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country legend di
Fabio Cerbone (03/12/2012)
Classe
1935, 77 anni compiuti lo scorso aprile, Bobby Bare è a tutti gli effetti
una delle ultime grandi icone country in circolazione, al pari degli amici e colleghi
Kris Kristofferson e Willie Nelson, con cui non a caso si è accompagnato di recente
nel tributo
alle canzoni di Hank Cochran imbastito da Jamey Johnson. Ciò detto, il suo nome
è sempre circolato in ambiti strettamente di genere e soprattutto mai al di fuori
dei confini americani, non raggiungendo insomma quel successo trasversale, anche
in ambito rock, che è toccato agli stessi Nelson o Waylon Jennings. Ed è una profonda
ingiustizia, perché se esiste a Nashville un prototipo di musicista che ha saputo
coraggiosamente rompere barriere e attraversare i generi è proprio lui: esordiente
alla fine dei 50s, traghettatore delle radici folk nel country e nel primo rock'n'roll,
sofisticato interprete che ha mischiato sensibilità pop e scrittura tradizionale,
quindi divulgatore e finanche anticipatore dell'intero movimento outlaw dei Settanta,
Bare ha avuto forse troppe personalità e al tempo stesso un'immagine poco "fuorilegge"
per attecchire su un pubblico più alternativo e meno consevatore.
Uscito
dignitosamente di scena verso la metà degli anni 80, il suo ritorno artistico
fu segnato da The
Moon is Blue del 2005 sotto la direzione del figlio d'arte Bare
Jr., senza scossoni particolari e anzi con la sensazione di un'occasione sprecata
per definire veramente i contorni dell'uomo, del musicista e della sua lunga storia.
Darker Than Light gli rende finalmente giustizia: è il suo testamento
roots, il sigillo che chiude un ideale cerchio e si riappropria del passato di
Bobby Bare, cominciando dal fantasma di Woody Guthrie rievocato nella cover di
Going Down the Road (I Ain't Going to Be Treated This Way), quindi direttamente
richiamato alla memoria nell'autografa Woody
e infine dall'omaggio allo scomparso Shel Silverstein (autore e compare artistico
che gli regalò non pochi successi nel corso dei 70s) nella poesia musicata
The Devil and Billy Markham. Grazie alla guida artistica del ricercatore
country Don Cusic, co-fondatore dell'etichetta Plowboy niente meno che insieme
all'iconoclasta eroe punk Cheetah Chrome (ex Dead Boys) e trascinando nello storico
Studio B della RCA di Nashville una band stellare che ruba pezzi alla Band of
Joy di Robert Plant (tra gli altri Buddy Miller e Randy Scruggs alle chitarre,
Byron House al basso, Marco Giovino alla batteria), Darker Than Light è il personale
"american recording" di Bobby Bare (in scaletta, guarda caso, Dark
as a Dungeon e Tennessee Stud,
che appartennero anche al repertorio di Johnny Cash) una generosa raccolta di
traditional e persino materiale insolito dove mettersi alla prova, darsi una guida,
cercare ancora una ragione per la propria voce.
La quale resta densa e
inaspettatamente profonda nonostante l'età: conservatasi fiera e per nulla spezzata
dalle fatiche, riesce a non apparire ordinaria nell'affrontare di petto classici
quali John Hardy, Shenandoah, Banks
of the Ohio, la murder ballad Tom Dooley,
oppure ancora in una Boll Weevil dal brusco
carattere country blues, tutte riconsegnate a noi con rispetto e mirabile parsimonia.
Più ancora sorprende nel farsi trascinare dalle tonalità disperate di una eccezionale
I Was Drunk (di e con Alejandro Escovedo
alla seconda voce), fra la dolcezza folkie di Farewell
Angelina o nell'impensabile eppure convincente lettura da epica roots
di I Still Haven't Found What I'm Looking For
degli U2.
A volte ritornano, ed è un bene perchè personaggi
come Bobby Bare sono un patrimonio di esperienze, aneddoti, condivisioni musicali
e umane.