Seduto sul tetto del mondo
dell’Americana, ormai punto di riferimento stilistico egli stesso e testimone
tra i più autorevoli dell’ultima generazione di songwriter rock tradizionalisti,
Jason Isbell attendeva forse uno scossone che lo facesse uscire
da quella zona confortevole, da quella sorta di quieto vivere che album,
pur apprezzabili, come The
Nashville Sound e Reunions,
avevano restituito all’ascolto. Complice forse la recente occasione cinematografica,
con la partecipazione per la prima volta in veste di attore in Killers
of the Flower Moon di Martin Scorsese, o ancora l’idea di dover ripartire
dopo la pandemia senza gli appigli del passato (il suo produttore storico,
Dave Cobb, qui assente), tutto si è concretizzato in Weathervanes,
l’opera più significativa, ambiziosa e viva che Isbell abbia prodotto
da diversi anni a questa parte.
L’intesa con la band, The 400 Unit, ancora accreditata in condivisione
con il protagonista principale, e la produzione in prima persona (con
un aiuto in sede di missaggio finale da aprte di Matt Pence) hanno fatto
il resto, liberando una musicalità intensa e dolorosa al tempo stesso,
che mancava ai predecessori, pur tenendo fede a un sound riconoscibile.
Quest’ultimo ondaggia ancora fra melanconiche ballate acustiche (i momenti
in cui il songwriting di Jason esce allo scoperto più limpido e indifeso),
tempi medi elettrici e sferzate sudiste, dando però più peso all’intreccio
fra melodia e voce, alla forza dell’interprete stesso, che qui mette a
nudo l’American way of Life, la sua solitudine senza fondo, attraverso
un viaggio che si agrappa al personale, parlando dello scontro fra amore
e depressione, responsabilità dell’età adulta e fragilità egoistiche,
fra ritratti da working class e tensioni da uomo di successo.
Introdotto dalla drammaticità delle liriche di Death
Wish e da un senso di afflizione che si trasmette alla stessa
parte musicale, una circolarità tra elettrico e acustico, Weathervanes
offre un ruolo sempre importante al violino della compagna Amanda Shires
(a partire dalla classica Kings of Oklahoma), ma lo rende una parte
del dialogo corale dell’album, offrendo l’impressione che The 400 Unit,
e in particolare le chitarre della “spalla” Sadler Vaden e le tastiere
di Derry Deborja, rappresentino adesso una voce sola. Quando occorre si
fanno un po’ in disparte, accennano essenziali dettagli, esaltando la
solitudine del folksinger nella dolcissima veste country folk di Strawberry
Woman (all’armonica l’ospite Mickey Raphael) o nella commovente
Cast Iron Skillet, per chitarra,
accordion e violino, mentre in Middle of the Morning e Volunteer
proteggono (e celebrano) il suono di Isbell e loro stessi con un equilibrio
tra enfasi e candore.
All’appello mancano i momenti più rock, che potrebbero persino essere
i meno interessanti se volessimo provocare un po’: senza dubbio Save
the World strizza l'occhio troppo genericamente a un mix di Americana
e indie rock, e When We Were Close pare una (bella) replica del
Ryan Adams più ispirato, ma già a partire dall’inno southern di Vestavia
Hills, ballata elettrica intrisa di soul e delle origini stesse
del musicista Isbell, si capisce che il finale sarà un crescendo continuo
ed entusiasmante. A riprova, dopo la decompressione di White Beretta,
altra ballad che pare addirittura recuperare la scrittura giovanile dell’Isbell
ai tempi dei Drive-By Truckers, arriva l’uno due di This
Is Ain’t e Miles. Insieme
fanno tredici minuti di classicità rock nei quali The 400 Unit partono
dai riff degli Stones, attraversano gli sconfinati campi sudisti dell’Allman
Brothers Band, fanno visita agli Heartbtreakers di Tom Petty e bussano
alla porta di Neil Young, liberando le chitarre, le voci e l’interazione
totale fra i musicisti, in attesa magari di espanderla ancora di più dal
vivo.