Sebbene sia “in pista” dal
1966, Richard Thompson ha “solo” 75 anni, e se avete letto la sua
autobiografia (Beeswing,
in Italia tradotta e pubblicata dalla Jimenez), vi sarete resi conto che
a vent'anni aveva già fatto abbastanza per entrare nella storia della
musica, anche se per i tempi era persino usuale (pensiamo a Steve Winwood).
Questo per dire che il fatto che per la prima volta nella sua lunga carriera
si sia preso una pausa discografica di ben sei anni dal precedente 13
Rivers, davvero irrituale per uno stacanovista discografico come lui,
non deve suonare come un sintomo di stanchezza, ma di giusta calma di
qualcuno che, ancora pieno di forze, non ha bisogno più di correre per
sfogarle.
Thompson fa parte di quella schiera di autori stranieri (penso, per esempio,
anche a Bruce Cockburn) dalla carriera praticamente perfetta, eppure oggetto
di un culto quasi carbonaro in Italia. Non è tuttavia per pura abitudine
di parlarne bene (forse giusto per Front Parlour Ballads nel 2005
siamo stati freddini su queste pagine) che ve lo proponiamo come disco
del mese, ma solo perché Ship To Shore ribadisce, se mai
ce ne fosse bisogno, come si scrive e come si deve suonare una canzone
folk-rock. E come magari - pur lavorando ovviamente anche molto di mestiere,
come nell’iniziale Freeze o in Turnstile Casanova, che entrano
nel suo lungo catalogo di veloci cavalcate alla Tear Stained Letter
(per citarne una divenuta anche famosa e riletta da molti) - già una The
Fear Never Leaves You o una What’s
Left To Lose appaiano quali piccole opere d’arte di songwriting,
e visto che parliamo di un maestro in tutti i sensi (da sempre svolge
anche l’attività di insegnante di chitarra e musica), direi anche un vero
e proprio manuale d’istruzioni per i cantautori più giovani (e ce ne sono
che sicuramente tengono i suoi dischi in bacheca, penso a Sam Amidon o
Steve Gunn).
Per il resto, chi lo segue da tempo e legge i credits (si torna all’autoproduzione
stavolta, dopo una serie di incontri con produttori importanti come Jeff
Tweedy o Buddy Miller) sa che prima o poi lo splendido batterista Michael
Jerome darà spettacolo (accade ad esempio in Trust),
sa che il violino di David Mansfield entra sempre con tatto e gran gusto
nella canzone senza invadere il campo (Singapore Sadie), e che
quando Richard si siede con l’acustica e intona una triste ballata come
The Day That I Give In ci ricorda
quanto sia un raro miracolo che un musicista tecnicamente perfetto sia
anche una autore e interprete così sensibile.
Visto che i complimenti si sprecano, poi magari togliamo un briciolo di
eccessiva benevolenza alla recensione notando che dopo il brillantissimo
Sweet Warrior
del 2007, anche lui ha un po’ smesso di cercare variazioni al tema e viaggia
sempre sul sicuro (brani come The Old Pack Mule o il lungo assolo
di Maybe potremmo dire che esistevano già nel suo repertorio, repetita
iuvant insomma), ma non è più tempo di rischiare per nessuno ormai, e
basta una Lost In The Crowd a renderci
felici del fatto che Thomspon sia sempre qui con noi a raccontarci le
sue storie.