generazione di autori alt-country sbucati
dala sperduta provincia americana (l'altro, azzardiamo,
Jeff Tweedy), quindi a sua volta punto di riferimento
stilitico per altri giovani discepoli a venire:
l'incedere armonioso di Let it Ride e If
I Am Stranger, il rock dall’infallibile taglio
seventies della stessa Cold Roses e di Life
is Beautiful, e ancora quella Dance all Night
trafitta da un’armonica "dylaniata" che
pare aggiornare la miracolosa Firecracker
contenuta in Gold, e poi… E poi scoprite
il resto da soli, ne vale la pena. E forse converrete
anche voi che, al netto di tutte le intemperanze
e gli eccessi, Ryan Adams è stato un’autentica
benedizione per chiunque abbia a cuore le rootshighways
americane.