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Ryan Adams & The Cardinals
Cold Roses
[2005]

La scelta di: Fabio Cerbone


Un doppio disco che ai tempi di un'industria discografica con il bastone del comando (e dunque un'epoca che quasi facciamo fatica a ricordarci...) sarebbe potuto uscire in versione singola, tagliuzzato e ricondotto nei ranghi da più miti consigli. Una soluzione che la proverbiale prolificità e la folle confusione che si annida da sempre nella testa e nel cuore del suo autore non ha minimamente preso in considerazione. Per fortuna! Ne è uscito il compendio della sua arte: imprecisa, febbricitante, generosa.

Avevo una scommessa aperta con Ryan Adams, da quando il suo debutto solista, Heartbreaker, si lasciava alle spalle la breve, bellissima parabola dei Whiskeytown, frutto maturo dell’alternative country. Era l’autunno del 2000, collaboravo con un portale di e-commerce della grande editoria, evaporato in pochi mesi dopo quella gaudente bolla che fu la marcia della "new economy". Entrai un giorno trionfante in redazione e dissi a un caro amico, che mi aveva coinvolto in quell’avventura: ascolta questo disco, e mettiamolo subito in vetrina sul sito, perché questo ragazzo farà strada. Sapete, qualcosa del tipo “ho visto il futuro del rock’n’roll”, soltanto circoscritto alla stupida vanità di uno scribacchino che si era inventato da qualche mese uno scalcagnato blog musicale per conto proprio, chiamandolo RootsHighway. Poi arrivarono Gold e sorattutto quella canzone, New York, con il simbolico video, suo malgrado, delle Torri Gemelle alle spalle... E Ryan Adams si era trasformato di botto nel nuovo ambasciatore dell’american rock’n’roll.

Ci è voluto però ancora qualche anno, e una band nuova di zecca, The Cardinals, grazie ai quali condividere l’idea di un suono che sarebbe diventato mediazione e sintesi del concetto di classic rock americano. Aspetto niente affatto secondario, che riassume lo spirito "settantesco" eppure mai nostalgico che pervade ogni nota di Cold Roses, quello che nel 2005 fu il ritorno a casa, artistico e sonoro, di Ryan Adams, l'accogliente abbraccio nelle trame rinnovate della tradizione, fra quelle suggestioni country rock progressive e quelle scie di cosmica americana, che una volta ci fecero inginocchiare in preghiera davanti ai santini dei Whiskeytown o del suddetto esordio solista Heartbreaker. Personaggio incontrollabile (nello stesso anno avrà l’ardire di pubblicare altri due lavori, il languore country di Jacksonville City Nights e il folk minimale di 29), un teppistello che maneggia la storia del rock assecondando i suoi capricci, Ryan Adams avrà pure le sue colpe, vero genio o autentico bluff decidete voi, ma francamente, dietro l’immacolata fotografia delle sue radici di musicista in questo Cold Roses, vibrano soltanto canzoni maledettamente belle, rotonde, che compongono un quadro assai più complesso di quello che si vuol far credere.

Perchè Ryan Adams le canzoni le ha sempre sapute scrivere, ammettiamolo, a volte con l’arte di un fine cesellatore, altre inseguendo il più puro motto di istinto, compresi sprechi e fallimenti, aprendo spazi di memoria, agganci a un passato che rappresenta l'alfabeto stesso dell'american music, quel suo costante misurarsi con l’eredità delle sue roots. A metà del guado, tra le livide suggestioni da ballate al neon e il rock newyorchese di quell’opera da rivalutare che fu Love is Hell, e l’equilibrato sposalizio tra pop e Americana di Gold, Cold Roses è un monumento all'arte della ballata rock urbana, con appendici folk più marcate, ciononostante sempre nuove all'ascolto. I Cardinals sembrano proprio la band adatta a far scattare la scintilla: un combo essenziale per le scorribande del leader, qui più che mai in spolvero vocale, e la produzione di Tom Schick che non fa rimpiangere quell’Ethan Johns anima gemella del nostro agli esordi, ma semmai opta per un suono ancora più corposo e luccicante, ordito che intreccia un arazzo di acustico ed elettrico.

Ryan Adams è in preda a romanticismo e spleen, che gli sgorgano naturali, di struggimenti d'amore che lo rendono particolarmente giudizioso, soprattutto nel primo round di questo doppio album, dove ricorre spesso alle luci soffuse: Magnolia Mountain e Mockingbird scaricano tuoni elettrici e persino un pizzico di psichedelia figlia dei Grateful Dead bucolici, su un tappeto che ha la forma della ballata infusa di soul, ma il resto è tutto una successione di irresistibili ganci folk rock (una Cherry Lane che è classica al primo istante), di melodie dolcissime (Sweet Illusion, When Will You Come Back Home) e apertamente fragili (Now That You're Gone, la pianistica How Do You Keep Love Alive), interrotte solo in un’occasione dallo sbottare di Beautiful Sorta, solita genuflessione al suo mentore Paul Westerberg (Replacements e oltre).

La seconda ripresa risulterà ancora più trascinante, perchè semplicemente compiuta nel riassumere la cifra stilistica di Ryan Adams e ciò che lo ha reso negli ultimi vent’anni uno dei pochi, grandi classici emersi dalla generazione di autori alt-country sbucati dala sperduta provincia americana (l'altro, azzardiamo, Jeff Tweedy), quindi a sua volta punto di riferimento stilitico per altri giovani discepoli a venire: l'incedere armonioso di Let it Ride e If I Am Stranger, il rock dall’infallibile taglio seventies della stessa Cold Roses e di Life is Beautiful, e ancora quella Dance all Night trafitta da un’armonica "dylaniata" che pare aggiornare la miracolosa Firecracker contenuta in Gold, e poi… E poi scoprite il resto da soli, ne vale la pena. E forse converrete anche voi che, al netto di tutte le intemperanze e gli eccessi, Ryan Adams è stato un’autentica benedizione per chiunque abbia a cuore le rootshighways americane.


    



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