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inserito
23/11/2005
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Era
da parecchio tempo che Bobby Bare non realizzava un disco (mancava
dal 1985) e, considerati anche gli exploit dell'omonimo figliolo in ambito
alt.country con i suoi Bare Jr, direi che attorno all'annunciata rentrée
di The Moon Was Blue s'era coagulata parecchia curiosità,
se non altro per constatare come avrebbero potuto interagire nuove e vecchie
leve della roots-music americana. Esordiente nei tardi '50, Bare senior
si è dapprincipio distinto attraverso un crooning dalle ascendenze pop,
più o meno sulla scia di Roy Orbison e Bobby Darin, ed ha finito col traghettarsi
in maniera rocambolesca lungo il corso degli anni '70 (durante i quali
venne definito da Bill Graham "il Bruce Springsteen del country"), stringendo
prima una collaborazione col romanziere Shel Silverstein che ha fruttato
il suo disco migliore e più sottovalutato (il doppio Sings Lullabys, Legends
And Lies del 1973), e poi anticipando le coordinate del movimento americana
in uno Sleeper Wherever I Fall ('78) dove "copriva" alla grande Stones,
Byrds e Rodney Crowell. Chi volesse farsi un'idea delle numerose trasformazioni
stilistiche del personaggio e avesse un portafogli disponibile può rivolgersi
al box All-American Boy, un quadruplo Bear Family di dieci anni
fa; tutti gli altri si accostino alle più abbordabili raccolte singole
(per esempio quella pubblicata dalla Rca nel '97, The Essential Bobby
Bare). Logico, insomma, che le speranze in un buon ritorno fossero
piuttosto alte, ma pur non potendo certo definire The Moon Was Blue
un brutto disco, dopo diversi ascolti non posso fare a meno di notare
(con discreta sicurezza e un pizzico di delusione) come tra gli elementi
che lo compongono non tutto funzioni alla perfezione. La voce soffice
e sinuosa di Bobby c'è ancora e le canzoni, pescate in un repertorio di
torch-songs inossidabili che va dalla Percy Faith di My Heart Cries
Out all'indimenticabile Silverstein di The Ballad Of Lucy Jordan,
dal Fred Neil di Everybody's Talkin' (in versione a dirla tutta
un po' pleonastica) fino alla classicissima It's All In The Game,
pure. Ci sono anche un grande chitarrista come Kenny Vaughn e la
batteria quanto mai elegante di Paul Burch, quindi il problema
deve in qualche modo risiedere nel lavoro in cabina di regia di Mark
Nevers e del figliolo Bobby Bare Jr: un "labor of love", senz'ombra
di dubbio, ma sin troppo ossequioso, certamente per eccesso di amore e
rispetto, nei confronti di una tradizione a conti fatti sorpassata e di
un determinato tipo di country orchestrale che, dopo il Willie Nelson
di Stardust, non ha forse più senso suonare o intendere in maniera così
volutamente arcaica, passatista, demodé. La classe e la raffinatezza vocale
di Bobby Bare sono ancora intatte; diciamo allora che gli è stato costruito
intorno un disco altrettanto forbito nell'eloquio, capace sì di suscitare
rispetto ma un po' difficile da amare. |