Sembrava
ormai essere stata messa in soffitta la carriera solista di Steve Wynn,
ferma al 2010 e a quel Northern
Aggression che non aveva poi scatenato troppe reazioni entusiaste.
Poi la riuscitissima ripartenza dei Dream Syndicate e la constatazione
che persino i dischi dei Baseball
Project vendono meglio di quelli a suo nome, lo ha spinto a ritornare
a una dimensione da band-leader, con esiti creativi più che incoraggianti.
Per questo Make It Right arriva un po’ a sorpresa, ma la
ragione di un ritorno al sentiero solitario è la contestuale pubblicazione
di una autobiografia (I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True), in
cui Steve si lascia andare a storie e aneddoti di una carriera ormai più
che quarantennale.
E le canzoni di Make It Right sono nate proprio durante la stesura
del libro, quasi che ogni tanto un ricordo abbia scatenato anche la voglia
di scriverci il testo di una canzone. E sebbene esca a suo nome, è anche
una occasione di riunire in studio parecchi amici e collaboratori storici
come Stephen McCarthy, Scott McCaughey, Vicki Peterson delle Bangles,
Jason Victor, Mike Mills dei R.E.M., fino a Chris Schlarb (Psychic Temple)
e Emil Nikolaisen (Serena Maneesh), oltre all’immancabile compagna di
vita Linda Pitmon. A produrre il tutto nessun nome giovane o alla moda,
ma bensì il vecchio Eric “Roscoe” Ambel (fu chitarrista dei Del Lords),
uno che in studio è ancora in grado di ricreare quel suono da rock carbonaro
degli anni 80 senza apparire pateticamente stanco e sorpassato.
Non si tratta di passatismo spinto, quanto più della constatazione che
alla fine il nome Steve Wynn è da sempre legato ad un suono ben preciso,
fatto di chitarre acide, sporche, con i suoni dei garage delle band anni
60 nel motore, e una marca personale ormai riconoscibile in qualunque
progetto abbia preso parte. Il disco andrebbe ascoltato quindi durante
la lettura del libro (in UK e Usa è appena uscito, se volete invece leggerlo
in italiano, la benemerita Jimenez ne ha già annunciato la pubblicazione
per gennaio 2025), ma, anche senza, Make It Right riprende il suo
discorso solista esattamente là dove lo aveva interrotto, ma con più varietà
di elementi e stili.
Troviamo così steel-guitars a dare un tocco quasi country alla title-track
o a You’re Halfway There, i fiati e cori che puntellano l’iniziale
Santa Monica, i violini che addolciscono
la ballata Madly, o ancora la tromba al sapore tex-mex di
Cherry Avenue, tutto concorre a rendere più avvincente un album
che conferma comunque lo stile-Wynn al 100%. Persino la drum-machine che
affiora in What Were You Expecting, o una Then
Again che lo riporta alle atmosfere intime e acustiche che
furono di un album come Fluorescent non spostano di troppo la sensazione
che Steve non abbia molto di nuovo da proporci, ma tantissimo ancora da
raccontarci di una favola rock tra le più belle e artisticamente felici
della musica americana.
Nel gran finale un po’ acido e lo-fi di Roosevelt
Avenue c’è tutto quello spirito da musica da garage che permane
intatto anche in un disco che rappresenta uno degli sforzi produttivi
più studiati e attenti ai particolari della sua lunga carriera.